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Il mondo non coincide col viale di casa

Che senso ha un viaggio attraverso 5 paesi europei in 24 ore? Che storie si raccolgono lungo un confine? Esiste una “letteratura europea”? L’intervista a Paolo Di Paolo.
Europa
Foto: Pixabay

salto.bz: In un capitolo del tuo ultimo libro, Svegliarsi negli anni Venti (Mondadori), racconti del tuo viaggio attraverso Italia, Germania, Belgio, Olanda e Francia in meno di ventiquattr’ore. Come ti è venuta quest’idea? Qual è il senso di un’esperienza del genere?

Paolo Di Paolo
: È stata un’avventura che ho ripetuto due volte: nel 2017 in occasione del 60° anniversario dei trattati di Roma, per il Venerdì di Repubblica, e nel 2019 in prossimità delle elezioni europee, per Repubblica. Un azzardo nato da una più ampia riflessione sul nostro disancoramento dal sentimento europeo. I confini, che pure restano segnati sulle carte geografiche, non sono invalicabili, o almeno non lo sono per una certa parte di popolazione non svantaggiata e non percepita come estranea. Potrebbe sembrare insufficiente per parlare di sentimento europeo, e tuttavia credo che pensarci, che pensare a questo diritto, che potremmo dire acquisito all’atto di nascita, sia fondamentale, e forse lo facciamo troppo poco.

Perché?

Perché chi come noi è nato nel tardo ‘900 o dopo il 2000 ha conosciuto una forma di europeismo magari blanda, ma che può spingere a superare le appartenenze identitarie nazionali. Credo sia più facile che un ragazzo degli anni ’90, come te, o un uomo degli anni ’80, come me, si trovino sostanzialmente affini non dico nel sentirsi europei, che magari è una petizione di principio, ma nel sentire di avere una percezione di appartenenza nazionale meno pregnante.

Credi che questo sia dovuto anche al potersi spostare in libertà all’interno del continente?

Esatto. Non voglio parlare di Generazione Erasmus, ma muoversi attraverso l’Europa senza limitazioni e più spesso di quanto si faceva un tempo, sia per ragioni di studio e lavoro che per semplici viaggi, è senz’altro rilevante, perché aiuta ad assimilare un certo tipo di paesaggio e sentimento europei o comunque sovranazionali. Il senso dei miei reportage parte da questo. L’Europa politica, se vogliamo chiamarla così, è incapace di comunicare attraverso un linguaggio che non sia grigio come i gessati di chi siede in quegli scranni. L’indifferenza che ne consegue, però, può essere riscaldata dall’essere consapevoli della ricchezza clamorosa che è la libertà dai confini.

 


Come hai organizzato questo viaggio “estremista, solitario, iperbolico”?

Nel modo più semplice possibile. In entrambe le occasioni, l’unica cosa che ho prenotato è stato il primo volo da Ciampino a Düsseldorf e quello di rientro da Parigi a Roma. Tutti gli spostamenti interni li ho organizzati sul momento. La cosa che mi ha colpito di più è che nessuno mi ha mai fermato, a nessun confine. Lo sconfinamento veniva richiamato, come ho scritto nel libro, solo da un messaggio sul cellulare che mi avvisava del cambiamento di tariffa telefonica. Questo ha un rilievo etico e politico che valutiamo troppo poco.

Che relazione c’è tra la libertà di cui parli e gli errori o i vuoti che si imputano talvolta all’Europa?

Ci sono molti problemi e si possono fare centinaia di specificazioni legittime. Si possono criticare scelte, errori e mancanze, come la gestione e i blocchi dei flussi migratori o la questione greca. Tutto questo disturba e ha disturbato anche me, e come accennavo penso che anche la capacità comunicativa del Parlamento Europeo sia pressoché nulla. Dovremmo poi capire a cosa pensiamo quando parliamo di Europa. In ogni caso, credo che il solo poter respirare l’Europa, col suo patrimonio storico enorme ma anche la sua contraddittorietà, possa aiutarci a sentirci parte di qualcosa di più vasto di uno spazio delimitato, di uno spazio chiuso. Come scrive Javier Cercas, una certa idea di Europa è un’idea di orizzonte largo, di pienezza, di culture molto diverse che però hanno convissuto in modo quasi sempre pacifico per poco meno di un secolo. Al netto di tutte le obiezioni che abbiamo accennato, e che meriterebbero di essere discusse una per una, questa è una fortuna che non possiamo dilapidare.

 

Lo sconfinamento veniva richiamato solo da un messaggio sul cellulare che mi avvisava del cambiamento di tariffa telefonica.


Nell’ultimo anno la pandemia ha ristretto drasticamente i margini delle nostre possibilità di spostamento. In qualche modo questo si lega a ciò che stai dicendo a proposito dei confini?

