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La guerra di tutti

Intervista a Raffaele Alberto Ventura, Eschaton sul web e autore del saggio "La guerra di tutti - Populismo, terrore e crisi della società liberale" edito da minimum fax
Raffaele Alberto Ventura viene intervistato da Federico Zappini (libreria due punti di Trento).
Foto: Elisa Vettori

Il 23 maggio scorso alla libreria indipendente due punti di Trento, il saggista Raffaele Alberto Ventura ha presentato insieme a Federico Zappini il suo ultimo libro, La Guerra di tutti - Populismo, terrore e crisi della società liberale. Ventura, conosciuto anche come Eschaton per via del nome della pagina Facebook che gestisce, scrive anche articoli di attualità e d'opinione su varie testate giornalistiche come Wired ed Esquire. All'interno del saggio - che viene dopo l'ormai conosciuto Teoria della classe disagiata - Ventura descrive un mondo alla fine di un ciclo, come recita già la bandella del volume: "Il tramonto del capitalismo occidentale coincide con una crisi delle categorie politiche della modernità, una catastrofe che ci riporta alla guerra di tutti contro tutti come unico sfogo alla paura del declassamento".

salto.bz: Raffaele Alberto Ventura, nel tuo libro scrivi della crisi delle società occidentali, contenuto tra l'altro già presente nel sottotitolo. Negli anni '50 John Galbraith ne La società opulenta diceva che uno dei maggiori fattori del declino sarebbe stato considerare i cittadini come soli consumatori, nel tuo saggio è infatti presente anche questo aspetto. Quali sono secondo te i punti su cui bisognerebbe concentrarci?

Raffaele Alberto Ventura: Galbraith lo cito all'interno del libro e l'ho letto - per quanto abbia anche delle parti critiche - come un libro abbastanza ottimistico, è un libro che in pieno boom economico dice che tutti i beni materiali e fisici sono stati ormai stati soddisfatti. "La storia è finita" avrebbe detto Fukuyama anni dopo. Quello che ho scritto nel libro precedente e poi ho ripreso in origine ne La Guerra di tutti è la tesi seconda la quale più si soddisfano i beni materiali, più si sente il bisogno di beni simbolici. E i beni simbolici non possono essere soddisfatti, come il bisogno di riconoscimento, un bisogno che si è radicalizzato e tutti siamo in competizione per ottenerlo. Il sistema, lo stato, la modernità, lasciano dei vuoti che creano conflitti.

Beh, prima di tutto non si capisce quale siano gli obiettivi della contestazione.

E secondo te la contestazione - allo stato, al potere, alla modernità - sbaglia mira? Mi riferisco ai movimenti di piazza degli ultimi mesi per esempio.

Beh, prima di tutto non si capisce quale siano gli obiettivi della contestazione. La scena della contestazione è molto composita e una piazza o un voto di protesta sono manifestazione di domande molto diverse. I Gilet jaunes sono un esempio molto adatto per questo discorso: nasce come un movimento contro l'aumento delle tasse sui carburanti, quindi non nasce da istanze esattamente di sinistra. Poi si sono sommate altre domande dietro il simbolo del gilet e dietro il simbolo dell'anti-macronismo ma non si capisce se tutte queste domande possano essere conciliabili.

 

 

Credi che ci siano affinità - qualche punto di contatto basilare, intendo - tra questo tipo di movimenti di piazza e le manifestazioni per combattere il cambiamento climatico, anche se per modalità, composizione e richieste opposte?

Di base questo tipo di reazioni, per quanto riguarda le manifestazioni di piazza, sono in un certo senso pre-politiche, da sempre. Per esempio, per quanto riguarda i movimenti storici si può guardare anche alla rivoluzione francese in questo senso, poi questa reazione può essere incanalata o meno in qualcosa, ovvero attraverso la presenza di un gruppo egemone che poi prevale. I malesseri, quando esplodono, cambiano poi i rapporti di potere. Non so se ci sono più contraddizioni oggi di quante ce ne fossero prima, sta di fatto che non penso ci sia un modello di contestazione popolare che oggi possa prevalere e diventare egemone.

