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“Si sentiva come l’unto del Signore”

Paolo Crazy Carnevale sul bluesman Enrico Micheletti, i dischi altoatesini, la scena musicale locale e le tante storie perdute nel mondo del rock&roll.
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Foto: Michi Lintner
Enrico “Mad Dog” Micheletti, bolzanino (1951-2008), è stato il miglior bluesman italiano. Quando imbracciava l’elettrica non era tanto la sua buona tecnica a impressionare bensì il suo tocco, frutto dell’essere completamente dentro a una storia impossibile come se l’avesse vissuta veramente. Puoi suonare il blues ma, al di fuori della cerchia dei neri americani, degli inglesi della prima ora che sentivano i loro dischi in anticipo, dei greci o dei maliani, non “sarai” mai un bluesman.
Ebbene lui lo era veramente, probabilmente l’unico. Non ce ne vogliano gli altri chitarristi, Roberto Ciotti morto cinque anni dopo Enrico, Guido Toffoletti che se ne andò nove anni prima o il suo coetaneo Tolo Marton che è ancora in attività. Tutto ciò, pur nel suo inglese non perfetto nonostante fosse di casa nei Paesi Bassi per lunghi periodi, le perenni incertezze sui comprimari giusti al fine di realizzare il suo sogno, l’estrema mutevolezza di carattere che ha finito per lasciarci solo poche prove su disco.
Proprio ai dischi in vinile degli artisti della scena bolzanina, partendo da quello già registrato nel 1979 da Micheletti con l’Hard Time Blues Band che mai fu pubblicato e il cui ritrovato master su nastro è comunque custodito in buone mani, Paolo Crazy Carnevale ha dedicato il libro Vinili (Dolo)mitici, appena uscito per le Edizioni Riff di Paolo Izzo (ISBN 978-88-942615-3-9, costo 15 Euro). Gli echi di stampa, le testimonianze dei protagonisti, gli album, gli studi e le case discografiche che hanno costellato l’avventura di tanti nomi locali in ambito musicale rock e pop, formano il racconto di un’epopea irripetibile nell’era digitale e di Internet.
Quando non era certo d’uso ricevere finanziamenti provinciali per incidere le proprie opere, si doveva magari lasciare la culla in mezzo ai monti per tentare fortuna altrove o, permanendovi,  ci si sarebbe dovuti accontentare di una fama circoscritta e per giunta sostenendone tutte le spese.
 
 
Mad Dog, immortalato sulla copertina del volume da un bello scatto di Giorgio Fait, fu tra quelli che andarono via: a parte i due mesi trascorsi a Los Angeles, furono Bruxelles e Roma con i loro rinomati locali, come il Blues Corner e il Folkstudio, a vedere i dieci anni migliori della sua vita artistica prima del ritorno in viale Trieste a Bolzano.
Nonostante le ospitate come guest star da parte di tanti gruppi locali, i tour con l’anglo-olandese Francis Kuipers, un periodo in Canada, la Romagna, le luci a quel punto si erano ormai spente definitivamente su Micheletti e anche sul blues made in Italy che pagava l’esaurirsi dell’onda lunga dei Blues Brothers, la pellicola di John Landis che aveva garantito una reviviscenza a questa musica facendo sbocciare tanti festival di genere in tutta la Penisola. Ne parliamo con l’autore del libro, fresco reduce anche dalle pubblicazioni di una biografia dei Byrds scritta con Raffaele Galli, del memoriale sull’occupazione del Monopolio di Bolzano e di quello per celebrare il quarantennale di Radio Tandem.
 
Salto.bz: Crazy, ad anni di distanza, i dischi della scena locale sembra quasi siano stati incisi per conquistare le ragazze anziché il successo artistico e rivolgendosi a produttori improvvisati?
 
Paolo Crazy Carnevale: Il discorso credo sia più complesso. Innanzitutto sarebbe bene fare una distinzione tra i vinili prodotti dalle nostre formazioni prima e dopo la fine degli anni settanta. Fino a quel periodo i pochissimi che sono riusciti a entrare in uno studio per fare un disco lo hanno dovuto fare andando via da casa, firmando dei contratti con case discografiche di fuori, e con l’obiettivo di commercializzarlo nell’intera penisola: pensiamo ai Dedy CEMM su Jaguar Records, a Mike Frajiria su Miura e a Emilio Insolvibile che fece un intero LP per la milanese Bentler. L’unico esempio di local label negli anni immediatamente successivi è la meranese Rekon, che però aveva un suo pubblico non proprio di amanti del rock o del pop: nel loro studio fece una session anche il Perigeo, in virtù del fatto che del gruppo faceva parte il meranese Franco D’Andrea. Dopo di allora hanno cominciato a nascere piccole etichette legate agli studi di registrazione, la più importante e, stando alla qualità del suono, anche quella più professionale è senza dubbio la PM di Peter Ghirardini.
 
Allora è analisi corretta del fallimento?
 
