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Foto: Georges Rouault - MoMa
Cultura | Vorausgespuckt

Millecinquecento

Scrivo su salto.bz da quasi dieci anni, da quando è stato fondato. Oggi mi prendo l'inutile lusso di tracciare un consuntivo.

Questo che leggete è il mio millecinquecentesimo articolo da “me” pubblicato su salto. C'è un contatore che me lo segnala, altrimenti di certo non l'avrei saputo. Io sono uno che non archivia quasi nulla, e se lo fa è allora l'archivio che si perde (in fondo a un cassetto, quando ancora si usavano i cassetti, o in un computer defunto, consegnato ai cassoni metallici del centro raccolta rifiuti).

Non vorrei mai far parte di un club che persistesse nel volermi accettare come suo membro

Ho scritto la parola “me” tra virgolette, perché il “me” che iniziò a scrivere su questo portale (quasi dieci anni fa, ormai, io sono anche il più vecchio qui) non è più il “me” di adesso. Tra il “me” di allora e il “me” di adesso ci stanno questi 1500 articoli che hanno contribuito (ovviamente in minima parte) a fare di salto ciò che salto è diventato e anche di me (il “me” che è la somma dei vari “me” che mi compongono) quello che adesso sono diventato. Sintetizzando, potrei dire che mentre all'inizio tra quel mio lontano “me” e quel salto primitivo c'era molta vicinanza (facevo parte integrante della redazione, ero in trepidazione, come tutti, per le difficoltà che accompagnavano gli inizi di un'impresa dalle prospettive incerte), alla fine tra il mio “me” attuale e il portale salto attuale la distanza è considerevole. Mi ritengo un'appendice di un corpo che fu mio, mentre ora lo è sempre meno, anche se continuo a scrivere. Del resto, questo vale un po' per ogni cosa che faccio e che sono (esistono delle eccezioni, ma per l'appunto sono eccezioni), la famosa massima di Groucho Marx, resa poi ancora più celebre da Woody Allen, mi si attaglia come un guanto: non vorrei mai far parte di un club che persistesse nel volermi accettare come suo membro. Figuriamoci quando di una simile persistenza non c'è neppure la minima traccia. 

Ogni parola che scrivo, ogni frase che riesco a comporre, mi pare destinata immediatamente all'oblio

Un'altra delle cose che sono cambiate, confrontando i due “me” intorno ai quali mi sto qui aggirando, un'altra delle cose senz'altro profondamente mutate è la mia fiducia nel potere delle parole (non solo delle mie). Un tempo questa fiducia era sicuramente più accentuata. Non dico che dieci anni fa credessi di poter “incidere” qualcosa nell'animo dei lettori, ci mancherebbe. Quando iniziai a scrivere, non che credessi al potere di un giornale nel “cambiare le cose”, così ingenuo non sono mai stato, eppure quella fiducia, la fiducia con la quale ognuno condisce il proprio fare (altrimenti resteremmo a letto per tutto il giorno, ma anche in questo caso occorre un minimo di fiducia, per esempio che il materasso regga) era sicuramente più pronunciata. Adesso, non esagero, ogni parola che scrivo, ogni frase che riesco a comporre, mi pare destinata immediatamente all'oblio, anzi alla pattumiera, e quindi in fondo non solo sono contento di non avere la capacità di archiviare nulla, ma sono felicissimo di scordarmi pressoché quasi immediatamente di aver scritto quello che ho appena scritto (così come in genere chi legge si scorda quasi immediatamente ciò che legge).

A terra morente la faccia di cagna non ebbe il cuore, mentre andavo nell'Ade, di chiudermi gli occhi

Perché scrivere ancora, dunque? Domanda scontata, anche un po' patetica, alla quale in genere si comincia a rispondere così: “Non so bene perché...”. Invece io lo so benissimo, so benissimo perché – nonostante sia perfettamente cosciente della totale inutilità di quello che scrivo – io continui a farlo. E potrei anche argomentarlo in modo convincente, pur ritenendo che sprecherei il mio tempo. Mi basta un accenno. Credo che qualcosa di simile, penso che una sensazione del genere stia alla base del verso di Omero ripreso da William Faulkner nel suo celebre gotico sudista: «As I lay dying the woman with the dog's eyes would not close my eyelids for me as I descended into Hades». Ecco, la più grande libertà dell'essere completamente inutili (inutilità che qui celebro, assieme al mio inutilissimo millecinquecentesimo articolo) è che non dobbiamo più spiegazioni a nessuno.