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Wer’s glaubt, wird “ZeLIG”

Heidi Gronauer, direttrice della scuola di documentario ZeLIG, sul potere della multiculturalità, il cinema nella post-verità e l’incursione di Wim Wenders in Sudtirolo.
Heidi Gronauer e Wim Wenders
Foto: Zelig

salto.bz: Direttrice, nel 1986 si festeggiavano 20 anni di Städtepartnerschaft Berlino-Trento. A quel tempo lei lavorava al progetto “Trento Cinema Incontri Internazionali con la Musica per il Cinema”. È stato il suo primo sguardo verso le Alpi? Verso la ZeLIG che sarebbe nata un paio di anni dopo?
Heidi Gronauer: Precisamente. La cosa più bella di quel periodo era un'atmosfera tutta particolare che permetteva di poter fare facilmente nuovi incontri e avvicinarsi ad altre realtà, c’erano tanti artisti che dal Trentino venivano a Berlino e viceversa, e c’era una grande voglia di conoscerci pur nella diversità, anche dal punto di vista dell’espressione artistica, c’era una forte curiosità l’uno verso l’altro. Quando ho cominciato a lavorare al “Trento Cinema Incontri Internazionali con la Musica per il Cinema” accadde che una regista di Berlino si innamorò del progetto, voleva fare un film con questi esperti e addetti ai lavori che circolavano in quell’ambiente così fertile. E nell’87 venne fondato un Festival sulla colonna sonora, che purtroppo però vide solo 3 edizioni. È grazie a questa filmmaker che ho conosciuto la ZeLIG, fu lei che mi disse che c’era un corso di cinema a Bolzano, mi resi conto che in Trentino Alto Adige stavano succedendo tante cose, molte delle quali davvero innovative. 

A quel punto si è trasferita da Berlino?
Diciamo che la decisione non è stata così netta, ho scoperto questo interesse per la ZeLIG, che allora era un corso finanziato dal Fondo sociale europeo che durava 6 mesi. Io studiavo ancora all’università, volevo fare il dottorato, avevo scelto come tema la cultura dei festival in Italia che in qualche modo si agganciava al mio lavoro di diploma, dove avevo analizzato un progetto in particolare, il Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano dal punto di vista sociale, economico e culturale e volevo fare stessa cosa con altri festival. 

"Ci aprimmo a una visione internazionale, fin dall’inizio questo è stato un obiettivo della ZeLIG: quando uno dei nostri ragazzi faceva, ad esempio, un film a Monaco o a Roma chiamava uno dei colleghi con cui aveva studiato"

Il 16 ottobre 1989 inizia a lavorare alla ZeLIG insieme a Nadia Caruso e Toni Colleselli. All’inizio era una scuola prettamente tecnica, ma già multilingue?
Con Nadia cominciammo nello stesso momento, anzi lei un’ora prima di me [ride]. Colleselli allora era direttore. La ZeLIG fu da subito bilingue, ed era, sì, più orientata verso la formazione di tecnici cine-televisivi, perché servivano soprattutto cameraman, montatori per la Rai, queste erano le esigenze della nascente produzione audiovisiva in Alto Adige. E dunque la ZeLIG nacque intorno ad esigenze locali, il primo anno il 100% degli studenti erano altoatesini, 25 giovani disoccupati che frequentarono questo corso di 6 mesi. 

E con il suo arrivo cosa cambiò?
Cominciammo a pensare di fare qualcosa di più strutturato, un corso di 2 anni, fummo riconosciuti dalla Provincia alla formazione professionale, e potemmo contare su un finanziamento più importante. Ci aprimmo anche a una visione internazionale, con partecipanti che arrivavano da fuori. Il “fattore internazionale”, del resto, allarga il network professionale e porta lavoro nella Provincia, fin dall’inizio questo è stato un obiettivo della ZeLIG, quando uno dei nostri ragazzi faceva, ad esempio, un film a Monaco o a Roma chiamava uno dei colleghi con cui aveva studiato. Ci sono anche persone che sono arrivate dalla Germania o da altre parti del mondo e si sono stabilite qui perché hanno trovato lavoro e allo stesso tempo possedevano dei collegamenti con l’estero utili anche per questo territorio.