Non parlerei di fallimento della scena locale quindi, anzi, è tutta questione di capire cosa avessero in mente i gruppi che si recavano in studio. Qualcuno forse, come gli Stary Most, pensava davvero di avere un potenziale superiore e di sfondare, ma il fatto stesso che si siano trasformati rapidamente in Spolpo Blues Band preferendo diventare una richiestissima band da pub la dice lunga in proposito. Per altri, il fatto di fare magari anche solo un 45 giri come i Blackstones della Valle Aurina, di certo era solo questione di togliersi uno sfizio e avere un po’ di gloria locale, senza pretese.
 
Però gli studi locali non sempre hanno reso il servizio giusto a band che dal vivo parevano brillanti o spesso era povera anche la materia prima delle composizioni?
 
Pensarla così è però un po’ ingeneroso nei confronti di pionieri come Ghirardini che ha sempre creduto molto nelle sue produzioni. Se si ascoltano il disco dei Mad Puppet o quello ancor precedente condiviso da Statale 17 ed Emphasis è evidente che la materia prima, seppur grezza, c’era, c’erano le idee e l’entusiasmo, anche se, visto che comunque parliamo prevalentemente di musica rock, sappiamo che cercare l’originalità a tutti i costi è fuori luogo. È ovvio che i ragazzi avessero dei modelli, ma chi non ne ha avuti? I Rolling Stones ascoltavano i bluesmen afroamericani e all’inizio quella era la loro direzione, Tom Petty era un fan a oltranza dei Beatles… 
 
 
Una volta la recensione del concerto era attesa con trepidazione, dai musicisti per capire se la loro proposta era piaciuta.
Certo è che ci siano state anche molte cose che è meglio dimenticare, ma questo è accaduto soprattutto nell’era digitale. Per quanto riguarda gli anni ottanta, spesso il problema più che le composizioni o l’inesperienza in studio dei musicisti, sono state le sonorità del periodo: a qualcuno è andata meglio, tipo ai Funkwagen, a qualcuno peggio, penso alla Spritz Band il cui disco è stato discretamente rovinato dal suono. Eppure loro erano bravi e alcune composizioni sono ancora valide, le recensioni positive che ottennero sulla stampa nazionale lo dimostrano. Stessa cosa vale per Out Of Bones di Enrico Micheletti, che sarebbe stato un bel disco se non fosse stato funestato dall’inesperienza in regia di Konstantin Koreth.
 
Dal libro emerge come qui il Mr. Wolf che risolve problemi si sia sempre chiamato Mike Frajiria...?
 
Mike ha lavorato per buona parte degli studi e studioli locali, come arrangiatore, produttore, autore: talvolta con grandi soddisfazioni, talaltra invece per sua stessa ammissione in odore di frustrazione per il dover pensare a portare a casa la pagnotta a discapito dell’avere un prodotto in cui riconoscersi.
 
Credere di sapere esattamente le mosse giuste da fare per emergere, pur venendo da un posto completamente fuori dal mondo come il Sudtirolo dell’epoca, ha danneggiato i talenti più puri?
 
Sono sicuro che i Dedy CEMM quando nel 1967 giravano per l’Italia esibendosi a fianco dei grossi nomi del beat e della musica leggera in locali come il Piper, non pensassero ad altro che a quello, che cogliessero l’attimo felici di vivere di musica e di girare attorno a un mondo che fino a poco prima pareva distantissimo. Per Emilio Insolvibile o per la cantautrice d’origine altoatesina  Eva Tormene il discorso è diverso, la purezza era fondamentale. Ma non credo sia imputabile all’essere altoatesini, visto che Eva di fatto era milanese di nascita e residenza ma aveva gli stessi ideali incontaminati di Emilio riguardo alla propria musica.
 
 
 
 
Quanto la negazione politica di un’idea di comunità e una convivenza artefatta tra le due culture dominanti hanno rappresentato un freno anziché un arricchimento per i gruppi locali?
 
Bella domanda. Condivido pienamente l’idea della convivenza artefatta, ma non la applicherei alla musica visto che tutte le forme d’arte sono tra le poche realtà in cui la convivenza si è in qualche modo realizzata. Le istituzioni, da vent’anni in qua, stanno sempre più vendendoci la storia dell’isola felice e della convivenza realizzata, ma quando vedo tornare i fuochi sui monti che inneggiano al “Los von Rom” e sento il Governatore della Provincia che ai microfoni del TG regionale ammonisce il governo centrale paventando un ritorno dell’irredentismo contro cui lui difficilmente potrà fare qualcosa, allora trovo confermato il mio sospetto che la convivenza sia solo di facciata e che certe tare sono lungi dall’essere state superate. Taccio sulle destre italiane che ritengo non meritino nemmeno di essere considerate, se non per il fatto che, come quelle di lingua tedesca, mettono comunque paura e generano disagio con un populismo becero.
Le istituzioni, da vent’anni in qua, stanno sempre pù vendendoci la storia dell’isola felice e della convivenza realizzata, ma quando vedo tornare i fuochi sui monti che inneggiano al “Los von Rom”, allora trovo confermato il mio sospetto che la convivenza sia solo di facciata e che certe tare sono lungi dall’essere state superate.
Quando il concetto stesso di tradizione alpina è frutto di una lucida ricostruzione a tavolino plasmata sul presunto immaginario montano delle genti di pianura, quando la domanda Da dove vengo? non trova una risposta ben precisa, com’è che Herbert Pixner sul territorio è riuscito a costruirci un genere?
 
