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Quella sfrenata corsa alla terra

Annalisa Mauro, della International Land Coalition, sul fenomeno del land grabbing, fra violazioni di diritti, corruzione, crisi alimentare e piccoli eroi.
Mauro, Annalisa
Foto: Annalisa Mauro

Nella piccola grande realtà altoatesina - precisamente all'Eurac di Bolzano -, martedì 24 ottobre, si discuterà di land grabbing, letteralmente “accaparramento delle terre”, in occasione della Giornata della cooperazione allo sviluppo organizzata dall’Ufficio affari di gabinetto della Provincia. Fra gli ospiti ci sarà anche Annalisa Mauro, esperta e coordinatrice di monitoraggio del terreno della International Land Coalition (ILC), una rete nata nel 1995 con il proposito di “rendere sicuri i diritti alla terra per le persone che vivono di questa risorsa preziosa e limitata” e cresciuta esponenzialmente fino a contare oggi più di 200 membri (agenzie ONU, organizzazioni della società civile, istituti di ricerca, associazioni di contadini) in più di 60 paesi. ILC sostiene attivisti in tutto il mondo che si oppongono al land grabbing e che spesso vengono perseguitati per il loro lavoro.

 

salto.bz: Di cosa parliamo quando parliamo di land grabbing?

Annalisa Mauro: Dell’acquisizione o dell’affitto di vaste porzioni di terre da parte di investitori stranieri. Il problema è che opporsi agli investimenti di larga scala in agricoltura appare spesso come un freno allo sviluppo, un invito a perpetrare la povertá rurale. Va detto che l’evoluzione della tematica agraria nasce dall’ingiustizia fra i grandi latifondisti e chi si ritrova senza terra, con dinamiche locali di abusi sistematici e di non riconoscimento di diritti delle persone impiegate come bassa manovalanza. La nostra organizzazione ha quindi appoggiato progetti di riforma agraria di ridistribuzione della terra. Nel 2007 un evento in particolare mischia le carte in tavola, avviene un forte cambiamento che dal nazionale diventa, in maniera dirompente, globale.

"Opporsi agli investimenti di larga scala in agricoltura appare spesso come un freno allo sviluppo, un invito a perpetrare la povertá rurale"

Sono gli anni della crisi alimentare.

Esatto, una crisi che esplode nel 2008, i prezzi dei beni alimentari arrivano alle stelle, si sollevano movimenti di massa, proteste varie, ci sono le guerre del pane che provocano vittime e feriti. Questo innalzamento dei costi innesca un meccanismo per cui la terra viene vista come fattore essenziale di produzione a livello globale. C’è quindi una corsa al cosiddetto land grabbing che spiana la strada a progetti speculativi ma che guida anche paesi che hanno una disponibilità o una qualità della terra limitata, nel primo caso penso al Giappone e alla Corea e nel secondo ai paesi arabi. Tutte queste nazioni a un certo punto si sono “svegliate” e hanno deciso di voler tutelare la propria sicurezza alimentare e quindi garantire la fornitura di cibo senza essere dipendenti dalle variazioni di prezzo del mercato, puntando sull’acquisizione di terre in altri paesi. 

Un esempio?

Il caso della Daewoo, multinazionale sudcoreana, che nel 2008 ha cercato di comprare ben 1,3 milioni di ettari di terre in Madagascar, ne sono scaturite una serie di proteste che hanno portato nel 2009 alla caduta del governo. Succede che a un certo punto la quantità, ma anche la velocità, delle transazioni hanno un’accelerazione e un’espansione notevoli. Entrano in gioco fondi di investimento e diversi Stati che vogliono comprare la terra in modo piuttosto incontrollato. Naturalmente questo genera tutta una nuova conflittualità in cui gli attori non sono necessariamente locali ma anche globali, perciò, ad esempio, il contadino senegalese si trova ad avere a che fare con una compagnia italiana. E tutto questo diventa rilevante e allarmante, e da qui scattano le coperture mediatiche.

Non era chiara fin da subito la differenza fra investimento e accaparramento di terra?

