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Lesbo: tomba d'Europa, inferno di Stato

L'isola greca trasformata in prigione a cielo aperto. Dall'incendio di Moria al nuovo campo governativo, tra respingimenti illegali e criminalizzazione della solidarietà.
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Foto: privat

A partire dal 2015 l'isola di Lesbo è stata gradualmente trasformata in un laboratorio europeo dove vengono messe a punto pratiche sempre più repressive e disumane nei confronti dei migranti, soprattutto siriani e afghani, che tentano di raggiungere le porte dell’Europa. Il campo di Moria con oltre ventimila persone al suo interno (di fronte a una capienza di tremila) è diventato presto il simbolo più lampante delle politiche comunitarie e governative di mancata accoglienza.

Il virus veniva percepito come un pretesto per tenerci sempre più prigionieri. Quando qualcuno risultava positivo scattava un vero e proprio arresto: la polizia e il personale delle principali organizzazioni facevano irruzione di notte nelle tende, portavano via le persone davanti ai bambini come fossero criminali

Negli ultimi sei mesi l'intera area è stata sottoposta a un rigido lockdown a causa dell’epidemia di Covid-19 dilagante anche sull'isola. “I mesi del confinamento sono stati duri. Non venivano fornite informazioni, nessuno spiegava alle persone che potevi essere malato anche in assenza di sintomi - mi spiega un ragazzo afghano incontrato durante la mia breve permanenza sull’isola -. Il virus veniva percepito come un pretesto per tenerci sempre più prigionieri. D’altronde quando qualcuno risultava positivo scattava un vero e proprio arresto: la polizia e il personale delle principali organizzazioni facevano irruzione di notte nelle tende, portavano via le persone davanti ai bambini come fossero criminali”.

Consistenti forze di polizia erano schierate per impedire alle migliaia di persone stipate nel campo di fuggire e 850.000 euro erano stati stanziati per costruire un muro per facilitare il contenimento. Una barriera che non ha fatto in tempo a vedere la luce perché il punto di non ritorno è giunto prima del previsto: l’8 settembre un enorme incendio, partito dagli uffici dell’UNHCR e dal centro di dentenzione, ha distrutto l’intero campo. “Le grandi organizzazioni e le forze di polizia che hanno operato a Moria hanno grosse responsabilità per tutto questo” continua il giovane rifugiato.
Quella notte migliaia di persone si sono riversate per strada con la polizia che impediva loro di scappare verso la città e neofascisti che tendevano dei veri e propri agguati. Alcune proteste, scandite dal grido “Mai più Moria”, si sono susseguite nei giorni a venire. Manifestazioni pacifiche con donne e bambini in prima fila, che si opponevano al trasferimento all'interno del nuovo campo governativo, sono state represse violentemente con un fitto lancio di lacrimogeni e l'utilizzo di idranti.

 

Quel che resta di Moria

 

Cammino tra le macerie di Moira con un nodo alla gola impossibile da descrivere.
A distanza di un mese l’odore pungente del fumo persiste ancora. Desolazione e devastazione sono le uniche cose che è possibile scorgere fino all’orizzonte, con i container collassati e gli scheletri bruciati delle tende improvvisate che dominano il paesaggio circostante.
Qualcuno raccoglie delle vecchie lamiere, destinate probabilmente a costruire nuove baracche, ma c’è anche chi, ai margini delle macerie del campo, a Moria vive ancora. Un cittadino del Bangladesh si regge il fianco, soffre di una malattia al fegato, e ricorda gli istanti dell’incendio che gli ha fatto perdere quel poco che aveva. Più avanti incontro diversi bambini che giocano tra le carcasse del campo. Non superano i cinque anni. Sono malnutriti, scalzi, chi senza maglietta, chi senza pantaloni. Due uomini adulti stanno raccogliendo altro materiale, mentre la madre a gesti mi chiede dell’acqua per i bambini, sulla quale si fiondano immediatamente.
Dopo l’incendio tremila persone, soprattutto minori non accompagnati, sono state evacuate sulla terraferma mentre ottomila sono state trasferite in un nuovo campo, eretto in poche settimane nei pressi di Kara Tepe.

