Società | L'intervista

“Cosa racconterò un giorno a mia figlia”

Serena Valenti, giovane neo-mamma bolzanina, sul parto ai tempi del coronavirus, l’ombra lunga del contagio, le paure da scongiurare e gli inaspettati lati positivi.
Serena Valenti
Foto: Serena Valenti

A tutte noi future mamme, che partoriremo in queste difficili condizioni, a tutti i futuri papà che non potranno stare accanto a noi: #andràtuttobene. Grazie a tutto il personale sanitario che sarà la nostra forza nel momento che sarà, comunque, il più bello della nostra vita”. Così, attraverso un messaggio postato su Facebook pochi giorni prima della nascita della sua primogenita, Serena Valenti, bolzanina, 32 anni da compiere, teneva alla larga questa inedita forma di paura forgiata dal Covid-19, ricordando il destino comune di molte donne oggi in Italia. Sofia è venuta al mondo all’ospedale di Bolzano il 19 marzo, in piena emergenza sanitaria, il giorno della festa del papà, quando per i padri assistere alla nascita dei figli nelle sale parto non è più possibile, una precauzione presa per tutelare la salute delle mamme e dei neonati, oltre che del personale sanitario.

 

salto.bz: Valenti, come ha affrontato le ultime settimane di gravidanza durante l’emergenza coronavirus?

Serena Valenti: Rispetto alla quarantena devo onestamente dire che il problema non c’è stato, perché essendo in maternità ho avuto la possibilità di adattare la mia vita alle esigenze dettate dalle contingenze. Durante le ultime due settimane mi dicevano “approfitta e dormi” e così ho fatto [ride]. La preoccupazione è salita l’ultima settimana prima del parto, psicologicamente la più impegnativa, perché le visite erano già state limitate. Ero preparata all’idea che sarebbero arrivate maggiori restrizioni. Vede, per 9 mesi una donna si fa tutta un’idea di come sarà partorire, avendo accanto il proprio marito anche perché il corso pre-parto è costruito in questo modo, e invece a un tratto ogni certezza scompare perché tutto viene rivoluzionato. Sai che potresti ritrovarti da sola e che devi trovare la forza di attraversare questa esperienza.

Ricordo che durante una visita, il 7 marzo, in reparto c’era un’aria tesissima, probabilmente per via della donna incinta trovata positiva al Covid-19

Qual è stato il sentimento predominante quando vi è stato detto che il papà non avrebbe potuto essere presente al parto?

Ha prevalso la tristezza in entrambi, perché c’è stata la disillusione di un’aspettativa. Inizialmente i comprensori sanitari altoatesini non avevano una linea comune. Ci sono stati dei cambiamenti graduali. L’ospedale di Bolzano, per esempio, circa tre settimane fa ha limitato l’accesso solo ai papà in visita. Successivamente non potevano entrare in sala travaglio ma essere presenti durante la fase espulsiva del parto, quella che porta alla nascita del bambino. Alla fine, il giorno prima che partorissi, l’Azienda sanitaria ha deciso di applicare una norma comune a tutti i comprensori e cioè quella di vietare l’accesso ai papà o ai familiari tout court. Prima ancora che si decidesse per questa “chiusura” totale avevamo saputo che a Merano il papà poteva ancora assistere al parto. Il pensiero di spostarmi in quell’ospedale mi ha sfiorato.

Ma non è andata fino in fondo.

Dopo l’iniziale titubanza abbiamo capito che se al San Maurizio si stava già ragionando sulla pericolosità del contagio allora la scelta più sicura era restare a Bolzano, seppure con lo sconforto che questa decisione ha portato.

Ha pensato di partorire in casa?