Proprio per questo motivo nel 2011 durante un’assemblea dei nostri membri a Tirana definiamo la distinzione fra land grabbing e investimento. Nel primo caso c’è evidentemente una violazione di diritti umani, che peraltro coinvolge spesso le donne. Un investimento, in effetti, non dovrebbe avere alcun impatto sui diritti umani. Un altro punto importante di differenziazione è che nel land grabbing non si applica il consenso previo, libero e informato delle popolazioni locali. Prima di fare un investimento si deve informare anticipatamente gli abitanti del territorio e dare loro libertà di scelta sull'accettare o meno un possibile investimento. Altra discriminante è la necessità di una valutazione rigorosa degli impatti sociali, economici e ambientali degli investimenti e questo non sempre avviene, oppure se lo si fa ciò avviene attraverso documenti molto tecnici, difficili da decifrare. E poi, se la comunità è unita e forte allora passa attraverso i processi di consultazione in maniera indenne, altrimenti si creano fratture interne, di genere oppure generazionali, con gli anziani che tendono più a dire di no agli investimenti a differenza dei giovani. Nel processo di acquisizione è fondamentale la partecipazione democratica della popolazione coinvolta e anche la trasparenza, eppure ci sono contratti che vengono ancora secretati. Abbiamo una matrice che si chiama land matrix, un punto di rifermento per la comunità internazionale per capire il trend sulle grandi acquisizioni di terra. Con questo strumento cerchiamo di accedere a questi contratti e posso dire quindi per esperienza diretta che è tutto piuttosto complicato. Quello che cerchiamo di fare è di rendere questi contratti trasparenti, appunto, anche per capire se ci sono benefici condivisi.

"Ci sono comunità che vivono in quelle terre da sempre e da essa dipendono, e non si sono mai preoccupate di procurarsi un pezzo di carta che gli riconoscesse quel diritto al terreno semplicemente perché fino a quel momento non era necessario"

Quanto è diffuso il land grabbing?

Nel 2016 Grain, un’organizzazione non governativa che monitora il fenomeno dell’accaparramento delle terre nel mondo (in particolare nei Paesi più poveri) da parte di investitori esteri sia pubblici che privati documenta, a otto anni dal primo report, circa 500 casi di appropriazione delle terre in tutto il mondo. 491 contratti per un totale di 30 milioni di ettari di terra in 78 Paesi. Con la ILC abbiamo monitorato più di 48 milioni di ettari di transazioni di terra, oltre alla tracciabilità del flusso finanziario degli investimenti.

Al land grabbing si associa spesso una forma di neocolonialismo, ma evidentemente non sono solo i paesi occidentali a partecipare alla corsa per l’accaparramento. 

Paesi asiatici come Malesia, Cina, India, Singapore sono grandi investitori, poi ci sono naturalmente gli Stati Uniti, l’Inghilterra, l’Olanda e anche gli Emirati arabi. A vendere sono i paesi in via di sviluppo, ma pure paesi dell’Asia centrale, come l’Ucraina, e poi l’Indonesia, la Repubblica democratica del Congo, il Brasile, che è sia investitore che meta di investimento. Insomma non si parla solo di Africa pur essendo il continente che totalizza il maggior numero di transazioni, perché ci si basa sulla concezione erronea della terra nullius e cioè della terra che non appartiene a nessuno, per cui può essere acquisita o concessionata. In realtà ci sono comunità che vivono in quelle terre da sempre e da essa dipendono, e non si sono mai preoccupate di procurarsi un pezzo di carta che gli riconoscesse quel diritto al terreno semplicemente perché fino a quel momento non era necessario. 

Non si tiene quindi conto di chi vive in queste terre?

Ci sono casi di abusi drammatici. In verità quello che abbiamo osservato con il land matrix è che con il tempo questa tipologia di investimenti si è un po’ normalizzata, nel senso che molte delle acquisizioni fatte entrano ora in quella fase di produzione in cui occorre capire come vengono distribuiti i benefici, e in questo senso è stato molto difficile all’inizio, con il land matrix, trovare dei casi positivi. Oggi si parla più di co-sharing dei benefici. C’è da dire poi che esistono molti casi eclatanti di investimenti, come quello della Coca-cola, e nel 2013 il dossier “Zucchero amaro: quali diritti sulla terra nelle filiere di produzione delle multinazionali del cibo?” di Oxfam che fu parte della campagna Scopri il Marchio (Behind The Brands), mise in luce il fatto che la gran parte delle multinazionali alimentari erano coinvolte nel land grabbing. Molti casi di accaparramento di terre sono legati a monocolture, e la produzione non cambia solo il paesaggio sociale ma anche quello naturale. Territori che prima venivano utilizzati in maniera diversa, in diversi momenti dell’anno con diverse tipologie di produzione nello stesso appezzamento, sono diventati delle estensioni impressionanti di produzione di monocoltura, come la soia o la palma da olio.

"Se da una parte c’è una normalizzazione dei processi di investimento dall’altra sempre più difensori della terra vengono assassinati"

È dunque rischioso per chi vive in queste zone solo parlare di land grabbing.

Sono dei piccoli eroi. Monitoriamo un incremento allarmante dell’uccisione dei difensori della terra, con metodi anche piuttosto cruenti. Fra gli esempi più noti c’è quello di Berta Cáceres, attivista honduregna uccisa nella sua casa di La Esperanza a causa del suo impegno nella difesa dei diritti degli indigeni lenca e delle loro terre contro lo sfruttamento minerario ed energetico delle grandi aziende. Se da una parte c’è quindi una normalizzazione dei processi di investimento dall’altra parte sempre più difensori della terra vengono assassinati. L’alternativa per queste persone e per quelle che vivono in questi territori sarebbe lasciare tutto e andare via. 