 

Il nuovo campo della vergogna

 

Il neonato insediamento è stato immediatamente ribattezzato "Moria 2", ma diversi migranti e attivisti denunciano un netto peggioramento delle condizioni di vita, a partire dal luogo in cui è stato installato: un'ex area militare situata su una delle zone più fredde e ventose dell'isola. Centinaia di tende estive marchiate UNHCR sono collocate direttamente sulla spiaggia, a pochi passi dal mare.

L’accesso al campo è interdetto: un considerevole dispiegamento di forze dell’ordine in assetto antisommossa ne controlla i perimetri e gli accessi, perquisendo i residenti all'entrata e tenendo lontano sguardi scomodi. All'interno invece moltissimi poliziotti si alternano giorno e notte per pattugliare le tende. Le uniche testimonianze sulle condizioni del campo arrivano solamente dai migranti stessi. Non ci sono docce e acqua corrente, ci si lava direttamente nelle acque del mare. I pochi wc chimici presenti non sono mai stati puliti. Gli uomini soli vivono ammassati in un unico grande tendone mentre il 40% della popolazione del campo è costituita da bambini. I casi di Covid sono già molti e - viste le condizioni - destinati ad aumentare drammaticamente. Il cibo, di pessima qualità, viene distribuito solamente una volta al giorno.

In una settimana il campo è finito allagato ben due volte a causa delle piogge stagionali, la seconda proprio mentre mi trovavo sull’isola. Un temporale di quindici minuti è stato sufficiente per trasformare l’intero accampamento in una risaia, mentre alcune tende erano state abbattute dalle forti raffiche di vento già ore prima.

  

"A Lesbo non c’è spazio per la solidarietà"

 

Il governo greco ha annunciato nelle scorse settimane la volontà di smantellare le uniche esperienze virtuose dell’isola. Una di queste è Pikpa, un campo auto-organizzato e gestito dal 2012 dalla comunità stessa e dagli attivisti di Lesvos Solidarity e che, con pochissime risorse, è diventato e continua ad essere un rifugio all'avanguardia per i migranti più vulnerabili dell’isola.

Noi ci schieriamo contro il trend nazionale ed europeo, che vuole i migranti imprigionati in condizioni infernali. La volontà del governo è chiara ma noi continueremo a resistere

Più di trentamila persone sono transitate da Pikpa che attualmente conta un centinaio di residenti, inclusi minori non accompagnati, madri sole, vittime di tortura, malati di cancro e soggetti LGBT. Le autorità sembrano non tollerare forme di accoglienza al di fuori delle soluzioni governative. Il nuovo campo era stato inizialmente annunciato come misura di accoglienza temporanea, ma al contempo il governo greco ha stanziato 2,9 milioni di euro per l’affitto del terreno per i prossimi cinque anni, mentre sta prendendo forma l’accordo da 85 milioni per la costruzione di un ulteriore centro di detenzione in mezzo ai boschi dell’isola, lontano da tutto e da tutti. Briciole rispetto a Moria che sarebbe costato oltre 2,6 miliardi. "Con tutti quei soldi ci saremo comprati l'isola. Dove sono finiti?" si interrogano alcuni attivisti.

“Nessuno dovrebbe stare nel nuovo campo - afferma Carmen, attivista di Lesvos Solidarity -. Deve essere chiuso immediatamente. Abbiamo bisogno di luoghi come Pikpa, spazi in cui le persone sono seguite e al sicuro, dove vengono trattate con dignità e solidarietà. Noi ci schieriamo contro il trend nazionale ed europeo, che vuole i migranti imprigionati in condizioni infernali. La volontà del governo è chiara ma noi continueremo a resistere”.