 

La scuola fu di fatto uno dei primi esperimenti multilingui in Alto Adige. 
E su questo multilinguismo ho sempre spinto. Naturalmente il focus della didattica sono i mestieri, imparare a fare il regista o il montatore e non solo, insomma; ma con altrettanto impegno ci concentriamo sullo sviluppo della capacità di lavorare in team, sul capire te stesso in un processo produttivo, sul dare spazio allo sguardo personale di ognuno. Ci applichiamo molto sul “chi sono io”, sia sul piano della drammaturgia dell’immagine che a livello umano. Quando ho maggiore coscienza di chi sono lavoro più facilmente in una squadra, comprendo le diverse dinamiche del crescere, e in questo senso c’è bisogno di persone che parlino diverse lingue e appartengano a diverse culture. Dico questo con il senno di poi, e con i risultati che questo perfezionamento del lavoro su se stessi ha portato nel tempo.

 "I primi anni sono stati duri, con scontri notevoli nei team per via delle differenti modalità di lavoro e di temperamento degli studenti, mi ricordo di conflitti irrisolvibili"

Un’armonia che non sarà stata sempre facile da ottenere…
No, infatti, i primi anni sono stati duri, con scontri notevoli nei team per via delle differenti modalità di lavoro e di temperamento degli studenti, mi ricordo di conflitti irrisolvibili. Lo stare insieme è qualcosa che bisogna imparare. E se oggi si chiede a una casa di produzione che ha coinvolto gli zelighiani, al di là del riconoscimento delle loro competenze professionali, quello che si sottolinea più spesso, e con grande stupore, è la loro capacità di collaborazione, perché i ragazzi non guardano solo a quello che devono realizzare loro ma pensano al globale, all’insieme, agli altri. Questo è il loro vero valore. Non più un’idea verticale di un modus operandi ma orizzontale. 

In concreto come viene svolto questo lavoro di ricerca su se stessi?
Per fare un esempio i primi esercizi che facciamo fare sono lavori di scrittura sulle storie personali di ciascuno, chiamati That’s my life. I ragazzi realizzano filmati su avvenimenti accaduti nella loro vita, come questo viene poi drammatizzato dal punto di vista dello storytelling filmico arriva in un secondo momento, il fulcro di questo compito è che sono loro a mettersi in gioco, e così si conoscono l’un l’altro, capiscono cosa vuol dire chiedere a un altro di raccontarsi quando girano un documentario visto che hanno dovuto farlo anche loro. C’è alla base un’idea di condivisione, scoprendo durante il percorso i propri punti deboli e i propri limiti. Questo è un modo per aiutarli, poi ognuno ci ricava quello che vuole. E c’è un’altra cosa che vorrei dire a proposito di multiculturalità.

"Si crea la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo in un contesto multiculturale, si sviluppa l’individualità e la creatività di ognuno, e questa è anche una responsabilità che abbiamo come scuola. La ricchezza è nella pluralità"

Prego.
Alla ZeLIG abbiamo a che fare con molte culture diverse, ora ad esempio abbiamo studenti finlandesi, albanesi, croati, germanici, austriaci, italiani, ecco, usando diverse lingue è più facile che uno sviluppi la sua propria espressione. Uno studente che arriva dall’Albania impara in 3 lingue diverse, italiano, tedesco e inglese. Si crea la possibilità di scoprire qualcosa di nuovo in un contesto multiculturale, si sviluppa l’individualità e la creatività di ognuno, e questa è anche una responsabilità che abbiamo come scuola. Inoltre abbiamo docenti diversi, che sostengono anche tesi differenti e a volte contraddittorie ed è lo studente che deve trovare la sua strada. Questo è un aspetto, poi c’è quello della lingua. Lo scorso novembre sono stata a un convegno delle scuole di cinema in Australia, a Brisbane, e quando ho raccontato il tipo di insegnamento in diverse lingue che portiamo avanti alla ZeLIG sono rimasti tutti molto impressionati, del resto questa è la chiave per condividere, convivere ed essere in grado di svilupparsi. La ricchezza è nella pluralità.

