Politica | Honduras Hintergrund

Honduras al voto, democrazia lontana

A quattro anni a mezzo dal colpo di Stato del giugno 2009 il Paese centroamericano torna alle urne per scegliere il nuovo presidente. Potrebbe vincere Xiomara Castro, moglie di Mel Zelaya, colui che venne deposto dai golpisti.
Altreconomia ha intervistato Karla Lara, cantante impegnata nel movimento di resistenza
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Altreconomia.it: Esteri A ottobre è nata la Polizia miltare: si rischia una escalation di violenza

A quattro anni a mezzo dal colpo di Stato del giugno 2009 il Paese centroamericano torna alle urne per scegliere il nuovo presidente. Potrebbe vincere Xiomara Castro, moglie di Mel Zelaya, colui che venne deposto dai golpisti. 
Altreconomia ha intervistato Karla Lara, cantante impegnata nel movimento di resistenza di Luca Martinelli - 20 novembre 2013  

Karla Lara non canta più. La sua voce non piace a chi ha preso il potere in Honduras dopo il colpo di Stato dell’estate 2009. È diventata “stonata”, Karla: per il suo impegno nel movimento femminista e nella Resistenza (una sezione del suo sitokarlalara.com è “Trabajando en Resistencia contra el Golpe de Estado”), e per aver scritto, con “Lampo de cielo”, la canzone che nelle manifestazioni ha sostituito l’inno nazionale del Paese (“Difendendo la tua santa bandiera”).
È mentre ascolto l’album “Recordarles”, quello che contiene la canzone (“un disco ‘pirata’, un disco fatto a colpi, a colpi di stato, a colpi di resistenza” spiega il libretto), che sbobino e traduco l’intervista con Karla, che in ottobre è stata in Italia, toccando anche il nostro Paese in un tour europeo per raccontare il dramma del popolo hondureño.
In Honduras il 24 novembre si tengono le elezioni presidenziali. È la seconda volta dopo il golpe del 28 giugno 2009, che depose l’allora presidente Mel Zelaya. Oggi sua moglie, Xiomara Castro, candidata per “Libertà e rifondazione” (LIBRE) sarebbe la favorita, ma la democrazia è ancora lontana.

Che cosa è successo negli ultimi 4 anni in Honduras? Vedi prossimo un ritorno allo “Stato di diritto”? Credi che una vittoria della candidata di LIBRE possa cambiar qualcosa?
Il Paese è tornato indietro in termini di “democrazia”. Un regime di “lupi” (Karla gioca col nome del presidente in carica, Porifrio Lobo, ndr) mascherati da agnelli per manipolare la parola riconciliazione ha importo una cultura di morte. Intanto, tra i 15 e i 20 giovani sono assassinati ogni giorno.
L’azione dell’esecutivo mostra l’ingovernabilità del Paese, che è acuita dall’azione del presidente del Parlamento, che nel frattempo è anche candidato alla presidenza della Repubblica per il partito dell’attuale presidente. Questi ha permesso la violazione di accordi internazionali e della Costituzione, ad esempio con l’approvazione della legge anti-terrorista e di quella sulle intercettazioni, che criminalizza e sottopone ad attenzione giudiziaria tutti gli attivisti, e permette il saccheggio delle risorse del Paese attraverso una nuovo legge mineraria che rende possibile lo sfruttamento di miniere a cielo aperto.
Lo Stato disconosce le conquiste del passato in termini di diritti dei lavoratori, e annulla il potere della polizia civile per militarizzarla: è nato un mostro ibrido, una “polizia militare” che entra nelle case di chi vive nei sobborghi e nei quartieri più poveri con un mandato -non giudiziale- che è motivato solo dall’“appartenenza alle file della Resistenza”. Tutto questo avviene nel silenzio assoluto del potere giudiziario, tanto delle corti di giustizia quando dei pubblici ministeri, che dovrebbero garantire imparzialità -almeno nella fase di inchiesta-, ma spesso promuovono quell’impunità che toglie speranza a una popolazione duramente colpita economicamente, moralmente e socialmente.
Su questa tela di sangue e frustrazioni, il popolo dipinge il simbolo di “LIBRE”: appoggiare un partito che in tono demagogico si offre di derogare leggi, di restituire diritti, di non riconoscere concessioni, di castigare assassini rappresenta una sfide, ma a giudicare dalle presenze ai meeting, e se confidiamo nei sondaggi, Xiomara Castro sarà la prossima -e la prima- presidente donna in Honduras. Vedremo poi quanto tempo ci vorrà per restituire ciò che si è perso, per confortare un popolo in lutto, e se sarà in grado di prevedere le reazioni violente di una destra golpista contro coloro che governano.

