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Società | Avvenne domani

Le tombe di Mauthausen

Vicino al Lager un cimitero accoglie i resti mortali di italiani "dimenticati"

Fra i documenti approvati nell'ultima sessione del Consiglio Provinciale di Bolzano c'è anche quello proposto dal consigliere del PD Repetto (Salto ne ha riferito qui)  nel quale le autorità scolastiche sono invitate a promuovere viaggi per gruppi di studenti al Lager di Mautahusen, situato in Austria, a poca distanza dalla città di Linz. Mozione approvata in pratica all'unanimità e, in effetti, sarebbe difficile non esser d'accordo con qualunque iniziativa di questo genere che,  a patto che sia ben preparata sul piano dall'approfondimento storico, conduca i giovani a misurarsi personalmente con gli orrori che hanno segnato in particolare la fase terminale del nazifascismo.

Con l'occasione e senza neppure dover fare una deviazione rispetto all'obiettivo del viaggio, i giovani studenti altoatesini potrebbero essere condotti anche, sempre in quel di Mautahusen, a visitare, a poca distanza dalle mura del Lager, un cimitero di guerra che raccoglie decine di migliaia di vittime dei due conflitti mondiali e, in particolare, di militari e civili morti nei campi di prigionia.

A Mautahusen infatti i nazisti si limitarono a rimettere in funzione un vecchio campo di detenzione per i prigionieri della prima guerra mondiale. I reticolati furono sostituiti con alte mura di pietra, le baracche di legno con le costruzioni che ancor oggi raccontano l'orrore di quella fabbrica di morte e di sofferenza. Perfino la famosa cava di pietra, adiacente al campo, che è divenuta simbolo dei più inumani artifizi messi in campo dai carcerieri per eliminare più in fretta le loro vittime, era già stata utilizzata come luogo di lavoro dei prigionieri tra il 1914 e il 1918.

La terribile fama che Mautahusen si è conquistato come uno dei luoghi simbolo del vasto sistema dei campi di sterminio nazisti ha finito inevitabilmente per oscurare gli avvenimenti risalenti a trent'anni prima. Nel vasto cimitero di guerra, tuttavia, il numero di croci che portano la data degli anni della Grande Guerra non è inferiore a quelle scavate durante un subito dopo il secondo conflitto mondiale. Sono 1759 gli italiani sepolti in quella terra, tutti prigionieri morti di fame e di malattia, abbandonati da quell'Italia che li aveva sbattuti in trincea a farsi massacrare e che voltò loro sdegnosamente le spalle solo perché avevano avuto la ventura di cadere prigionieri del nemico.

È questa la storia che sarebbe forse interessante raccontare ai ragazzi delle scuole altoatesine in occasione della loro visita a Mautahusen.

Durante gli anni della prima guerra mondiale il campo accolse alcune decine di migliaia di prigionieri, perlopiù russi, serbi e italiani, ma anche, sia pur in misura molto più limitata, inglesi e francesi.

La sorte degli italiani fu particolarmente disgraziata. Il concetto-base del comandante dell'esercito italiano, il tristemente noto Cadorna, era quello secondo cui chi cadeva prigioniero del nemico era pusillanime, se non addirittura un traditore, un soggetto traviato probabilmente da quella propaganda socialista che gli alti comandi italiani mostravano di temere molto più dei cannoni austriaci. Per questo il Governo fu indotto a rifiutare di prestare qualsiasi forma di assistenza, attraverso i canali internazionali come quello della Croce Rossa, ai soldati fatti prigionieri. Una decisione di efferata ferocia, che venne propagandata in ogni modo nelle trincee, nella speranza di evitare fenomeni di diserzione e di stimolare lo spirito combattivo. Al culmine di questa tragedia si giunse nel 1917, quando migliaia e migliaia di soldati italiani furono fatti prigionieri dopo la sconfitta di Caporetto. Un tracollo originato dall'incapacità degli alti comandi, ma che Cadorna addebitò, come al solito, alla vigliaccheria dei soldati. Negli ultimi anni di guerra la situazione dei prigionieri in Austria si fece progressivamente sempre più difficile a causa della mancanza ormai cronica di cibo e medicine, che d'altronde scarseggiavano ormai drammaticamente in tutta l'Austria-Ungheria. Fu allora che si verificò il maggior numero di casi di decesso per malattia o semplice inedia.

Nel 1918, al termine del conflitto, i sopravvissuti di Mautahusen, come quelli tutti gli altri campi situati oltreconfine, poterono rientrare in Italia ma il loro calvario non era terminato. Continuavano ad essere considerati soggetti pericolosi e non solo e non tanto per le malattie che potevano diffondere, erano gli anni della famigerata "spagnola" ma anche e soprattutto perché permaneva sul loro capo lo stigma della vigliaccheria e quello, ancora più temuto, dal sovversivismo.

Furono dunque rimessi dietro i reticolati, italiani questa volta, interrogati e schedati prima di poter fare finalmente ritorno a casa, portando comunque sulle spalle il marchio d'infamia del vigliacco e del traditore.  Lo storico inglese Mark Thompson svela un altro efferato retroscena. a Guerra finita ci fu, negli alti comandi di Roma, chi proposte di deportare i prigionieri rimpatriati nella colonia di Libia, per evitare che contaminassero il fervore patriottico della  "parte sana" della nazione.

Una sorte disgraziata, dunque, quella dei prigionieri liberati, ma comunque migliore di quella di coloro che rimasero per sempre in terra straniera. Abbandonati da vivi e dimenticati da morti. La retorica patriottarda ha costruito, in specie negli anni del fascismo ma anche successivamente, una liturgia dedicata esclusivamente ai caduti in battaglia. Sulla sorte dei prigionieri è calato un silenzio quasi totale. Nel gennaio del 1993, il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, nel corso della prima visita di un capo di Stato italiano a Vienna dopo la conclusione della controversia altoatesina, volle ricordare anche loro, soffermandosi davanti a quelle tombe dopo aver visitato il Lager di Mautahusen. Un gesto doveroso ma che è rimasto isolato. Il dramma dei prigionieri italiani nell'impero austroungarico  si specchia in quello non meno terribile dei prigionieri austriaci morti nei campi italiani. Solo all'Asinara ne perirono più di settemila per il tifo e colera. Una storia che sarebbe bene raccontare ai nostri studenti.