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Errori, ambiguità e pregiudizi

Le conclusioni del volume “Al Brennero ci siamo e ci resteremo… - Cronache parlamentari della questione altoatesina”. Il libro sarà presentato lunedì, 30 gennaio.
libro Maurizio Ferrandi
Foto: Ansa

Errori, ambiguità, fatali indecisioni, pregiudizi ideologici, una cultura centralista spinta all'eccesso. C'è tutto questo e altro ancora nei primi trent'anni della questione altoatesina.

C'è, innanzitutto ovviamente, l'indecisione totale da parte di un'Italia che pare, a tratti, comportarsi come un fanciullo che pretende a tutti i costi un giocattolo nuovo, ma che poi se lo rigira tra le mani non sapendo che cosa farne.

L'Italia arriva al Brennero quasi per caso. Dovendo alzare la posta per scendere in campo a fianco dell'Intesa, indica il confine che i militari ritengono strategicamente più sicuro, quello dello spartiacque alpino. Nessuno sa, nessuno vuole neppur sapere, come d'altronde risulta chiaramente da ciò che abbiamo raccontato nella prima parte di questo volume, chi e che cosa ci sia in quella terra che si vuole italiana. Lo sanno solo i componenti del piccolo cenacolo nazionalista raccolto attorno ad Ettore Tolomei. Il resto dell'Italia lo scopre dopo il 4 novembre 1918 e, sul ciglio di questa scoperta, si ferma quasi attonito.

Di una minoranza linguistica come quella costituita dai duecentomila sudtirolesi conquistati in un sol colpo, questa Italia non sa assolutamente che farsene.

È un'Italia nata e cresciuta, nei  cinquant'anni precedenti, su una cultura rigidamente centralista, con l'unico scopo di piallare progressivamente le differenze tra i vecchi stati preunitari. Non ha e non potrebbe avere nessun tipo di cultura politica e amministrativa del decentramento. La periferia è, vista da Roma, una "terra incognita" da governare attraverso i prefetti. Di una minoranza linguistica come quella costituita dai duecentomila sudtirolesi conquistati in un sol colpo, questa Italia non sa assolutamente che farsene. Eppure li reclama, spinta alle spalle dai fucili della retorica dannunziana, dal timore di dover confessare che si sono fatti tre anni e più di spaventosa guerra per niente, dall'ansia di avere finalmente un confine difendibile a nord, verso il nemico storico.

È questa l'origine dell'atteggiamento di ambigua attesa con cui Roma affronta il problema. Messa la museruola allo scatenato Tolomei, i militari prima e il vecchio liberale Luigi Credaro poi, cercano la quadratura del cerchio. L'idea, confusa assai, è quella di rassicurare la popolazione di lingua tedesca con molte promesse e qualche concessione. L'ipotesi di dare a Bolzano un'autonomia particolare non è del tutto esclusa, se ne discute, ma è, sia ben chiaro, un'autonomia così come la possono concepire dei centralisti storici, alle prese tra l'altro con problemi di maggior spessore sul confine orientale. E' quasi nulla dal punto di vista dei sudtirolesi, che invece chiedono quasi un distacco totale. E poi ci sono i nazionalisti, sempre più agguerriti nello sfruttare la situazione altoatesina per dimostrare che Roma è imbelle e serva dei nemici battuti in trincea. Ci sono le violente campagne di stampa come quella che il direttore del Corriere della Sera affida, nel 1921, al suo inviato-principe: Luigi Barzini. Una raffica di articoli che è un atto di accusa verso Roma per la politica altoatesina. C'è il fascismo dell'ex socialista Benito Mussolini, che fa del suo primo discorso davanti alla Camera un vero e proprio "J'accuse" contro Credaro e le sue cautele.

Il copione è scritto e il finale facilmente ipotizzabile. Il vecchio Stato liberale s'inchina davanti al nuovo padrone in camicia nera.

Non si può ovviamente accusare il regime fascista di prudenze e indecisioni. Sull'Alto Adige la politica è chiara sin dal primo giorno: italianizzazione ad ogni costo. Anche nel Ventennio, tuttavia, non mancano ambiguità ben celate. Mussolini a Bolzano si comporta molto diversamente da quel che fa a Trieste, dove sono in gioco le antiche aspirazioni italiane a una politica di espansione e di potenza nei Balcani. In Alto Adige si vuole solo mettere in sicurezza una frontiera, evitando in ogni modo che si crei una sacca di malcontento e di resistenza, più o meno passiva, a ridosso del mondo germanico. Mussolini, che ha studiato nel profondo i contrasti tra nazionalità quando, nel 1909, faceva l'agitatore sindacale a Trento, sa benissimo che rendere italiani i sudtirolesi è impresa quasi impossibile. Si accontenterebbe di farli sembrar tali, ridipingendo con la toponomastica di Tolomei, la facciata esterna e contando su una robusta immigrazione e sui tempi lunghi per educare le nuove generazioni. L'ostinata resistenza passiva della popolazione tedesca, appoggiata dalla Chiesa locale e l'avvento, dal 1933 in poi, del nazismo lo costringono a giocare in difesa sino ad accettare, nel 1939, la scommessa sciagurata delle opzioni di cittadinanza. Anche qui il regime si mostra in tutta la sua pochezza strategica. Il fallimento di vent'anni di politica altoatesina si consuma mentre l'Europa brucia.