Quali gruppo sociali subiscono con più violenza la repressione della polizia, dell’esercito e del governo?
I poveri, e in particolare i giovani poveri, verso i quali c’è una politica di sterminio. A partire dalla creazione della Polizia militare, lo scorso 3 ottobre, abbiamo assistito a numerose irruzioni nelle case dei quartieri popolari, o in territorio indigeno, come è successo a Río Blanco, nel dipartimento di Intibucá. Qui, durante il funerale di una giovane, che era stata assassinata, la Polizia militare è entrata in cinque case al cui interno c’erano solo bambine, bambini e anziane, che vennero colpiti, intimiditi, minacciati. Le stesse forze si sono rese responsabili di omicidi, come quello di un giovane disabile di San Juan, sempre in Intibucá: la popolazione della comunità, a seguito del delitto, ha dato fuoco per protesta all’ufficio postale di San Juan e a quello della comunità vicina, e a una pattuglia della Polizia militare, ottenendo in cambio una risposta violenta.

Che fase attraversa il processo di resistenza e rifondazione? Il movimento parteciperà, e in che modo, al processo elettorale?
L’Honduras è teatro di alcune mobilitazioni territoriali emblematiche contro l’industria estrattiva neo-coloniale. Penso al blocco stradale del popolo lenca di Río Blanco contro il progetto idroelettrico denominato Agua Zarca, quella a Nueva Esperanza contro un progetto minerario, la sollevazione del popolo tolupán a Locomapa, nel dipartimento di Yoro, la lotta per la terra e la libertà di comunicazione a Zacate Grande, il controllo del territorio nel Nord di Intibucá e in vari municipi di Santa Bárbara, il recupero di terre a Vallecito, Atlántida, da parte di popoli garífuna. Queste lotte si muovono al margine dell’azione della dirigenza, tanto del Fronte nazionale di resistenza popolare quando di LIBRE. Queste “frontiere” però non esistono se parliamo della popolazione organizzata: in molti casi, coloro che fanno partecipano alle mobilitazioni simpatizzano o sono militanti di LIBRE.
Le organizzazioni che hanno partecipato con le posizioni riconosciute come “rifondazionali” hanno invece dato vita a una “Piattaforma del movimento sociale e popolare di Honduras”. Questo spazio non invita a votare, ma nemmeno a disertare le urne: rispetta le decisioni personali e delle singole organizzazioni.

Riceviamo notizia delle morte di operatori dell’informazione, e -a quanto pare- l’Honduras è diventato un Paese “quasi impossibile” per i giornalisti: il governo ha paura dei media?
Non credo che gli omicidi nei confronti di giornalisti e comunicatori sociali sia un modo per “punire” chi non la pensa come il governo, perché -se guardiamo ai nomi delle vittime- molti risultano vicine alle posizioni dei conservatori. Credo, piuttosto, che il governo voglia incutere terrore, e ci riesce uccidendo personalità riconosciute. Ciò significa che a fronte di 29 giornalisti assassinati ci sono 8 milioni di cittadini incapaci di muoversi.
Vale la pena ricordare, allora, che negli ultimi 4 anni si è rafforzato un forte network di radio comunitarie alternative. Piccole radio, spesso sono situate nelle zone più povere, dove vivono etnie mai considerate da coloro che hanno governato, che operano recuperando spazio radio-elettrico, come se fosse un’altra forma di “recupero di terre”.

Dopo il golpe, il saccheggio delle risorse naturali non si è mai fermato. Dalla terra all’acqua, dall’oro all’argento. Che accade alle comunità che si oppongono contro mega-progetti, miniere, e contro il furto di terre fertili?
Credo che la cosa più importante qui sia ricordare i successi. Penso al potere delle multinazionale cinese SINOHYDRO, sconfitta dal popolo lenca e costretta a ritirare i macchinari dai cantieri del Progetto idroelettrico Agua Zarca, nella comunità di Río Blanco, dopo otto mesi di una resistenza tenace. Penso, anche, agli sviluppi del processo di recupero di terre a Vallecito, dove la gente costruisce case, semina la terra, alleva animali: rinasce una vita comunitaria capace di superare le logiche individualiste di un sistema che impone “l’avere” al “condividere”. Sono un esempio di dignità, una scuola di convivenza armoniosa tra chi occupa un territorio e i beni comuni -acqua, terra, aria- secondo una logica che l’antropocentrismo non è in grado di riconoscere. La speranza risiede in questi esercizi di autonomia territoriale, nel riconoscimento di una ricchezza che possediamo non per “sfruttarla fino in fondo”, come vorrebbe il potere multinazionale, ma per utilizzarla con rispetto, prendersene cura e difenderla, come c’insegnano questi esempi di resistenza indigena e delle popolazioni afrodiscendenti.
Non dimentico, però, che oltre 3mila persone sono state sottoposte a processi sommari dopo il colpo di Stato, e che oltre 500 persone sono state assassinate per motivi politici. Né dimentico la persecuzione politica in corso nei confronti di Berta Cáceres, Tomás Gómez y Aureliano Molina del COPINH o di Magdalena Morales della CNTC.
Quello di Bertha Cáceres, coordinatrice generale del COPINH, rappresenta, a mio avviso, un esempio straordinario di sfida al potere: di fronte alla decisione del giudice de La Esperanza di ordinare la sua carcerazione preventiva, Bertha si è dichiarata “perseguitata politica”.
Non riconosce le accuse per cui è imputata -usurpazione e danno continuato nei confronti di un’impresa privata-, e risponde al regime che sono loro che occupano senza diritto il territorio ancestrale dei lenca, sono loro colpevoli di “coazione” (una violenza morale o fisica fatta all’altrui volontà, in modo da togliere la libertà d’azione, spiega la Treccani, ndr) esercitata attraverso la Polizia, l’Esercito, i paramilitari, dei sicari privati, il crimine organizzato. Semmai sono loro, da anni, imputabili per il mancato rispetto del diritto all’autodeterminazione dei popoli, come riconosciuti dalla Costituzione e dalla Convenzione numero 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro per i popoli indigeni e afrodiscendenti.