Lei è sociologa, voleva diventare psicoanalista, adesso è direttrice di una scuola di film. È stato il suo “happy end”?
Sono sempre stata un’amante del cinema, del teatro, della musica. Mi ricordo che quando ancora studiavo contemporaneamente lavoravo in psichiatria a Berlino dove venivamo assegnati a persone con particolari necessità, psicotici nella fase attiva della psicosi, e oggi posso dire che eravamo troppo giovani per gestire una cosa del genere. Io provenivo dall’anti-psichiatria, dalla “scuola Basaglia”, con questa idea di non somministrare psicofarmaci, e il fatto è che non ero ancora formata, non capivo i limiti da tenere con i pazienti, vedevo loro stare progressivamente meglio ma per me era diventato un peso notevole che non ero preparata a sostenere. Questa esperienza arrivò in concomitanza con quella che feci a Montepulciano dove toccai con mano la potenza che l’arte e la musica avevano nel cambiare la psicologia dell’essere, nel far emergere emotività e aspetti nascosti dell’animo umano. E ho capito che avrei voluto lavorare nel campo dell’arte per poter cambiare qualcosa, aiutare le persone, piuttosto che farlo nell’ambito della psicologia, un bagaglio che mi sono portata anche nel lavoro che svolgo alla ZeLIG. E c'è anche un’altra cosa che mi è capitato di notare.

"Si devono fare progetti ma bisogna anche affidarsi all’impulso, fosse anche irrazionale, di tentare. Questo ai giovani manca o siamo noi che glielo facciamo mancare"

Cosa?
I miei figli, che hanno 19 e 20 anni, non sanno che cosa fare della loro vita, ma io alla loro età lo sapevo? No, o meglio, sapevo che volevo studiare psicologia e sociologia, e poi è arrivata la ZeLIG, voglio dire, bisogna fare quello che pensiamo sia giusto fare in quel preciso momento e trarne il meglio. Può sembrare scontato ma è così che posso descrivere la mia vita, un insieme di occasioni colte, quando sono venuta alla ZeLIG c’era solo un piccolo corso, poi abbiamo deciso di spostarci sul documentario, e chi avrebbe mai pensato che sarebbe diventata una scuola come quella che è oggi, riconosciuta a livello internazionale. Io dico: si devono fare progetti ma bisogna anche affidarsi all’impulso, fosse anche irrazionale, di tentare. Questo ai giovani manca o siamo noi che glielo facciamo mancare, mettendoli troppo sotto pressione.

 

Ha lavorato anche per il teatro, soprattutto per bambini. Il suo amore per il cinema è nato attraverso il teatro? Anche Fassbinder partiva da lì…
Riflettendoci non sono molti quelli che hanno la passione sia per il teatro che per il cinema, anche se i due mondi a volte si intrecciano. Se parlo di teatro, le cose che mi hanno segnato di più sono i lavori di Pina Bausch, con il suo modo di produrre gli spettacoli insieme ai ballerini e non “dall’alto”, che mi ha sempre affascinato, e quelli di Peter Stein. Ho avuto la fortuna, da giovane, di fare da traduttrice per un regista inglese perché allora Stein ancora non parlava la lingua, e ho potuto conoscerlo, anche il suo metodo di elaborare gli spettacoli con questo spirito collaborativo era interessantissimo. Per dire, anche chi lavorava nell’organizzazione era coinvolto nell’idea originale della Schaubühne am Halleschen, (collettivo teatrale fondato da Stein, ndr). Ho lavorato, sempre nell’organizzazione, per un teatro ragazzi, o come si chiamava allora, Off Theater, il Rote Grütze, che non aveva un luogo fisso dove mettere in scena gli spettacoli ma faceva delle tournée e trattava tematiche come l’educazione sessuale, la droga, l’abuso sessuale in famiglia. Oltre a questi spettacoli, che venivano fatti dagli attori insieme ai gruppi di interesse, si organizzavano anche incontri con insegnanti e gli spettatori per continuare a parlare di questi temi, oltre i confini del teatro. Tutte queste esperienze di lavoro, di creazione artistica e collaborativa mi hanno toccato particolarmente. Quando sono arrivata in Trentino-Alto Adige ho portato nelle due province degli spettacoli di lingua tedesca, la rassegna si chiamava “Teatrando... in lingua straniera”, tutto partiva dalla mia reticenza a credere a questa difficoltà di imparare la lingua e avendo assistito a pièce che coinvolgevano gli spettatori, ho pensato di portare anche qui quell’esperienza. L’idea era quella di non dover stare seduti frontalmente a subire un’ora e mezzo di tedesco ma di trascinare attivamente gli spettatori e rendere così più facile l’apprendimento. L’iniziativa ebbe un notevole successo e anche in quel caso organizzammo dei piccoli corsi con gli insegnanti, gli attori facevano un workshop per tentare di trovare metodologie didattiche diverse. 