Una specie di contrappasso dantesco: discutevamo aspramente di confini, e cos’è che abbiamo sofferto di più nell’ultimo anno? I confini. La crisi sanitaria per un virus arrivato dall’altra parte del mondo li ha portati a coincidere con i limiti del nostro corpo. Possiamo allora provare a chiederci: perché il confinamento ci disturba? E forse una risposta è che ci impedisce di muoverci senza che qualcuno ci chieda dove stiamo andando, un diritto che sembrava scontato ma che di fatto è una delle più grandi libertà che abbiamo conquistato.

Scontato per una parte della popolazione, ma non per chi è abituato a fare i conti con confini che coincidono col proprio corpo. Nel capitolo “Prima i Ciuk!”, riprendi un reportage dal Brennero che hai fatto per L’Espresso e racconti di Ebrima, nato a Baku, in Gambia, nel 1997, che vuole raggiungere uno zio a Monaco, e di Thierry, ivoriano, trentun anni, che viaggia con la ragazza ventiquattrenne al quarto mese di gravidanza. Vengono fermati al confine e vorrebbero sapere come raggiungere l’Austria. Sono arrabbiati perché non li lasciano vivere. Scrivi: “Su un giornale locale un lettore scrive preoccupato soprattutto per i possibili bivacchi di migranti (stanno sempre al telefono, osserva) e ha la soluzione in tasca. Usiamoli come facchini alla stazione, “come lustrascarpe”. Scrive proprio così, “come lustrascarpe”. Il mondo, nella testa degli esseri umani, va sempre più lento di quello fuori. Si aggrappa al noto, al certo, tutte le frontiere iniziano lì. […] Non so se l’idea di comunità europea stia davvero morendo al largo della Sicilia, o dove. So che ho visto morire qualcosa sul viso di Ebrima – appena calato il sole, in un freddo ancora invernale. E sul viso di Thierry”.  

È questo il punto. Quando capita ad altri non te ne accorgi. È per questo che ci si dovrebbe muovere alla ricerca di orizzonti più larghi. E per la stessa ragione dovremmo renderci conto di quanto sia anacronistica l’idea dei confini, di rivendicare i confini con la stessa intenzionalità e presunzione con cui venivano disegnati con un colpo di matita a Versailles nel 1919, alla fine della Prima guerra mondiale, da signori in “frac e redingote”. Ma quei confini sono arbitri umani sempre abbastanza discutibili. Se non riesci a guadagnare un sentimento più ampio, che la storia ti impone, torni indietro. Torni indietro di parecchio. Se non ci accorgiamo dei confini che bloccano i corpi degli altri, possiamo cercare di interrogarci su questo ora che hanno toccato anche i nostri, seppur per ragioni del tutto diverse. Quanto è importante l’idea di spostarsi, senza l’obbligo di chiedere permesso, per cercare un posto dove stare, dove vivere, lavorare, innamorarsi, imparare una lingua? Questa cosa qui, almeno internamente, l’Europa lo è diventata. Secondo me dovrebbe essere considerata una conquista da tutelare. Riconoscerla come tale può aiutarci a estendere il ragionamento ancora più in là, oltre i limiti geografici di un continente.

 



Prima parlavi di Javier Cercas, senza dubbio uno dei più grandi autori contemporanei europei. Secondo te esiste una “letteratura europea”? E se la risposta è sì, conta qualcosa essere “scrittori europei”?

Tempo fa ho fatto la stessa domanda, con lo stesso slancio, a due scrittori spagnoli, Edurne Portela e Manuel Vilas. Mi hanno stupito rispondendomi di no. La ragione della loro risposta, però, credo abbia a che fare con la lingua. L’identità che riesci a definire in termini di scrittura discende in buona parte dalla lingua con cui ti esprimi. Secondo me, quando parliamo di scrittori spagnoli o italiani o francesi pensiamo soprattutto al fatto che si esprimono in quelle lingue, più che al loro paese di origine. Javier Cercas, nella sua bellissima lezione sull’Europa, E pluribus unum, parla di Europa come di una “dimensione della mente”. Al di là dell’astrazione, però, ogni scrittore è indissolubilmente legato alla lingua con cui lavora. Erri De Luca una volta disse di non essere uno “scrittore italiano”, ma uno “scrittore in italiano”. Altrove, questa distinzione è mitigata da fatti contingenti. Semplifico al massimo grado, ma probabilmente tra Philip Roth e Bret Easton Ellis, che pure provengono da due mondi diversi, uno East Coast e l’altro West Coast, e appartengono a due generazioni differenti, c’è meno differenza di quanta ce n’è tra me e Fernando Aramburu, e penso a lui perché ha scritto un bellissimo romanzo, Patria, sugli anni duri del conflitto basco. Il fatto che sia difficile avvertire un’uniformità all’interno di queste differenze, però, può essere visto come un vantaggio piuttosto che un limite.

