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Il femminismo che incontra il comunismo

Usando il libro “Ripartire dal desiderio” come canovaccio, un dialogo con Elisa Cuter su Stato, gestione del Covid, marxismo – e Carla Lonzi.
Ripartire dal desiderio
Foto: minimum fax/salto.bz

Ho iniziato a leggere “Ripartire dal desiderio” di Elisa Cuter pensando che mi sarei concentrata sulla sua critica al femminismo mainstream e sui risvolti politici intrinsechi al desiderio nel tentativo di capire in che modo l’erotico abbia a che fare con il politico. Partendo dal fenomeno di “Non è la Rai” dove Ambra Angiolini rappresenta il giovane corpo sessualizzato oggetto del desiderio di un pubblico maschile di mezza età – angosciante ricordare la strofa della canzone di Vasco Rossi “Delusa”: “Eh sì che il gioco è bello così, solo guardare / però quel Boncompagni lì secondo me…” – il saggio di Cuter, uscito per minimun fax nel 2020, lascia spazio a un’analisi sulle questioni di genere incalzata da aneddoti biografici che riguardano il rapporto dell’autrice con il sesso e con il desiderio.

Attraverso riflessioni di carattere generale ed episodi della vita privata, Cuter mette in guardia dalla tendenza tipica di movimenti come il #MeToo di fare della donna la vittima per eccellenza, analizza il concetto di femminilizzazione del nostro immaginario e della società e presenta il desiderare come l’atto che non conosce il binarismo di genere e che non è colonizzabile dal capitalismo. Io ho però preso in mano “Ripartire dal desiderio” a un anno di distanza dalla sua pubblicazione e mi è stato impossibile non calare il testo – in parte scritto durante il lockdown della primavera 2020 – nel presente più attuale fatto di sempre maggiori divieti e regole. Le misure politiche attuali sono dunque il luogo dove ho declinato alcuni concetti espressi da Cuter, concetti su cui ho riflettuto rileggendo in parallelo un classico del femminismo italiano: “Sputiamo su Hegel” di Carla Lonzi.

salto.bz: Tra i riferimenti presenti all’interno del tuo libro si trova il motto xenofemminista “se la natura è ingiusta, cambiala”. Stiamo vivendo un periodo storico che continua a mettere in evidenza l’arroganza dell’uomo moderno in grado di distruggere l’equilibrio della natura, desideroso di creare un uomo macchina e allo stesso tempo incapace di accettare quelli che sono ancora dei limiti invalicabili dettati dalla natura come può essere la morte.

A fronte di tutto ciò, riesci ancora a sentire tuo un pensiero che rifiuta di concepire la natura “come limite irremovibile degli immaginari emancipatori”? Sebbene il riferimento alla teoria xenofemminista riguardi la questione della maternità, non credi che sia necessario interrompere “l’aspirazione a qualcosa di meglio, qualcosa che si ricerca per il proprio interesse”?

Elisa Cuter: Ti confesso che no. Non credo che la pandemia sia una fatalità naturale, o che vada letta antropomorfizzando la natura, cioè immaginandola mentre con questa catastrofe “punisce” l’hybris umana riguardo all’utilizzo della tecnica. Concordo con Slavoj Zizek quando sostiene (qui, traduzione mia) che “dovremmo evitare la saggezza comune secondo la quale la lezione delle crisi ecologiche è che siamo solo parte della natura, non il suo centro, e quindi dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere – limitare il nostro individualismo, sviluppare una nuova solidarietà, e accettare il nostro modesto posto tra la vita sul nostro pianeta. Se dobbiamo preoccuparci anche della vita dell’acqua e dell’aria, significa precisamente che siamo ciò che Marx chiamava ‘esseri universali’, per così dire, capaci di uscire da noi stessi, di stare sulle nostre spalle, di percepirci come un momento minore della totalità naturale. Fuggire nella comoda modestia della nostra finitudine e mortalità non è un’opzione; è una falsa uscita verso una catastrofe”. Si tratta di riconoscere invece che se noi abbiamo creato il problema, toccherà a noi risolverlo. Però la responsabilità non è genericamente “dell’essere umano”: la pandemia non è una conseguenza genericamente “della tecnica”, bensì una conseguenza del capitalismo, cioè di una gestione della tecnica non democratica né collettiva, predatoria e volta al profitto in modo totalmente cieco, acritico e irrazionale. E per molti dei suoi sostenitori, si tratta dell’unico modo di produzione possibile, il più ovvio e naturale, appunto.

Una delle dichiarazioni più chiare e decise presenti nel tuo libro è “io sono comunista”. Un’affermazione questa che ti fa scrivere di conseguenza che “il posto di una donna non è in cucina, non è in fabbrica, non è in azienda, non è in un film di Hollywood… è nella rivoluzione”.

Carla Lonzi evidenzia un’importante lacuna del marxismo laddove “affidando il futuro rivoluzionario alla classe operaia il marxismo ha ignorato la donna e come oppressa e come portatrice di futuro; ha espresso una teoria rivoluzionaria dalla matrice di una cultura patriarcale”. Come ti posizioni rispetto a questa critica? E soprattutto, qual è la rivoluzione che auspichi?