Mi pare che la destra oggi abbia però un paradigma un forte, a differenza della sinistra, però - insomma - non ho un giudizio definitivo sulla questione. Dietro le manifestazione per il clima c'è però un pensiero, che è quello del Green New Deal, il quale è appunto un 'New Deal', che presuppone una massiccia riconversione ecologica che presenterebbe però comunque costi molto elevati e anche costi ecologici.

[...] oggi ci troviamo in una crisi morale molto forte.

Nel tuo saggio fai anche un discorso sulla violenza. Qual è il rapporto tra ipocrisia, violenza e il benessere, ovvero il privilegio?

Quando guardiamo quello che succede alle frontiere d'Europa, che molto spesso non sono muri ma sono mare, assistiamo a situazioni di violenza che prima non vedevamo tra la frontiera, il mare e quello che - per esempio - sta succedendo in Libia. E per lungo tempo non ci siamo mai dovuti confrontare, probabilmente per la macanza di mezzi tecnologici che abbiamo ora, con un certo tipo di violenza. E non possiamo certamente arrenderci cinicamente e accettare la violenza, in nome del nostro benessere.

Quello che non capiamo è che tutto il nostro ordine sociale - sia interno che esterno - era costruito su dei valori. Prima erano quelli cristiani, poi lo sono stati quelli illuministi, che erano una specie di favola, una narrazione che facevamo a noi stessi ed era il modo di legittimarci come società. Se però ci arrendiamo a una specie di "mors tua vita mea" in nome del nostro benessere, dovremmo auto-distruggere tutto il sistema che ci ha portato ad averlo, il benessere: quindi oggi ci troviamo in una crisi morale molto forte.

 

 

Nel libro dedichi dello spazio anche all'immaginario collettivo e al modo in cui rappresentiamo le cose. Alcuni sostengono che sempre di più ci siano opere di finzione che raccontano storie della fine del mondo, credi che sia indicativo di qualcosa la mancanza di narrazioni positive?

La fine del mondo è un tema molto attuale, in particolare al cinema la cosa peggiore che possa succedere è appunto la fine del mondo. E poi c'è anche quella vecchia citazione, "è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo". C'è anche un certo culto millenarista di fondo. A livello inconscio manifesta sicuramente una paura, forse però manifesta anche una tentazione. Forse abbiamo un desiderio di fine del mondo perché pensiamo che peggio di così non possa andare. In realtà non è così, può andare molto peggio di così, anche questo è un problema da risolvere.

[Il risentimento] Proviene dal disagio di non aver visto realizzate le promesse che ci erano state fatte.

Di recente la casa editrice altoatesina edizioni alphabeta verlag ha stampato due raccolte di racconti - una in italiano e l'altra in tedesco - che hanno come tema comune il risentimento. La collana si chiama Parole del tempo. Credi anche tu che 'risentimento' sia una parola del tempo?

Ne parlo un po' nel primo libro. Il risentimento in un certo senso è il sentimento di non aver ottenuto quello che si pensava di meritare. Proviene dal disagio di non aver visto realizzate le promesse che ci erano state fatte, anche dal punto di vista economico e di sistema. E ci è stato promesso molto negli anni e non ci siamo preparati. Quello che sta accadendo ci spaventa e ci fa avvertire il mondo in cui viviamo come profondamente ingiusto. E la reazione può manifestarsi nella violenza, positiva o negativa che sia. Credo che il risentimento sia la principale chiave di lettura della rabbia dei nostri giorni. La rabbia di chi è deluso è molto più forte della rabbia di chi vuole qualcosa che non ha.

Nella bandella del tuo libro ci sono parole come post-verità o post-politica. Alcuni sostengono che l'incapacità della nostra epoca di inventare parole nuove sia anch'essa una delle manifestazioni di essere in un momento di decadenza. Credi sia così?

C'è un sentimento di essere alla fine di qualcosa. C'è anche una sete di creare epoche, che probabilmente prima non c'era. C'è una certa stanchezza che poi si riconduce a quello che dicevamo prima sui culti millenaristi. Credo però che le parole nuove si possano sempre trovare, anche nel mio libro invento dei neologismi. A volte non funzionano mai molto perché ognuno propone il suo, mentre mettere post come suffisso può fare da ombrello, anche se molto vago, indica che siamo dopo qualcosa ma non sappiamo esattamente dove siamo.