Economia | Gastkommentar

Siamo ancora in tempo

Dalla crisi pandemica si uscirà pagando le tasse, con più lavoro di qualità e con un abitare a prezzi sostenibili.
Giovani
Foto: Unsplash

La crisi pandemica ha messo a nudo una serie di problemi aperti che ci eravamo illusi di poter rinviare sine die, ma che dovremo affrontare pensando soprattutto alle prossime generazioni. Sono infatti i giovani ad essere stati penalizzati dalle tante crisi che hanno caratterizzato il primo ventennio del XXI secolo, ma forse per il loro scarso peso elettorale, sono stati quasi dimenticati dai loro genitori e più ancora dai loro nonni che furono beneficiati dall’aver vissuto decenni di crescita economica e sociale come mai avvenuto prima nella storia. Dalle macerie della seconda guerra mondiale è iniziato un lungo periodo di benessere crescente che i sociologi hanno definito “i trent’anni gloriosi”.

Erano gli anni della piena occupazione, della crescita della produttività grazie all’industria che occupava buona parte della forza lavoro, ma anche della crescita dello stato sociale che è stata la più grande conquista dei cittadini europei nel XX secolo. Dalla crisi petrolifera dei primi anni ’70 è iniziata la parabola discendente dalla quale è disceso il crollo delle nascite, ma anche la nuova grande trasformazione del lavoro dovuta all’avvento della tecnologia e dalla conseguente terziarizzazione della produzione che ha portato gli occupati nei servizi ad essere la grande maggioranza rispetto al totale. Quel processo è divenuto inarrestabile negli ultimi anni e sempre di più l’intelligenza artificiale è entrata nelle nostre vite senza che ce ne rendessimo conto fino ad arrivare ad avere quale datore di lavoro un’applicazione del telefonino. Questo processo ha reso sempre più vulnerabili i lavoratori ed infatti è cresciuta la precarietà in un contesto di salari sempre più bassi.

In un certo senso è come se ci fossimo dimenticati delle tante patologie che affliggono una popolazione sempre più vecchia e nel 2021 avremo più morti per questi ritardi che non a causa del virus

Lo stato sociale era fondato sulla solidarietà tra le generazioni, ma in un contesto nel quale gli occupati erano tanti, con un rapporto di lavoro stabile e con le tasse e i contributi che pagavano che garantivano la redistribuzione del reddito attraverso i servizi che lo stato riusciva a garantire sostanzialmente a tutti. La crescita del debito pubblico ha fatto emergere la necessità di tagliare le spese, ma non sono stati affrontati seriamente i nodi dell’evasione fiscale e della riorganizzazione dei servizi. Il risultato è stato un lento, ma progressivo declino della qualità degli stessi ad iniziare da quello sanitario che costantemente è stato ridimensionato anche se non di risorse economiche. I tagli sono avvenuti sul personale e sull’organizzazione lasciando in questo modo spazio alla sanità privata che infatti è cresciuta in termini di fatturato per arrivare a rappresentare circa 1/3 della spesa totale contraddicendo il principio universalistico sancito dalla Costituzione. Chi se lo poteva permettere apriva il portafoglio e si rivolgeva al privato, chi era sprovvisto di mezzi aspettava pazientemente i tempi sempre più lunghi di quella pubblica.

La pandemia ha messo a nudo i limiti di questo sistema che infatti si è trovato del tutto impreparato ad affrontare l’impennata dei casi di contagio che richiedevano il ricorso elle terapie intensive le cui postazioni erano state ridotte nel corso del tempo. Mentre scriviamo stiamo assistendo al più clamoroso rinvio di prestazioni non covid-19 mai visto negli ultimi decenni. In un certo senso è come se ci fossimo dimenticati delle tante patologie che affliggono una popolazione sempre più vecchia e nel 2021 avremo più morti per questi ritardi che non a causa del virus. Abbiamo fatto l’esempio della sanità solo perché è il più attuale, ma avremmo potuto estendere l’analisi anche ad altri ambiti del settore pubblico e non lo facciamo solo per questioni di spazio.

Siamo ancora in tempo, ma servirà passare ai fatti permettendo ai giovani nati altrove di venire qui per starci e non solo per ammirare le Dolomiti

Per anni ci siamo illusi che il nostro benessere potesse durare ancora a lungo pagando poche tasse, facendo pochi figli ed evitando l’emigrazione da altri paesi. I nostri pochissimi giovani, soprattutto i più qualificati, abbandonano da anni l’Italia e anche l’apparente ricco Alto Adige. In questi mesi dovremmo aver compreso che per utilizzare dei buoni servizi è necessario finanziarli, per avere una crescita economica serviranno giovani ai quali offrire un buon lavoro e per avere un buon welfare servirà rendere attrattivi i territori a partire dal nostro che non può vivere solo di turismo e agricoltura con i lavoratori stagionali che non si insediano. Per farlo servirà intervenire subito per ridurre il costo dell’abitare che è il principale motivo che allontana la forza lavoro dall’Alto Adige. A giudicare dalla legge urbanistica approvata nel 2018 e ampiamente revisionata sia nel 2019 e che nel 2020, ci pare che non si sia ancora capito che sottovalutare il problema dell’attrattività della nostra provincia per tutte le tipologie di lavoratori nel lungo periodo ci renderà vulnerabili e pertanto più poveri. Siamo ancora in tempo, ma servirà passare ai fatti permettendo ai giovani nati altrove di venire qui per starci e non solo per ammirare le Dolomiti. Con salari bassi e precariato in crescita semplicemente continueranno ad andare altrove.