Sull'Alto Adige la politica è chiara sin dal primo giorno: italianizzazione ad ogni costo.

Le titubanze dell'Italia pre-fascista sono anche quelle delle forze politiche, liberali e cattolici soprattutto, che la guidano. I dibattiti del 1920 del 1921 dimostrano come, sulla questione altoatesina, gli unici ad avere le idee abbastanza chiare siano gli uomini di sinistra, i Turati e i Salvemini, che, dopo aver lanciato l'estremo appello perché si rifletta sull'utilità di portare confine al Brennero, si rassegnano all'inevitabile solo a patto che si facciano subito ampie concessioni sul piano dell'autonomia.

Debolezze, ambiguità che non si fermano certo sul nuovo confine. La piccola Austria, in cerca di protettori politici, ha troppo bisogno dell'Italia per poter esercitare davvero quella tutela che ha solennemente promesso ai fratelli separati del Sudtirolo e la Germania di Weimar interviene debolmente solo quando, come nel caso del discorso di Stresemann, è tirata per i capelli nella polemica. La grande ambiguità è, però quella della destra pangermanista, quella che con una mano raccoglie e agita la bandiera della solidarietà attiva, quasi militante con i sudtirolesi e con l'altra saluta a braccio teso l'avvento del regime fascista in Italia. Dagli anni venti Benito Mussolini rappresenta un mito e un esempio per tutte le destre europee. Nel mondo tedesco in particolare l'esempio italiano di conquista del potere è visto come il modello da seguire e il dittatore che siede a Roma come un vero e proprio mito da copiare fedelmente. Non tutta la destra pangermanista sarà d'accordo con il brutale realismo di Adolf Hitler, che, sull'altare dell'alleanza strategica con l'Italia sacrifica volentieri la sorte dei sudtirolesi, ma l'imbarazzo nel dover denunciare le violenze fasciste compiute a Bolzano, quando si esaltano quelle perpetrate nel resto d'Italia per eliminare gli storici nemici socialisti e comunisti, è assolutamente palpabile.

E poi ci sono loro, i sudtirolesi. A loro la storia, così come viene raccontata da quasi un secolo, attribuisce un unico ed esclusivo ruolo: quello delle vittime. È una lettura fortemente identitaria che non lascia spazio a nessun tipo di analisi critica. Non vi è dubbio che il colpo vibrato 4 novembre del 1918 sia stato terribile. Il mondo si capovolge in un giorno e l'antico avversario, quello da sempre odiato e disprezzato più di ogni altro, diviene nuovo padrone. Un terremoto tanto più devastante in quanto quasi del tutto inatteso. È pur vero che la pubblicazione del Patto di Londra, fatta nel 1917 dai Bolscevichi che hanno aperto gli archivi di Mosca, ha svelato che l'Italia, per entrare in guerra, ha chiesto e ottenuto il confine al Brennero, ma in quel 1917 c'è stata anche la disfatta di Caporetto. L'esercito austriaco occupa metà del Veneto e osserva da lontano i campanili di Venezia. Tutto fa pensare che su queste posizioni si possa arrivare alla fine del conflitto.

E poi ci sono loro, i sudtirolesi. A loro la storia, così come viene raccontata da quasi un secolo, attribuisce un unico ed esclusivo ruolo: quello delle vittime.

Il dibattito al Parlamento austriaco dell'ottobre 1918 di cui facciamo cenno nella prima parte di questo volume è uno specchio perfetto di ciò che si pensa anche a pochi giorni dalla catastrofe. Il deputato meranese Kraft argomenta sicuro contro ogni ipotesi di abbandono del Tirolo italiano. L'idea di dover perdere anche una parte di quello tedesco non gli passa nemmeno per l'anticamera del cervello. Mancano venti giorni alla fine.

Col fiato mozzo per il colpo subito, accantonata ogni velleità di resistenza attiva, i sudtirolesi reagiscono nel modo che meglio si confà alla loro natura. Chinando il capo solo all'apparenza davanti all'inevitabile e apprestandosi a contrastare l'italianizzazione della loro terra e della loro anima millimetro per millimetro, ma soprattutto rifiutando di accettare la nuova realtà. È un grido di verità, in questo senso, quello che nel settembre del 1919 si alza dalla bocca del deputato sudtirolese Eduard Reut Nicolussi nel suo ultimo discorso davanti al Parlamento austriaco, quando dice che il suo popolo opporrà per sempre un solo monosillabo, il no, all'appartenenza all'Italia.

