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L'enigma della post-verità

La verità è un fenomeno superato? Due libri aiutano a capire questa domanda, dandoci qualche speranza che la risposta sia “no”.
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Foto: commons.wikimedia.org

Non è probabile che una persona mediamente informata non si sia già imbattuta, non si sia fatta qualche idea sul neologismo “post-verità”. Si tratta di un costrutto curioso, che ci induce a pensare alla verità come a qualcosa di “superato” (prima di tutto nel tempo, come se fosse esistita un'epoca della verità), senza per questo suggerirci come la temporalità sia proprio ciò che, della verità, ne costituisce la manifestazione (ne era convinto per esempio Martin Heidegger, il filosofo dell'essere ma anche della chiacchiera, un vero “influencer” per tutti coloro i quali hanno contribuito a rendere terribilmente vacillante il riferimento ingenuo al discorso epistemologico). Ma in che senso è possibile dire con più esattezza che la verità è un fenomeno superato? In che senso la “post-verità” è la formula che descrive il tempo in cui viviamo?

La post-verità nell'ambiente globale del populismo digitale

Abbandoniamo per un attimo la filosofia (ma ci torneremo subito) e dedichiamoci a ciò che accade nel mondo dei media e della politica. Per post-verità – ci informa il dizionario – si intende qualcosa di facilmente riscontrabile allorché abbiamo a che fare con una “argomentazione, caratterizzata da un forte appello all'emotività, che – basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati – tende a essere accettata come veritiera, influenzando l'opinione pubblica”. Ecco un esempio. Qualche giorno fa, il quotidiano "Alto Adige" ha proposto ai suoi lettori un titolo (e un occhiello) ad effetto: “Bolzano. Via l'albero di Natale dalla sala Europa. La comunicazione è stata data al presidente dei veterani dello sport: la sala è prenotata da un'associazione musulmana e l'albero va tolto”. Si tratta di una notizia “vera”? No, espressa in questo modo è una notizia ambigua, visto che – come si spiega peraltro nel corpo dell'articolo – la destinazione della sala a gruppi di varia natura presupponeva che essa fosse consegnata a chi ne fa utilizzo rimuovendo ogni tipo di intervento relativo all'uso precedente. Nessun musulmano ha mai fatto richiesta che venissero rimosse le decorazioni natalizie, quindi la cosa non avrebbe dovuto suscitare soverchio scalpore. In pochi però hanno svolto questo ragionamento e, strumentalizzando senza pudore, si sono avuti anche politici lesti ad approfittarne per profilarsi e anticipare la propria campagna elettorale. “A macchia d’olio anche a Bolzano si spande la travolgente onda (proprio di intolleranza si può definire) verso i simboli della cultura tradizionale del nostro paese sacrificata sull’altare del buonismo”, ha subito dichiarato per esempio il Consigliere provinciale di Fratelli d’Italia Alessandro Urzì. Immaginabili i commenti a seguire, tutti rigorosamente privi di fondamento e saturi di pregiudiziale odio anti-islamico. E ora immaginatevi un fatto del genere moltiplicato per milioni di occorrenze e avrete quello che il sociologo Alessandro Dal Lago ha chiamato il “populismo digitale”, un ambiente globale – più che un'ideologia – in cui ognuno può in effetti affermare tutto e il contrario di tutto, giacché qualcuno che vi crederà si trova sempre, e a sua volta andrà ad influenzare altre migliaia (qualche volta milioni) di sprovveduti.

Le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza (F. Nietzsche)

Per capire come un fenomeno del genere sia diventato pervasivo e pericoloso, occorre tornare alla filosofia. Nel 1873 Friedrich Nietzsche scrisse una sorta di “pro memoria” con il quale fissò le linee fondamentali del suo pensiero. Si tratta dello scritto “Su verità e menzogna in senso extramorale”, che può essere visto anche come il testo originario per qualsiasi concezione della post-verità. Ne cito un brano famosissimo: “Che cos'è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane, che sono state sublimate, tradotte, abbellite poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni, delle quali si è dimenticato che appunto non sono che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete”. Ora, se la verità si risolve in un gioco di metafore, è chiaro che ogni operazione di verifica è in linea di principio condannata a girare a vuoto, perché dal gioco dei rimandi e delle traslazioni metaforiche non si potrà mai uscire, così come non si può uscire dal linguaggio per afferrare la realtà in sé o una volta per tutte. Nietzsche (per il quale, appunto, “non esistono fatti, ma solo interpretazioni”) è il filosofo che, tra gli altri, ha plasmato la corrente di pensiero del “postmoderno”, vale a dire (e se artefici e vittime della post-verità leggessero libri di filosofia, anzi se leggessero tout-court, lo saprebbero) una rete concettuale nella quale nuotano molti dei pesci che poi finiscono per prendere la forma dei titoli come quello del quotidiano “Alto Adige” e delle reazioni del consigliere Urzì (o di chi gli attribuisce un “like”). Semiologia spicciola: la distruzione di un riferimento ultimativo del sapere e il ripiego su forme definite “deboli” (Vattimo) o “instabili” (Lyotard) rendono potenzialmente equivalente l'autorevolezza di emittente e ricevente di un messaggio, decostruendo alla radice qualsiasi ipotesi gerarchica all'interno della strutturazione del senso (senso che così viene, ad un tempo, liberato e condannato).

La polemica, la rabbia, il rancore costituiscono la tonalità affettiva prevalente dell'epoca post-veritativa

Chi volesse approfondire la questione ha già a disposizione parecchi testi, capaci di illuminarla da molteplici punti di vista. Ultimamente, però, sono usciti due volumi utili proprio a mettere a fuoco questa prospettiva filosofica. Il primo, di Roberto Mordacci, si intitola “La condizione neomoderna” (Einaudi) e può essere rubricato come capitolo di una storia delle idee in fieri, in cui si considera chiusa la stagione del postmoderno. Il secondo l'ha scritto Maurizio Ferraris ed esplicita tutti questi passaggi all'incrocio tra le nozioni di ontologia, epistemologia e tecnologia, suggerendo anche una possibile alternativa: “Postverità e altri enigmi” (Il Mulino). Non si tratta di letture semplici (in particolare il libro di Ferraris richiede una buona dose di conoscenze specifiche), ma se vogliamo non arrenderci all'idea che la post-verità sia un orizzonte chiuso e per molti versi addirittura claustrofobico, ossia da accettare senza indagare a fondo il substrato di riflessioni che l'ha reso possibile (riconoscendo così la deriva distruttiva che esso non può evitare di alimentare), conviene adottare una prospettiva rigorosamente scientifica e non solo polemica (la polemica, la rabbia, il rancore costituiscono infatti la tonalità affettiva prevalente dell'epoca post-veritativa). Non arrendersi alla post-verità, ricominciare “a fare” la verità, magari saggiando nuove prospettive di accordo intersoggettivo e ricollegandoci alla migliore tradizione illuminista che i postmoderni fin troppo sbrigativamente interpretarono come foriera di una razionalità dispotica (la contestazione di questa tesi è ben illustrata dal libro di Mordacci), ecco il compito che ci attende nei prossimi anni.