Pixner è un genio, riuscire a creare una sorta di world music contaminata come quella che propone in giro per l’Europa germanofona col suo Projekt non è cosa di tutti i giorni e forse non è quello che si può chiedere a dei rockettari. Per molti il non affrontare la domanda “Da dove vengo” è proprio la risposta giusta, l’idea di fare musica o canzoni che possano essere provenienti da qualunque posto è l’obiettivo, se ci si accontenta. Però qualche esempio di musicista che nei propri testi ha espresso il territorio lo abbiamo avuto, e non solo a livello di citazione. Chiaramente Bolzano e l’Alto Adige non sono le periferie di Londra, le banlieues parigine o il ghetto di South Chicago, di primo acchito vengono in mente il rap trentino di Oscar Ferrari, la satira di Bobbi Gualtirolo con brani come Talking Onkel Ötzi Blues e This Is Unterland, e soprattutto Klaus Levi Tengler che nelle sue canzoni ha saputo riversare l’amore/odio per la sua regione: pensiamo alla sopraffina poesia della splendida Brennero, alla scanzonata Scalando l’Ortles, al malessere diffuso espresso in There Is No Feeling (With This Town) dichiaratamente dedicata a Bolzano…
 
 
La concentrazione dei media, a parte un paio che si ostinano a restare indipendenti, ha acuito la già marcata tendenza della stampa a presentare gli eventi live in programma senza poi recensirli: mi sembra che invece un tempo la recensione sull’Alto Adige potesse determinare il successo o l’anonimato di un gruppo...
 
Tasto dolentissimo quello delle mancate recensioni dei dischi e dei concerti. A parte qualche raro caso, come dicevi, quello che conta è l’evento a tutti i costi, l’anticipazione del medesimo, poi vige il detto del sud che recita: finita la festa gabbato lo santo… Una volta la recensione del concerto era attesa con trepidazione, dai musicisti per capire se la loro proposta era piaciuta, da chi ci era stato per vedere se la propria impressione coincidesse o meno con quella del giornalista di turno, da chi non ci era stato per vedere se si fosse perso qualcosa o meno. Che fossero attendibili o meno erano comunque uno stimolo, un argomento per confrontarsi: ora basta, le recensioni dei concerti credo vengano fatte solo su “Headliner” e forse su qualche blog. Per quanto riguarda i dischi poi, capita a volte di leggere lunghe interviste ma l’impressione è spesso che chi le ha condotte i dischi non li abbia nemmeno ascoltati.
Negli anni novanta è esplosa la mania per le acrobazie pirotecniche dei musicisti, a tutto discapito della sincerità della musica.
Abbiamo potuto ascoltare almeno in forma privata, grazie a Massimo Piliego e Andrea Brillo, il disco perduto di Enrico Micheletti: l’hai conosciuto di persona o solo attraverso testimonianze?
 
Ho conosciuto Enrico negli anni ottanta, a metà circa, e ci siamo incrociati spesso negli anni seguenti, c’era stima reciproca, da parte mia per quello che lui suonava, da parte sua per quello che scrivevo. Negli anni novanta mi capitava anche di andare a casa sua dove mi faceva ascoltare registrazioni di quanto andava facendo e mi raccontava storie incredibili di quando viveva lontano da qui, in Belgio o in Canada.
 
Colpisce davvero molto però la sua precoce intuizione che fosse meglio attorniarsi di comprimari che tecnicamente non erano dei fenomeni ma avevano i sensi aperti alla musica senza preclusioni di sorta e ciò anche per suonare un genere ben definito come il blues...
 
Hai colto nel segno. Il riferimento è soprattutto a una dichiarazione fatta da lui stesso in un’intervista: probabilmente aveva le idee chiare su cosa volesse fare, poi magari cambiava idea a metà strada. I suoi compari d’avventura sono stati innumerevoli, non parlerei di comprimari che tecnicamente non fossero dei fenomeni (ndr.: è però arcinota la storiella di quando vide un nero per strada a Bruxelles, lo fermò e gli disse che quella sera avrebbe dovuto suonare il basso con loro, al che l’altro replicò: “Io non ho mai suonato niente in vita mia”), parlerei piuttosto di onesti e bravi musicisti, talvolta anche ottimi: piuttosto quello che lui andava cercando erano persone che facessero ciò che voleva lui. Si sentiva un po’ come l’unto del Signore, e non possiamo negare che in un certo modo lo fosse. Stiamo parlando di un’epoca in cui il fanatismo per la tecnica strumentale era ancora di là da venire. Negli anni novanta è esplosa la mania per le acrobazie pirotecniche dei musicisti, a tutto discapito della sincerità della musica.