 

Alla deriva

 

Accanto alle precarie condizioni di non accoglienza, l'isola di Lesbo deve fare i conti anche con i respingimenti illegali e disumani divenuti prassi sulla Eastern Route, la rotta migratoria marittima che i migranti intraprendono dalle coste turche per tentare di arrivare in Europa.
A parlarmene è direttamente Philipp Hahn, capitano e capo missione della Sea Watch e della Mare Liberum, imbarcazione utilizzata inizialmente per le operazioni di ricerca e soccorso e riconvertita alle missioni di monitoraggio dell’Egeo. In breve tempo la nave e l'equipaggio sono diventati l’unico strumento di denuncia in grado di riportare gli abusi perpetrati da NATO, guardia costiera greca e turca e dall’agenzia europea Frontex. Più di 200 sono i respingimenti illegali che Mare Liberum è stata in grado di documentare dal mese di marzo, con oltre 7300 persone intercettate e lasciate alla deriva dalle navi militari europee.

Sono state riportate diverse modalità con le quali i pushback avvengono. In alcuni casi i gommoni utilizzati dai migranti vengono privati del motore e successivamente abbandonati in acque turche. Durante i mesi estivi le autorità hanno affinato nuove pratiche tanto grottesche quanto illegali: le zattere galleggianti, generalmente utilizzate per i salvataggi, vengono utilizzate per stipare all'interno i migranti intercettati sia in mare sia dopo lo sbarco. In quest'ultimo caso la polizia greca dà vita a una vera e propria caccia all'uomo che termina con il solito triste epilogo: l'abbandono al largo e la presa in consegna, nella migliore delle ipotesi, da parte della guardia costiera turca.

La criminalizzazione delle ONG attive nelle isole dell’Egeo nord-orientale, non si è fatta attendere molto. Il 5 settembre la Mare Liberum è stata fermata dalle autorità di Atene, che ha perquisito la nave e sequestrato i dispositivi elettronici. Dopo quindici giorni è stato annunciato l’avvio di un'indagine nei confronti di 35 persone, di cui 33 appartenenti a quattro diverse ONG, per una serie di gravi reati quali spionaggio, violazione dei segreti di stato e del codice dell’immigrazione assieme alla costituzione di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di esseri umani.

La polizia ha volutamente creato un vuoto, abbandonando la legge e le strade in mano ai fascisti


Oltre alla scure giudiziaria l’equipaggio della Mare Liberum e i diversi attivisti presenti sull’isola devono fare i conti con le numerose aggressioni di stampo neofascista che si alternano ogni giorno, anche dopo la recente messa al bando dell’organizzazione Alba Dorata. “A febbraio siamo stati aggrediti proprio qui” racconta Philipp dal ponte della nave mentre indica la spiaggia di Skala Loudron. “I fascisti ci hanno rincorso, preso a sassate, hanno minacciato di bruciare l’imbarcazione. Attacchi di questo tipo si vedono ogni giorno. Aggrediscono migranti, attivisti, operatori e giornalisti. La polizia ha volutamente creato un vuoto, abbandonando la legge e le strade in mano ai fascisti. Senza un vero motivo - continua -, perché la polizia è perfettamente in grado di adempiere a qualunque sia il suo lavoro. Lo abbiamo visto durante le manifestazioni pacifiche dei rifugiati che si opponevano al nuovo campo: in quell’occasione non hanno avuto alcun problema ad usare violenza e lacrimogeni contro donne e bambini”.

 

 

 

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Karl Trojer Mer, 10/28/2020 - 11:34

Dass die Europäische Union und deren Staaten solche menschenverachtende Zustände zulassen, dafür schäme ich mich Europäer zu sein ! Unsere Kultur hat ihre Wurzeln in Syrien und dem Irak, und wir verweigern diesen Flüchtlingen ein würdiges Lebensrecht; das ist unerträglich !

Mer, 10/28/2020 - 11:34 Collegamento permanente