La scuola ha ospitato figure illustri del cinema venute a condividere la propria esperienza con gli studenti, nel 1990, ad esempio, arrivò Roberto Perpignani, storico montatore, che ha lavorato con maestri del calibro di Bertolucci e i fratelli Taviani, ma il 1990 era anche l’anno in cui lei diventò direttrice della ZeLIG, una delle prime donne a ricoprire un ruolo dirigenziale, che ricordo ha di quei tempi?
Ricordo che Perpignani colse quest’occasione di insegnare alla ZeLIG anche per una personale riflessione sulla sua metodologia di lavoro. Fu molto interessante. In quegli anni la ZeLIG venne ammessa alle associazioni delle scuole internazionali di cinema e io nel ’94 andai al mio primo convegno internazionale, credo fossi l’unica donna con un incarico del genere, non ero solo una moglie o un’assistente. Oggi credo che le donne che gestiscono scuole di cinema siano il 40%, una bella differenza. Nell’89 chi faceva domanda alla Zelig erano per il 90-95% maschi perché non trovavamo donne interessate a studiare per diventare cameraman o montatrici, adesso invece la situazione è completamente diversa. Sono più le donne a fare domanda e le loro application sono generalmente migliori rispetto a quelle dei colleghi uomini. Da questo punto di vista il mondo, almeno il nostro, è cambiato notevolmente.

"Wenders non è un tipo da small talk"

Lei ha portato anche Wim Wenders nella scuola…
Sì e no, era il 2006 e Wenders era ospite al Bozner Filmtage, con l’occasione abbiamo fatto un incontro a scuola insieme ad altri ospiti del Festival. Mi ricordo un aneddoto divertente, gli studenti stavano montando i loro film di diploma e una studentessa molto coraggiosa chiese a Wenders di dare un’occhiata al suo progetto e lui accettò senza battere ciglio. La sua fu una presenza spontanea e molto partecipativa, Wenders del resto non è un tipo da small talk, è riservato, e piuttosto che star lì a brindare ha preferito aiutare una ragazza con il suo film.

Ci fu anche un divertente gioco di parole che Wenders fece cambiando l’espressione Wer’s glaubt wird selig in Wer’s glaubt wird ZELIG…
Già, credo si riferisse al livello altissimo di occupazione professionale dei nostri studenti, cosa a cui stentò a credere visto che i disoccupati in questo ambito non sono pochi, disse che era davvero qualcosa di speciale. È come ho detto, gli studenti di ZeLIG trovano relativamente facile lavoro perché non hanno la puzza sotto il naso, non dicono “no, questo non lo faccio”, si cresce con l’idea che qualsiasi impiego in una produzione cine-televisiva è importante, collaborazione significa anche questo, sentirsi gratificato nel team a prescindere dal lavoro che si fa. Anche se uno ha studiato regia non per forza lavorerà da regista, abbiamo avuto una studentessa, Enrica Gatto, che ha montato Fräulein, beh, lei ha studiato regia alla ZeLIG, ma siccome durante la formazione di base il primo anno tutti imparano a montare, ha fatto suo il mestiere e ora è una rinomata montatrice italiana. Gli studenti scoprono ambiti lavorativi che magari non avrebbero mai preso in considerazione. 

 

Qual è lo stato dell’arte del documentario in Italia?
Non è mai stato facile e non lo è neanche oggi. Ma il fatto che ci siano tante iniziative che cercano di migliorare la qualità delle proposte filmiche anche proponendosi a mercati internazionali ha portato il documentario italiano a ritagliarsi nel panorama internazionale una posizione di tutto rispetto. La situazione sta migliorando perché case di produzione italiane riescono finalmente a lavorare con co-produzioni internazionali. 