Sono d’accordo con Lonzi, è vero che la classe rivoluzionaria è stata intesa come classe operaia, e quindi, data la sua composizione all’epoca, maschile (e anche bianca, cis, eccetera). Questo è stato un errore strategico, ma non una necessità logica. Penso insomma che si sia trattato solo di uno dei tanti problemi contingenti di applicazione di un’idea, quella del comunismo, che esce lo stesso intatta nonostante i fallimenti storici come l’Unione Sovietica. La categoria “classe” è molto più inclusiva di qualsiasi determinazione identitaria su cui tendono a basarsi oggi molti movimenti politici, e non c’è niente di intrinsecamente né necessariamente identitario, né di maschile, nel concetto di una classe sfruttata che si oppone come polo dialettico al capitale. Le donne in quanto oppresse e in quanto portatrici di futuro, per usare la bella formulazione di Lonzi, ne fanno assolutamente parte – oggi che lavorano nella sfera pubblica questo è diventato evidente, ma sono servite le femministe della sua generazione per rivendicare che anche il lavoro riproduttivo era lavoro. Non sono sicura invece che abbia (ancora) senso sostenere che ne facciano parte in quanto donne.

Verso la fine di Ripartire dal desiderio fai riferimento alle misure politiche adottate durante il lockdown del 2020 e distingui tra una risposta materna che ha invocato al rispetto delle regole e ha infantilizzato le persone e una risposta paterna che criticava lo Stato e in qualche misura incoraggiava a trasgredire le regole. A mio avviso, invece, da due anni a questa parte lo Stato ha esacerbato la sua autorità patriarcale. I sindaci che hanno chiesto ai cittadini di fare i bravi così come la persona che dal davanzale di casa rimproverava chi stava facendo una corsa si sono a mio avviso macchiati di un atteggiamento così paternalista da dover rifiutare in quanto femminista.

Da quei mesi di primavera del 2020 la situazione è molto peggiorata: non solo il senso di colpa, ma anche il ricatto esteso a tutti gli ambiti della vita (o rispetti le regole o non ti faccio nemmeno lavorare) viene utilizzato per limitare se non impedire la libertà di scelta. Da femminista come ti posizioni rispetto a questa violenza di Stato di decidere sul corpo e la vita delle e degli altri?

Anche se sono molto arrabbiata riguardo alla gestione della pandemia, non ho la sensazione che il problema centrale sia la violenza di Stato sul corpo o la decisione delle persone. In un sistema economico differente, lo Stato saremmo noi, saremmo una collettività, e le scelte individuali non sarebbero così evidentemente in contrasto con quelle volte alla tutela della collettività. Il mio problema non è che rivendico un diritto di proprietà sul mio corpo e qualcuno mi impedisce di esercitarlo, ma che lo Stato non si assume delle responsabilità, le scarica su di me come singolo, e continua a fare gli interessi di Confindustria dicendo al contempo di voler tutelare la popolazione, quando è chiaro che queste due cose sono inconciliabili.

Sulla questione di genere ribadisco quello che argomento nel libro: il potere con cui ci confrontiamo oggi non è più quello classicamente patriarcale. Se ci fosse stato un obbligo vaccinale, allora potremmo parlare di uno Stato paternalista, patriarcale e autoritario. Invece, finora, non c’è stato, ed è questo il dato interessante: quel ricatto ineludibile viene lo stesso mascherato da buon senso e buon cuore (ed è, aggiungo, un ricatto atroce anche perché alimenta l’idea assurda che lavorare sia un “diritto”, quando in realtà è un giogo, è un ricatto già di per sé: nel capitalismo si lavora, perché altrimenti si muore di fame). A me interessava questo meccanismo ipocrita, questo modo di gestire il potere che è molto diverso dall’autoritarismo, e che, come scrivo nel libro, ricorda più un “maternalismo” che un paternalismo vecchio stile.

Scrivi: “Accontentarsi, meritarsi, sacrificarsi. Sono parole d’ordine del capitalismo, mentre il fascismo continua a promettere invece le lusinghe del rifiuto della responsabilità e dello sfogo libidico”. Eppure, come si legge in Sputiamo su Hegel, “è del fascismo lo slogan: ‘Famiglia e sicurezza’”. Se penso ai diktat di questi ultimi due anni, mi sembra evidente che si possa parlare di un “capitalismo fascista”. In che modo differenzi i due concetti? Cosa intendi con le lusinghe fasciste del rifiuto della responsabilità e dello sfogo libidico?

Sono d’accordo sul fatto che il fascismo sia intrinsecamente reazionario, però crea i suoi valori reazionari sull’esclusione di una serie di altri su cui (e qui sta il suo supporto libidico) si può esercitare tutta la violenza che si desidera: l’escluso, il debole (che naturalmente c’è anche nella famiglia: la moglie picchiata dal marito, i figli dai genitori eccetera), è necessario alla costituzione dell’idea di una comunità chiusa su cui si regge l’ordine invocato dal fascismo. Il capitalismo invece, che non ha contenuti di per sé, perché è solo cieca autoriproduzione e generazione di profitto, ha delle necessità che impartisce ai suoi attori (persino agli stessi padroni, paradossalmente): per sopravvivere, devi guadagnare, devi meritartelo. Naturalmente c’è chi si deve sacrificare di più, e chi invece vive del sacrificio altrui, e questa è appunto la divisione di classe. Ma nella sua accezione (fintamente) “democratica”, cioè in Occidente, oggi non c’è un escluso su cui esercitare liberamente la violenza, tutti sono “uguali”, perché tutti virtualmente possono ambire a diventare sfruttatori, e comunque tutti fanno parte della riproduzione del modo di produzione. Questo spiega secondo me come mai la frustrazione sempre crescente delle classi subalterne si sia rivolta a destra.