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Un cacciatore di bufale a Bolzano

Intervista a Paolo Attivissimo, fondatore del blog Disinformatico, ospite della unibz in occasione delle giornate di orientamento universitario. Tema? Bugie e complotti.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale del partner e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
Paolo Attivissimo
Foto: Paolo Attivissimo

salto.bz: Paolo Attivissimo, giornalista e blogger da anni, com'è nato il suo blog, Disinformatico e in quale contesto? Ma soprattutto come ha fatto a mantenere in tutti questi anni un pubblico di lettori costante?

Paolo Attivissimo: Il blog è nato principalmente perché mi serviva un'area di parcheggio per le informazione che trovavo in rete e che mi sembravano interessanti da condividere, senza alcun obiettivo commerciale. E' una piattaforma molto comoda rapida per caricare contenuti e tutti possono leggere e commentare. Mi chiedo anche io come faccia a mantenere così tanti follower, non parlando di subrette, di scandali ma di informatica e trasporto sostenibile, sicurezza, privacy. Che sono di sicuro argomenti che possono interessare un certo numero di persone ma non di grandissimo interesse. C'è però un seguito significativo. Ma non mi interesse quanti follower ho, mi piace condividere le cose, non ho un obiettivo da raggiungere in termini di follower. In più questo mi permette indipendenza.

 

Capita che qualcuno la legga solo per insultarla dopo?

Può capitare quando mi occupo di argomenti controversi. Per esempio mi sono occupato di ricostruire la storia giornalistica dell'antivaccinisimo, ovvero di come siamo arrivati alla situazione attuale, per individuarne le cause. Come giornalista mi sono sentito molto coinvolto perché i media tradizionali hanno avuto un ruolo importante nella diffusione di queste informazioni. E lì sono arrivate polemiche, insulti e minacce di ogni genere. E' successo anche quando mi sono occupato – per dieci anni – di ricostruire la nascita della teoria del complotto intorno all'11 settembre, tanti hanno detto cose molto sgradevoli. Fa parte del lavoro. Si deve però mettere in preventivo. Fare il giornalista che si occupa di argomenti controversi è scomodo. Facendolo soprattutto online c'è maggiore disinvoltura nell'insultare. Al giornale cartaceo devi mandare la lettera, richiedere tempo.

 

Il fenomeno dei blog nel 2018 è superato, appartiene a una vera Era di internet. L'introduzione dei social come ha cambiato il rapporto con chi la legge? Ha costruito una nuova community?

La conversazione si è ovviamente spostata ma io mi sono sempre rifiutato. Quando è nato Facebook le indicazioni erano chiare: sarebbe stato un grosso aggregatore di informazioni personali. Non era un'agorà libera ma un centro commerciale dove sei schedato e classificato e c'è qualcuno che decide al tuo posto di cosa si può parlare e di cosa non si può parlare. Vengo da un'era diversa, diciamo così più anarchica, con regole del gioco diverse. Se qualcuno mi vuole leggere sono sempre lì, sul mio blog. Avere Facebook ti obbliga ad avere anche un daziere, un intermediario e avrei obbligato chi mi segue a iscriversi a Facebook. E Zuckerberg non ha di certo bisogno dei miei favori, almeno, non credo gli servano. Io sto qua, un link su Facebook vi porta fuori. Twitter è invece il mio modo di interazione rapida, mi è piaciuto molto di più e la schedatura è molto inferiore a quella di Facebook. Il valore aggiunto del blog è proprio la community intorno al blog stesso, quello della community dei Disinformatici, ormai ci conosciamo e una volta all'anno ci incontriamo per mangiare assieme.

 

Si crea quindi una community di esperti?

Ci sono piloti, fisici, esperti di ogni materia. Quando non so qualcosa di specifico attivo il mio motore di ricerca umano. Chiedo a loro se sto andando verso la direzione giusta quando cerco di indagare qualcosa di nuovo. L'aiuto è stato fondamentale quando mi sono occupato dell'11 settembre. L'aiuto è arrivato da architetti, esperti di esplosivistica, piloti, ingegneri, eccetera, in pratica un piccolo pool informale di esperti.

 

Come giornalista e come blogger si occupa spesso di verità e quindi di falsità. Come si costruisce una teoria solida del complotto?

Di solito una solida teoria del complotto si crea intorno a un evento visibile a tutti ma difficile da indagare o verificare. Come il complottino abbastanza ridicolo delle scie chimiche. Tutti possono vedere le scie degli aerei in cielo ma non sono accessibili per l'esame. Tutti sono liberi di costruirci sopra una tesi. Come uno si può perdere sui filmati dell'11 settembre. E c'è una dose di pregiudizio, una visione di fondo del mondo o un'esigenza personale molto forte, di persone che sono gratificate dall'avere consenso cospirazionista. Ci si crea anche dei network, è appagante e remunerativo, si vendono magliette, tazzine, integratori di ogni tipo.

 

Oltre alla sua voce, alle evidenze e alla dimostrazione dei fatti, utilizza altri strumenti per cercare nuovi lettori?

Io non cerco nuovi lettori. Se le persone sono interessate mi trovano. Credo sia il passaparola che faccia girare un po' il mio nome, a parte il programma radio che ho in Svizzera e la mia normale attività di giornalista. Alla fine ho anche un cognome – autentico per altro – che non si scorda facilmente. Ogni tanto mi chiama anche qualche televisione italiana per fornire consulenze o per partecipare in video ai programmi.

 

Lei crede che siano i generatori di bufale – diciamo così – organizzati per il profitto, a influenzare le persone in rete o pensa che avvenga il contrario? Ovvero: sono gli agenti del caos che intercettano un sentire comune?

Non so quale fenomeno sia prevalente. Rispetto al passato il complottismo è molto più industrializzato e gestito anche da governi, non è più un segreto che alcuni stati investano online in propaganda e disinformazione. Utilizzano account fasulli, sono organizzati: fondi, competenze sofisticate. Così si raggiungono risultati economici e politici.