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Il colpevole ritardo spagnolo

Le conseguenza dell’epidemia del coronavirus sui giovani lavoratori, tra diritti calpestati e malagestione. Il racconto di Giulia M, assistente sociale, da Barcellona.
Barcellona
Foto: Pixabay

Abbiamo raccolto testimonianze in giro per il mondo per capire come viene vissuta, nei vari Paesi, la situazione coronavirus. Ecco Giulia M., giovane assistente sociale, da Barcellona.

 

Mi chiamo Giulia e da circa un anno vivo a Barcellona. Ho 30 anni e di professione faccio l’assistente sociale, nella capitale della Catalogna però lavoro più che altro come educatrice, attualmente mi occupo di persone con diversità funzionale per un progetto volto all’integrazione nella comunità locale. 

In Spagna il numero dei contagi cresce a una velocità impressionante eppure la quarantena è iniziata con enorme ritardo. Ufficialmente solo domenica 15 marzo, ma in realtà i negozi considerati di prima necessità sono una vasta gamma che arriva fino ai parrucchieri, quindi molte persone hanno continuato ad andare a lavorare. Il mio coinquilino spagnolo, ad esempio, è impiegato in una cartoleria e per giorni, nonostante fosse chiaro che il virus aveva già cominciato a diffondersi, ha continuato a recarsi al lavoro, pena il licenziamento. L’unico modo per restare a casa era prendersi le ferie. Un collega di suo fratello che lavora in fabbrica gli è svenuto accanto e lo hanno portato in ospedale dove poi si è scoperto che era stato infettato con il coronavirus. E la fabbrica non è stata comunque subito chiusa.

Quello che mi accompagna però è la speranza che tutto vada per il meglio e quando usciremo da questa situazione recuperare tutto ciò che ci è stato tolto

Io mi sono auto-isolata nel mio appartamento già da oltre tre settimane e devo dire che questi giorni casalinghi sono pieni di contraddizioni. Da un lato li vivo bene consapevole di tutti i privilegi che ho nel poter abitare in una casa con tutti i comfort e non ho di che lamentarmi; da un altro la mia mente è costantemente in Italia, dai miei genitori, persone di una certa età e con patologie che li fanno rientrare nelle cosiddette categorie a rischio, e il fatto di non poter essere con loro e aiutarli in ciò che è necessario è molto, molto frustrante. Da un altro lato ancora, invece, c’è la preoccupazione per il lavoro. La precarietà della mia situazione a Barcellona, che a livello contrattuale è davvero molto instabile. La fondazione per cui lavoro ancora non ha proferito parola sulle condizioni legate al restare a casa, ma verosimilmente ci rimarremo senza percepire alcun salario. A causa di questa pandemia si sono calpestati i diritti di molti lavoratori, per esempio le persone che lavorano con contratto subordinato molto spesso vengono licenziate in modo tale che l’azienda non debba pagare malattia o cassa integrazione e anche il trattamento di fine rapporto (Tfr) per molti è stato sospeso.

Lo Stato si è approcciato in maniera molto approssimativa a questa incredibile crisi e, se il buongiorno si vede dal mattino, fa quasi paura pensare a cosa succederà dopo questo periodo emergenziale. È un po' come stare in un limbo d’impotenza su molti fronti, che genera ovviamente rabbia per i molteplici abusi di potere che si stanno perpetuando (soprattutto verso i collettivi più “vulnerabili”). Quello che mi accompagna però è la speranza che tutto vada per il meglio e quando usciremo da questa situazione recuperare tutto ciò che ci è stato tolto.