Sappiamo che in molti, tra coloro che sono impegnati nelle lotte sociali, hanno dovuto dividersi dalla propria famiglia, ad esempio mandando i propri figli all’estero. E che tu sei tra queste persone. In che modo quest’esigenza “sfianca” il processo di resistenza?
È comune per noi donne impegnate nelle difesa dei diritti umani essere attaccate attraverso i nostri figli e figlie. Ho due figli e una figlia in esilio: erano giovani militanti, e continuano ad esserlo, nonostante la distanza: fanno parte del Frente Revolucionario Artistico Contra Cultural, FRACC, un gruppo di giovani, la maggior parte dei quali provengono da scuole di Arte, che producono cultura alternativa. Il loro slogan è “La rivoluzione è della mente” (DeMente in spagnolo, ndr).
Ai miei figli Marcela, Mauro e Sergio ho dedicato una canzone, per condividere e “curare”, perché le canzoni servono a questo. Nel testo rifletto su come vivo la loro assenza, che credo sia riassunta in queste frasi:

“Guardé en cajas los recuerdos que a tu regreso abrirás/ y dónde pongo tu sonrisa, si ya no hay cajas para el dolor/ y dónde guardo la nostalgia, si yo respiro es tu olor/… Una gorra, un banderín, un panfleto, un boletín/ alguna de esas armas peligrosas, que te arrancaron de mi/ Que no se quede nada intacto, que el tiempo haga su labor, solo así tendrá sentido este amor que damos hoy/ La alegría de luchar, la contracultura de pensar, algunas de esas alas amorosas, que nos van a reencontrar”.

La maternità è un aspetto molto vulnerabile per quelle donne che sono impegnati nella difesa dei diritti umani, e per me è molto importante che noi che facciamo parte della Red Nacional de Defensoras de Derechos Humanos de Honduras (redefensorashn.blogspot.it), per lo più femministe, abbiamo creato uno spazio per riflettere insieme sul tema, per capirlo e affrontarlo.

Da qualche anno un’associazione italiana, il Collettivo Italia-Centro America (www.puchica.org), promuove la presenza di volontari in Honduras, all’interno di “accampamenti” di osservazione dei diritti umani in alcune comunità. È necessaria questa presenza internazionale? Dovrebbe essere più continua?
Per molti questa presenza ha rappresentato la differenza tra la vita e la morte. I volontari non garantiscono totalmente la sicurezza nemmeno per chi viene, ma rappresentano un deterrente di fronte alla violenza.
Alla parola “remoto” nelle nostre terre sono associati significati che è difficile spiegare: una strada impercorribile; comunicazioni “elettroniche” difficili perché non arriva il segnale; una scuola senza maestri; un centro di assistenza sanitaria senza medicine. Un oblio che ha radici lontanissime.
La presenza internazionale rompe questo isolamento: se anche accadrà qualcosa di brutto, la comunità sa che l’informazione supererà i confini grazie alle reti di organizzazioni internazionali, e questo dà la certezza che il potere sarà in qualche modo limitato nel perpetrare azioni violente, perché l’opinione pubblica internazionale vigila su ciò che avviene nel Paese.
Le e i “campamentisti” sono persone che dimostrano una straordinaria capacità di adattamento, di affetto, di condivisione, nel prender parte alle nostre speranze. Ringraziamo quelli che sono con noi in questo momento, perché ciò che accade nel Paese rende ancora necessaria la loro presenza.

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