Sì, ma anche quello è stato un pensiero passeggero. Per la sicurezza della bimba non me la sarei sentita di partorire in casa. In ospedale ci hanno parlato della possibilità, qualora ci fossero state le condizioni, di una dimissione precoce, ovvero una dimissione ospedaliera entro 6-24 ore dal parto. Una prospettiva che da una parte abbiamo trovato rassicurante perché voleva dire tornare a stare di nuovo insieme, a casa, e in fretta, dall’altra essendo il primo figlio l’idea ci allarmava un po’. Alla fine la cosa si è risolta da sé, nel senso che ho avuto qualche piccola complicazione post-parto e dopo la bimba ha perso troppo peso, quindi siamo rimaste qualche giorno in più in ospedale sottoposte a monitoraggio. Il parto, fra l’altro, è stato indotto, il termine scadeva il 7 marzo, altrimenti il mio desiderio sarebbe stato portare avanti il travaglio a casa il più possibile, con l’aiuto di un’ostetrica domiciliare, e arrivare in ospedale solo quando fosse effettivamente “ora”.

 

Come ha gestito invece la paura del contagio in ospedale?

La situazione era anomala, persone ricoverate con la mascherina, nessuna possibilità di accedere dall’esterno se non suonando il campanello e aspettando che qualcuno del personale sanitario venisse ad aprire. Questo senso di costrizione aumentava la percezione della concretezza del rischio, ma nel contempo era evidente che tutte le precauzioni venivano prese proprio affinché quel rischio non ci fosse. Ricordo che durante una visita, il 7 marzo, in reparto c’era un’aria tesissima, probabilmente per via della donna incinta trovata positiva al Covid-19. Ecco, in quel momento il timore che potessi essere contagiata anch’io c’è stato, sebbene tutti siano molto scrupolosi sul fronte della sicurezza in ospedale. Si partorisce con la mascherina. I letti sono distanziati gli uni dagli altri, ci sono continue sanificazioni. Ma inevitabilmente l’ansia derivava dal fatto che molte persone si trovavano in uno stesso posto. Mi sento molto più tranquilla ora che sono a casa.

La reclusione sarà più difficile ora da sopportare?​

Credo che in questo momento una famiglia con un bambino di 5 anni soffra più della nostra, noi abbiamo una bimba di qualche giorno che non sa cosa voglia dire la vita all’aria aperta, perciò non mi lamento. Certo ci manca il fatto che nessuno possa venire a farci visita, ci sono i nonni che fremono per conoscere Sofia e non si sa quando lo potranno fare. Si vive di videochiamate. Sappiamo che in questo momento dobbiamo contare quasi esclusivamente sul nostro piccolo nucleo famigliare. Su me stessa, su mio marito e sull’istinto della bambina. 

Ci manca il fatto che nessuno possa venire a farci visita, ci sono i nonni che fremono per conoscere Sofia e non si sa quando lo potranno fare. Si vive di videochiamate

Il lato positivo di questa indesiderata situazione?

Il fatto che anche mio marito, Daniel, abbia la possibilità di stare accanto a sua figlia, non solo grazie al congedo parentale ordinario ma anche potendo e dovendo rimanere a casa per evitare il contagio. Tutto questo ci unisce molto. C’è poi una cosa che mi è rimasta impressa.

Quale?

Non potendo assistere al parto né farci visita dopo Daniel ha dovuto aspettare che io e Sofia uscissimo dal reparto per vederci. Quello è stato un momento molto, molto emozionante che ho potuto vivere appieno, con tutta quella razionalità che durante il parto non avrei potuto avere.
Le ostetriche, inoltre, sono state fenomenali. Mi hanno permesso, durante tutto il parto, di poter contattare mio marito ogni volta che volessi e quando è nata Sofia hanno fatto a gara per accaparrarsi subito il telefonino e immortalare l’attimo con una serie di video e foto. Ho perfino potuto fare una videochiamata con Daniel mentre la bimba aveva ancora il cordone ombelicale attaccato. In modo che potessimo essere insieme, anche se virtualmente.

Cosa racconterà di questa esperienza a sua figlia quando crescerà?

Pur considerando la drammaticità del momento attuale questa che la riguarda sarà una bella storia da raccontarle. Le dirò che siamo state forti [la voce è rotta dalla commozione]. Che la forza si può trovare anche lì dove non crediamo di averne.