 

Come potevo recuperare in me, quasi epidermicamente, il senso dell’Europa?


Forse è proprio riconoscersi in questa prospettiva, piuttosto che in un qualche altro senso di appartenenza, che aiuta a mettere a fuoco gli orizzonti più larghi a cui ti riferivi e di cui scrive Cercas?

Alla risposta di Portela e Vilas avevo reagito con un’altra domanda: se non ti senti uno scrittore europeo, ma uno scrittore spagnolo che vive in un certo continente, come fai a convincere un vecchio cittadino, o magari un giovanissimo attivista della Catalogna, giusto per fare un esempio, che la sua battaglia può avere senso ma solo se è proiettata in un orizzonte più largo del confine che lui rivendica? Se non senti che il confine che credi ti protegga è in realtà un limite, un confinamento, come fai a convincere lui? C’è stato un attimo di silenzio, e poi Manuel Vilas ha risposto: “Toccandogli il cuore”. In un primo momento mi è sembrata una risposta un po’ ingenua, ma poi ho pensato che se un presupposto politico non è scaldato da una forza emotiva non riesci a convincere nessuno, non solo l’anziano catalano ma neanche il giovane. Durante un incontro al Salone del Libro di Torino, nel 2018, Fernando Aramburu mi ha detto: “Il mondo non coincide col viale di casa”. È questo quello che sto cercando di dire. Non puoi pensare che il mondo finisca lì. Anche perché quando ti ci hanno bloccato, nel viale di casa tua, quanto hai sofferto?

 

L'incontro tra Fernando Aramburu, Paolo di Paolo e Maria Ida Gaeta al Salone Internazionale del Libro di Torino


Antonio Tabucchi, con cui tu hai lavorato e di cui hai recentemente curato la raccolta di racconti Che ora sono da voi? edita da Feltrinelli, ha incarnato, sia da un punto di vista letterario che umano, questo superamento dei confini. Intervistato per Televisionet in occasione della vincita del Premio Frontiere-Biamonti, disse che la letteratura, l’arte e la musica dovrebbero fare della frontiera “non tanto un luogo di divisione ma un modo di partenza, un luogo di partenza”.

Se parliamo di ricezione, Antonio Tabucchi ha avuto riscontri immensi sia in Europa che al di fuori, così come Umberto Eco – sono stati probabilmente gli ultimi autori italiani a essere davvero internazionali, seppur lungo strade diverse. La loro è stata una ricezione stratificata, non solo in termini di quantità ma anche di impatto culturale. A questo, Tabucchi aggiungeva un sentimento dell’Europa che raramente ho incontrato in altre persone. Anche soltanto vivendogli un po’ accanto, quell’ampiezza di sguardo appariva nitidissima. La luce di Creta, quella equinoziale di Londra, il sapore di una taverna greca, le aringhe marinate del Nord Europa; questo senso del sublime e del contro-sublime, l’accostamento della cultura, della musica, della letteratura e dell’arte alla convivialità di una tavolata condivisa e una chiacchierata con degli sconosciuti… Umanamente e biograficamente si muoveva in Europa con la disinvoltura con cui ci si muoverebbe in una casa larga. E questo si rifletteva nell’umore dei suoi libri. Quando ho curato Viaggi e altri viaggi ho provato a tracciare una mappa della letteratura tabucchiana, ed è immensa. Sconfinata, appunto.

È qui che si può cercare un possibile senso dell’“essere europei”?

È qui che l’ho cercato io con quel viaggio di ventiquattr’ore: nel piano emotivo a cui si riferiva Manuel Vilas. Come potevo recuperare in me, quasi epidermicamente, il senso dell’Europa? Forse anche nelle piccole cose che ho trovato durante quegli spostamenti: un caffè a Roma, un hot dog e una zuppa di asparagi bianchi a Düsseldorf, una crepe al cioccolato a Bruxelles, una cena in un chioschetto di Parigi, ma anche i treni regionali, le biciclette di Maastricht, un certo taglio di luce, le sensazioni olfattive e tattili, e le diverse lingue che incontri nelle strade e sui mezzi. Credo che con quella risposta, “toccandogli il cuore”, Vilas parlasse di questo. La provocazione del viaggio era quindi prima di tutto a me stesso. Una spinta a ricordarmi quanto è importante tutto ciò. Non voglio banalizzare o fingere di non riconoscere problemi senz’altro complessi, ma ha davvero senso continuare a parlare di confini e barriere o vogliamo piuttosto provare a guardare a quello che c’è oltre?