E i soldi si trovano?
Da questo punto di vita in Italia siamo ancora messi male, a parte qualche realtà che ama il documentario e può contare sui fondi per il cinema, come il Friuli Venezia Giulia, la Puglia e l’Alto Adige dove c’è il Film Fund che prevede un aspetto di ritorno economico sul territorio. L’IDM non vuole solo la fiction ma anche i documentari. Più difficile è avere invece finanziamenti dal ministero e dalla rete pubblica. Ci sono però ad esempio Rai storia, Sky arte, esistono delle possibilità ma non sono così ben strutturate come in Germania o in Scandinavia. Si deve anche dire però che c’è un’associazione di documentaristi italiani molto forte, la Doc/it che girano documentari in Italia di particolare pregio, o il Doc/it Women Award dove si premia il miglior documentario girato da una donna, insomma ci sono attività che mettono in moto il mercato anche se la strada da fare è ancora molta. Quello che succede qui in Alto Adige è bellissimo però, i documentari prodotti con il sostegno dell’IDM sono ottimi. E poi c’è il ritorno turistico, effetto collaterale da non sottovalutare, fiction come Un passo dal cielo o film come Honig im Kopf, sono eccezionali in questo senso, poi sulla qualità delle produzioni si può sempre discutere.

Qual è il film ZeLIG che l’ha resa più orgogliosa?
Ce ne sono molti, ma due sono quelli che mi vengono subito in mente: Wie Ich bin (Così come sono), e un film che quest’anno è in concorso al Bolzano Film Festival, The Good Intentions, un film estremamente coraggioso.

E un film fuori dai nostri confini che negli ultimi tempi l’ha conquistata?
Nowhere to Hide di Zaradasht Amend, vincitore del più importante festival del documentario in Europa se non nel mondo, l’IDFA - International Documentary Festival Amsterdam e che ha appena vinto anche il One World Festival a Praga. È un film sulla guerra molto duro ma molto importante per quello che sta succedendo in Siria e nel mondo. 

"Sono convinta che il ruolo dell’arte in generale sia sempre quello di riportare l’uomo ai suoi sentimenti, al suo credo, al senso della vita. Questo, mi auguro, ci salverà"

Come commenta questa nuova era targata Trump? Nel mondo del cinema qualche effetto si è già visto con il regista iraniano Asghar Farhadi, vincitore degli Oscar come miglior film straniero con Il cliente, che non ha partecipato alla serata degli Academy Awards a causa dell'ordine esecutivo del presidente Trump che impedisce per tre mesi l'ingresso negli Stati Uniti alle persone provenienti da sette stati a maggioranza islamica. 
Spero che gli organi democratici americani saranno abbastanza forti da potersi contrapporre a Trump e alla sua demagogia, anche se la mia speranza è molto limitata. Trump è una persona estremamente pericolosa, è contro la stampa libera, usa twitter per diffondere delle bugie. Come per quella storia del presunto attacco terroristico in Svezia. È un fenomeno tragico e c’è da aver paura, in tutti i sensi. 

E in quest’epoca ribattezzata “della post-verità” il documentario, che preme sulla verità, è un antidoto che contribuisce a restituire oggettività?
La discussione sul ruolo dei mass media e sulla definizione della verità non è nuova, il problema è che Trump è molto potente e le conseguenze potrebbero essere disastrose. Per arrivare alla verità bisogna avere una conoscenza tale da poter valutare tutte le informazioni del caso e per averla occorre spendere tempo, tempo che nessuno oggi ha più. Il mondo è diventato ancora più complesso e di fronte alla complessità la gente tende a ritirarsi e si finisce con il dire “non riesco a capire e quindi non posso dire chi ha ragione”. Che è grave. Credo che dobbiamo partire dall’inizio, chiederci come sono organizzate le nostre scuole, se ci aiutano a comprendere quello che accade o se puntano solo sul famoso e sterile nozionismo. La maggior parte dei giovani si è disinteressata completamente alla politica, colpa anche della scuola e dei genitori, cosa abbiamo fatto per farli allontanare così? Tornando alla sua domanda il documentario ha un ruolo importantissimo, ma se questo viene visto come esempio di opinionismo il problema si ricrea, eppure sono convinta che il ruolo dell’arte in generale sia sempre quello di riportare l’uomo ai suoi sentimenti, al suo credo, al senso della vita. Questo, mi auguro, ci salverà.