Lo strumento scelto per raggiungere questi obiettivi è quello naturale ed inevitabile della totale unità di popolo.

Tutto il resto è tattica. I sudtirolesi si acconciano a trattare con l'occupante, pronti ad approfittare di qualsiasi forma di disponibilità per rafforzare le loro posizioni, ma l'obiettivo finale resta sempre uno: cancellare l'ingiusto, tornare all'antico.

Lo strumento scelto per raggiungere questi obiettivi è quello naturale ed inevitabile della totale unità di popolo. Un mito concreto, sull'altare del quale viene sacrificata innanzitutto ogni forma di dialettica. Chiunque osi criticare dall'interno la società sudtirolese diviene automaticamente un traditore della patria, messo al bando e accusato di favorire, scientemente o meno, il nemico esterno. Chiunque osi alzare dal di fuori una critica viene rigettato immediatamente nella fossa comune con i fascisti e i nazionalisti. Così allora, così, in parte, anche oggi. La società sudtirolese tollera ancora con estrema difficoltà ogni forma di autocritica interna e respinge al mittente le obiezioni che vengono dall'esterno.

Eppure, a distanza di un secolo, sarà pur possibile esprimere finalmente qualche valutazione critica, senza doversi sottoporre all'esame di antifascismo allora, di autonomismo oggi da parte di certi tribunali della Santa Inquisizione.

Sarà possibile per esempio rilevare come l'unità dei sudtirolesi, all'indomani dell'annessione, non si sia compiuta sotto il segno di un "rassemblement" neutrale ma, di fatto, sotto le bandiere della destra nazionalista e pangermanista che aveva già occupato, in funzione antitaliana, il Welschtirol prima della guerra? Un robusto blocco di potere formato da liberal nazionali e cattolici conservatori prende in pugno la rappresentanza politica della minoranza. La prima, immediata conseguenza è quella di un'esclusione totale dell'altra componente, forse non maggioritaria ma viva e presente, nel mondo politico sudtirolese: quella socialista. Non a caso, nel 1921, le prime elezioni politiche in  cui è ammessa la presenza dei sudtirolesi, vedono contrapposta la lista del Deutscher Verband a quella dei socialisti. Poi questi ultimi scompaiono, fagocitati sul piano personale dallo schieramento patriottico o eliminati, senza che questo desti troppo scandalo, dalla persecuzione del fascismo.

La società sudtirolese tollera ancora con estrema difficoltà ogni forma di autocritica interna e respinge al mittente le obiezioni che vengono dall'esterno.

Sarà possibile altresì ipotizzare, senza per questo finire all'Indice, che questa ideologia conservatrice abbia influito nell'orientare la posizione dei sudtirolesi di fronte al quadro politico italiano, nell'indurli a respingere la mano tesa rivolta loro dalle forze di sinistra. La giustificazione storica per questo atteggiamento è quella che si richiama da sempre al sacro egoismo etnico (il termine usato oggi è "blockfrei") che impone alla minoranza di restare al di fuori dei conflitti politici interni di una nazione cui tra l'altro si sente totalmente estranea, ma forse c'è anche dell'altro. È un tema sul quale hanno sorvolato, curiosamente, anche studiosi piuttosto critici come Claus Gatterer, ma che per esempio viene evidenziato, non a caso, da uno storico "esterno" come Denis Rusinow. È un atteggiamento che risalta nei momenti più critici, come ad esempio quello della crisi seguita all'assassinio di Giacomo Matteotti. Con il senno di poi, scrivendo nel secondo dopoguerra, Karl Tinzl ha buon gioco nell'affermare che era stato saggio non seguire tutte le altre opposizioni sull'Aventino, visti i risultati di quella scelta. Con lo stesso criterio si potrebbe rispondere che neppure la decisione dei deputati sudtirolesi di restare, quasi unici rappresentanti delle minoranze, a far da esile foglia di fico per il Fascismo, nel momento di maggior crisi del regime, e di optare, anche in quel caso come in altri, per la ricerca di un rapporto diretto e semi segreto con il Potere, aveva dato esiti migliori. È un tema questo che si trascina lungo tutto il ventennio per approdare sul terreno, delicato e spinoso, del rapporto del mondo sudtirolese con il nazismo trionfante, prima e dopo la drammatica scelta delle opzioni di cittadinanza. È una delle questioni chiave che il problema dell'Alto Adige porta con sé, irrisolta, nel momento in cui, dopo lo sconvolgimento della seconda guerra mondiale, riemerge alla luce in un quadro totalmente diverso da quello precedente.

È la storia che cercheremo di raccontare nel secondo volume di quest'opera.