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Le esternalità dello spreco alimentare

Un rapporto fa il punto sugli effetti ambientali di tutte le inefficienze della filiera agroalimentare. E scopriamo che il problema non sono gli avanzi nel nostro frigo.
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Foto: upi
Quando si parla di "spreco alimentare", si è abituati a pensare al vasetto di yogurt scaduto o al pane secco che finisce nel sacchetto della raccolta dell'umido.
C'è anche quello, ma rappresenta davvero una minima parte di quanto viene perso (che misurato in termini di emissioni climalteranti è pari ad almeno il 7% di quelle globali): l'approccio che l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) ha scelto nel rapporto dedicato al tema, infatti, ci invita ad affrontare lo spreco in modo "sistemico", cioè a misurarne l'impronta ecologica, allargando lo sguardo.
Questo permette di misurare anche fattori che non siamo abituati ad associare allo spreco, come ad esempio tutto il mais che va ad alimentare centrali per la produzione di energia elettrica o termica: le quantità di biomasse edibili (cioè potenzialmente mangiabili) che vengono destinate agli usi non alimentari, escludendo i foraggi, è compresa infatti tra il 10% e il 15% circa del totale.
E se a livello globale lo spreco medio si attesta sul 44%, un dato da tenere a mente ogni volta che scegliamo il nostro menù è che nel mondo oltre la metà del problema è legato alla inefficienza degli allevamenti animali, che misurano fino al 55% degli sprechi totali (questo dato in Europa arriva a toccare il 73% degli sprechi e in Italia il 62%; l’inefficienza di conversione di input edibili in derivati animali è nel mondo circa il 64%, in Europa e Italia circa il 77%).
Lo spreco in Europa arriva a toccare il 73% e in Italia il 62% 
Per fare un parellelo, e tornare al nostro frigorifero, nella fase di vendita al dettaglio e consumo si hanno sprechi tra il 9 e il 10%. Un valore che è addirittura inferiore a quella forma di spreco che è la sovralimentazione media globale, che butta il 27% delle proteine. Ci sono 600 milioni di obesi, mentre 2 miliardi di persone faticano ad avere accesso al cibo.
 

Una possibile risposta: filiere locali

 
Una volta identificato il problema, con tutte le sue implicazione, il rapporto ISPRA individua anche possibili soluzioni: le filiere corte, locali, biologiche e di piccola scala permettono di ridurre le intermediazioni e le possibilità di eccedenze e sprechi, anche per il maggior valore economico dei prodotti. Rispetto all’agricoltura industriale nelle fattorie agroecologiche su piccola scala la produttività di medio-lungo periodo è maggiore dal 20% al 60% a parità di condizioni e l’efficienza nell’uso delle risorse, anche ambientali, è più elevata da 2 a 4 volte.
Secondo alcune ricerche, che il rapporto ISPRA elenca in bibliografia, le filiere corte biologiche e locali abbattono i livelli di perdite in tutte le fasi precedenti al consumo finale fino a portarli al 5% (tra le sei e le dieci volte in meno), mentre e prestazioni ambientali e sociali delle reti ecologiche, solidali, locali, di piccola scala, analizzate nel loro complesso come sistemi alimentari sono ampiamente migliori rispetto ai sistemi industriali, anche in considerazione degli effetti evitati grazie alle quantità di sprechi molto minori. “Alcuni studi disponibili -spiega l'ISPRA- mostrano inoltre che le reti alimentari civiche su piccola scala come le agricolture supportate da comunità (CSA) abbattono perdite e sprechi rispetto ai sistemi alimentari di grande distribuzione organizzata [...]. Coloro che si approvvigionano esclusivamente tramite reti alimentari alternative sprecano mediamente il 90% meno alimenti rispetto a coloro che usano solo canali convenzionali”. Il consumatore consapevole fa bene al Pianeta.