 

Che è quello che succede frequentemente, dato che il fenomeno dell'accaparramento della terra è una delle cause delle migrazioni.

Bisogna investire in uno sviluppo rurale che riconosca il ruolo dei contadini e questo non avviene. Fare in modo che la gente non emigri dovrebbe essere il primo passo verso il riconoscimento, in quei paesi, di un’opportunità che va sostenuta. Perché sulla capacità di assorbimento di forza lavoro come risultato degli investimenti non abbiamo evidenza che le promesse fatte siano mantenute. E nel momento che la redistribuzione delle terre viene fatta in modo perlopiù arbitrario le persone, come è prevedibile che avvenga, prima si ribellano e poi vengono a bussare alla nostra porta. Dobbiamo cercare di porre l’accento sull’importanza di legare la gente alla propria terra. Una volta che le persone si muovono, senza averlo scelto ma perché ne hanno la necessità o sono costrette a farlo, si crea una frattura molto più faticosa poi da rimarginare. Lo spostamento, fra l’altro, è dovuto anche al fatto che queste terre spesso vengono recintate.

"Ho il privilegio per il lavoro che faccio di visitare molti paesi diversi e mi rendo conto che la violenza legata alla terra è uguale ovunque"

 

Lo ha constatato anche attraverso un’esperienza diretta?

Sì, mi ricordo di un viaggio che avevo fatto nel nord dell’Uganda, in Karamoja, un luogo che per lungo tempo ha vissuto un conflitto interno, una zona di pastori, che mi chiedevano perché cominciavano a spuntare recinti sulla loro terra, per poi scoprire che c’era la società egiziana che voleva estrarre il marmo, quella americana l’oro, eccetera. E quindi tutta la terra che apparteneva a questa gente viene parcellizzata, senza capire come e perché, del resto le società che investono hanno sicuramente degli interlocutori nei paesi in questione ma la loro identità non è sempre chiara. Ho il privilegio per il lavoro che faccio di visitare molti paesi diversi e mi rendo conto che la violenza legata alla terra è uguale ovunque. Ho iniziato a lavorare prevalentemente in America latina, in Guatemala, Perù, Repubblica dominicana, Ecuador, Nicaragua, che sono tutte realtà molto rurali. In Colombia, per esempio, il processo di pace nasce dal primo accordo che è stato fatto proprio sulla terra, causa del conflitto che è durato più di 50 anni. Nuovi investimenti stanno arrivando con un incremento delle concessioni che vengono date ai privati parallelamente però aumentano anvhe i difensori uccisi. O la Cambogia, che è un paese che si restringe rispetto ai vicini che invece si espandono, anche lì i processi democratici sono recenti e trovare una finestra di interlocuzione fra la società civile e il governo è un iter lento. 

Nel quadro d’insieme si suppone che abbia un peso non indifferente anche la corruzione.

Da una parte la corruzione, dall’altra la non tracciabilità delle azioni, la cattiva fede. Sono come scatole cinesi, occorre risalire a chi è l’investitore primario e chi sono i secondari legati a quel flusso specifico di investimenti, e non è un’impresa semplice. 
 

Landgrabbing: Eine animierte Einführung ins Thema Landraub

 

Se dovesse individuare una soluzione praticabile per salvaguardare i diritti delle vittime del land grabbing?

Prima di tutto ci vuole una risposta immediata attraverso la denuncia della violazione avvenuta, la nostra organizzazione ha inoltre stabilito un fondo di protezione per i difensori della terra. Il punto è che è difficile dire di no a un investimento soprattutto per un governo che non può contare su una liquidità. Ma investire nel rispetto dei diritti è una conditio sine qua non. Occorre rendere più consapevoli queste comunità, tradurre nella loro lingua gli strumenti legali che servono per difendersi, per esempio. Sono tante le risposte che, messe insieme, possono costituire una strategia vincente. 

Le nostre scelte di consumo possono promuovere il problema del land grabbing?

Certo, motivo per cui si raccomanda una scelta consapevole dei beni. Sull’olio di palma per esempio c’è molto dibattito, ma non è il prodotto in sé la causa di tutti i mali ma piuttosto come quel determinato investimento sia più o meno invasivo su certe realtà.

Ci sono fondi pensionistici che investono in società di intermediazione che comprano direttamente la terra. Il piccolo risparmiatore può quindi anche in modo inconsapevole partecipare alla corsa alle terre? 

È vero, ci sono fondi europei, e anche americani, che investono a questo scopo. Ecco perché il consumatore deve esigere trasparenza e verificare che tutto si sia svolto in modo corretto e questo, va da sé, è ancora un processo in fieri. Di strada ce n'è ancora molta da fare.