Cultura | RECENSIONE

Matta da legare

Una riflessione, un approfondimento su una delle scrittrici e poetesse più irriverenti della letteratura italiana contemporanea.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Valentina Stecchi

“Sono nata il 21 marzo del ’31 alle cinque di un piovoso venerdì, in una casa che dava sulla via San Vincenzo a Milano. La casa era povera, ma sontuosi i miei genitori”. È Alda Merini (morta nel 2009) a dettare la sua autobiografia per il libro “Reato di Vita” edito da Melusine (associazione culturale per comunicare saperi ed esperienze di donne) nel 1994. 
Alda è figlia di una donna di grande bellezza e di altrettanto ferrea volontà, che provocherà in lei grandi complessi, di un padre raffinato intellettuale che sarà per lei il primo maestro e che a soli cinque anni le regalò un vocabolario. Seduta sulle sue ginocchia ogni sera gli chiedeva il significato di almeno dieci parole. A otto anni invece conosceva a memoria i passi della Divina Commedia e sognava soprattutto l’inferno, dato il trauma la madre le proibì di leggere alcuni libri considerati per adulti ma Alda compiva delle “rapine culturali”. A nove il primo innamoramento per un ragazzino figlio di un violinista della Scala, costretto dunque a spostamenti continui, col quale volle scappare. Saputo ciò la madre raddoppiò la vigilanza. Fu per lui che scrisse le prime rime scopiazzandole dal corriere dei piccoli. A quindici anni risolse un teorema in aggiunta di uno vecchio di Talete. Dopodiché si ammalò di anoressia a causa dell’interruzione degli studi ordinata dalla madre. A sedici scappò con un fornaio che però la lasciò per un'altra compagna, scaturendo in lei la sofferenza dell’abbandono dalla quale poi non si è mai più distaccata. “Avevo un blocco forse derivante da questi veti tremendi di mia madre ad amare gli altri invece che il Fascio Littorio”.

Durante la guerra fece la mondina e contemporaneamente prese lezioni di pianoforte. Intanto si faceva sempre più bella e i giovanotti del paese le facevano la corte continuamente. Aveva pretendenti dappertutto e sua madre si disperava temendo per la sua cattiva sorte. “A sedici anni sognavo la laurea e mi disperavo perché invece dovevo guadagnarmi il pane andando a lavorare da un commercialista. Vedendo passare una persona deforme, pensavo che la vita mi stesse deformando, che anche a me sarebbe venuta la gobba andando a lavorare. Il gobbo era felice, era contento e pur essendo io giovane e bella, lui era più felice di me. Quindi questo gobbo mi faceva scuola, mi prometteva di attraversare, portata in braccio, come un gioco infantile, il fiume travolgente che è la vita”. Nel linguaggio di Alda la parola “Amore” sta a indicare la traiettoria limitata ed illimitata dell’infanzia che esce dalle sue origini e torna alla memoria creando il debole, il forte, l’onnipotente poeta. E sin dalla tenera età amò follemente sia la cultura che l’essere umano. Fondamentale poi la musica, la madre mentre cuciva fino a notte tarda cantava continuamente, e il padre era un buon tenore e la famiglia aveva accesso quindi a tutte le opere. Tra lo studio grande avvenimento, il restio verso i giochi con i bambini e soprattutto il grande amore per la perfezione dei genitori, la ricerca del suo personale atto amoroso, Alda rimane sconvolta dalla vita.

E abbiamo i primi ricoveri in manicomio, per lei grande atto di colpevolezza e punto di osservazione, ciò che l’ha salvata è stato lo stupore di fronte alla perdita di dignità dell’essere umano. “Io che ho vissuto la guerra, con mio padre deportato al confine perché non aderiva al fascismo, ho trovato che la pace dei manicomi era la pace dei Lager e che come una qualsiasi ebrea, anche io ero stata deportata”. Da qui il titolo della sua raccolta “La terra santa”. Ha accettato il manicomio perché una volta che si è dentro riesce ad immaginarsi il proprio paradiso al di fuori delle mura, anche se queste mura sono infinite, si prolungano oltre la fisicità. In manicomio bisognava che la logica, il pensiero e la cultura fossero strappati dalla carne, bisognava rinnegare il sapere. Alla morte della madre il manicomio divenne la sua seconda casa, una continuità della vita reale mutata in luogo che vuole farti rinnegare tutto il sapere a discapito dell’tanto altro che vi è nella vita. “Ero una bambina felice, talmente felice che spesso piangevo e pregavo Dio di castigarmi. A volte non mangiavo per giorni perché i poveri non potevano sfamarsi. Quando mi ritrovai in manicomio ogni tortura mi sembrava adatta al caso e chiedevo soccorso solo quando rischiavo di morire”. I poeti, incapaci di decidere di voler stare bene, finiscono il più delle volte ad autopunirsi per assolversi dai sensi di colpa delle ferite più profonde.

Quelle ferite che viste da lontano assomigliano a lievi voli in direzioni errate, ma pur sempre grandi voli. “La vita finisce esattamente quando abbiamo composto tutto il mosaico e può darsi che una bruciante passione occupi d’un colpo tutto il posto del vuoto del mosaico. Ecco perché la passione incendia”. E le grandi passiono non tardano a scoppiare. Fondamentali per la poetica di Alda la prima società poetica con Spagnoletti (il suo secondo marito), Quasimodo (amò profondamente pure lui), Erba, Camillo De Piaz. “Quasimodo sì, è stato un maestro, ma come analista d’amore. Ogni innamorato è un’analista perché se pensiamo che si rivede nella persona amata, allora capiamo che la vuole conoscere, la vuole imparare, la vuole correggere”. E sono stati parecchi e soprattutto mai leggeri gli amori di Alda, ognuno dei quali ha contribuito a levigarla partendo dal suo essere di creta pura. La poetessa si è poi resa conto che la realtà è la visione collettiva delle cose. Comincia il senso della realtà, la vita quando si può dire “Sediamoci qui, intorno a un tavolo”. Si deve provare e vedere a se stessi che cos’è la vita, quel peso che a volte è bello portare. E poi al contrario la sua leggerezza insostenibile. 

Dall’alto del muro di cinta del manicomio, un matto che sta per evadere vede il via vai nella strada e chiede ad un passante: “Ma in quanti siete nel vostro manicomio?” Per tutti i manicomi che sono stati vietati e a tutti gli altri che continueranno sempre ad esistere fuori dalla mura. Ecco, che non sia nulla di che il nostro entrare in vita: guardarci attorno e decidere di volere, viverne di tutto, guidarci. Se ci basta guardare per cambiare sarà nell’atto la giusta crescita. Che la poesia non venga rinchiusa e né proclamata occasionalmente ad alta voce, stia nel mezzo il fiume del suo trasporto a tutta l’umanità.

Testo: Joana Preza
Illustrazione: Valentina Stecchi