Cultura | Salto Weekend

Art Needs You!

Una piattaforma – un gruppo di artisti – una mostra – un artista internazionale – un tema: “la paura”. Che cosa nasce dal lockdown, per far crescere, l’arte in futuro
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Foto: Salto.bz

L’intento era inizialmente quello di creare una piattaforma online in cui artisti, arte e pubblico potessero incontrarsi in pieno lockdown, in cui gallerie e ogni altro locale pubblico dove potersi incontrare erano serrate. Poi, ne è nato un gruppo di scambio tra artisti e pubblico, e ora anche una mostra in una galleria non galleria, ossia l’atelier di uno di loro, Xander Luchs, il quale lo ha intitolato “Seh-Gespräch”, che tradotto in italiano significa “comunicare guardando” o “guardare comunicando”, nel senso che tra l’opera d’arte e chi guarda si crea sempre un dialogo implicito, e qui lo si vuole stimolare. 
Partiamo dall’inizio. L’idea era di Fabian Tribus e suo padre Peter Tribus, entrambi artisti, che si sentivano soli come tante altre persone nella primavera scorsa, in cui tutto era chiuso per cui – visto che tante attività si erano spostate online – avevano pensato anche loro di creare un luogo di incontro virtuale fondando il sito web artneedsyou.com (l’arte ha bisogno di te), per offrire una piattaforma (e una vetrina di vendita, visto che era venuto a mancare anche una fonte di introiti) anche ad altri artisti e artiste che si sentivano altrettanto schiacciati in un angolo dalle direttive restrittive per l’emergenza sanitaria Covid-19. 

Una volta riaperte gallerie e atelier, il gruppo fondatore si era reso conto che non solo in quel contesto la cultura era stata quella maggiormente penalizzata, ma già da prima era iniziato un lento ma progressivo processo di “annacquamento” che rischia(va) far perdere – non solo - le radici animiche. Quando la cultura viene meno, l’ignoranza e l’arroganza hanno la strada facile. “La cultura è il riso per l’anima”, recita un proverbio indiano, dunque il gruppo fondatore (i due Tribus e Luchs) si erano ripromessi di provvedere a nuovo cibo per questa anima affamata creando mostre anche dal vivo in cui esporre artisti e artiste, più o meno noti, più o meno originari/e della terra sudtirolese, e di sceglier per ogni mostra un tema di attualità e invitare artisti e artiste internazionali a dare il “la” intervenendo con una piccola conferenza all’inaugurazione.

La prima sta per chiudersi nell’atelier succitato all’inizio, situato a Merano in via della Chiesa al numero 26: il tema è stato la paura, la paura di perdersi, la paura di uscire, la paura di ammalarsi, la paura della paura. Chi non ha notato come e quanto è cresciuto questo sentimento, da quando si è impiantato nel nostro cervello lo spettro del piccolo virus arrivato da chissà dove? L’artista ospite è stato Antonio Riello, professore universitario a Londra, molto noto negli ambienti internazionali benché molto giovane, pacifista di animo e nella professione: ama decorare armi o aerei che le trasportano, onde richiamare l’attenzione pubblica ai fini di non usarle “contro” qualcuno ma piuttosto “a favore” dell’arte. Inoltre, egli ama scarabocchiare con la sua biro blu creando immagini immanenti, intriganti e inquietanti, che nascono da linee infinite, come raggomitolate: in questo contesto si è dedicato alla paura domestica: in casa, in cucina, nel luogo del focolare che al contempo si fa luogo “de fuego”, dove un utensile della vita quotidiana facilmente può trasformarsi in arma da taglio. La violenza domestica si sa nasce da un eccesso di amore, le uccisioni di donne (raramente di uomini) ma sempre più spesso anche di bambini, fuoriescono da “famiglie serene”: nel suo disegno essa ci aggredisce non soltanto da un ben definito coltello, quanto ancor più da quei due volti celati in due cerchi accennati che potrebbero essere anche il manico di una forbice… La linea del cuore conduce alla linea dell’odio, quella dell’amore a quella della morte. La linea è una, procede, sta a noi interromperla, Riello in-segna.

La paura della morte, la morte, il lento passaggio dalla vita (apparente) in una immagine (quella delle piccole foto sulle tombe) si iscrive nel lavoro di Walter Blaas, che nel titolo “Angesichts des Todes” già esplicita questa doppia valenza: “Angesicht” che in tedesco vuol dire “volto” (quel volto della morte), mentre quella “s” finale aggiunge il doppio significato del “guardare la morte in faccia”. Quanta paura genera in noi una situazione simile? E: come ci si sente a guardare quelle fotine nei cimiteri, tutti quei morti, tutti quei fantasmi, che un tempo si aggiravano nelle strade come noi? E come ci sentiamo pensando che noi, un tempo, potremmo essere quegli stessi soggetti di quelle fotine, un domani… Chissà.

Con questa piccola mostra di fatto il gruppo ArtNeedsYou intendeva anche rovesciare il concetto classico di una galleria cittadina che vuole chiamare le persone a sé, facendo arrivare le persone in periferia, in un “luogo non luogo” dove infatti sono arrivate numerose, grazie al passaparola, attirate dalla sfida lanciata del “dialogo visivo”. C’erano persone di tutte le età, c’erano presentazioni degli stessi artisti e soprattutto i giovani hanno espresso idee nuove generate da quelle stesse immagini proprio grazie alle parole aggiunte da coloro che le hanno create. Come può la polvere scura del caffè generale la luce del domani? nell’accattivante composto astratto di Sylvia Neulichedl? Come può un elefante infilarsi in mezzo a due colonne di un tempio antico? La stampa a colori di Christian Martinelli, artista meranese, che qui ha ribadito ancora una volta la sua ben nota arte nel saper cogliere attimi impercettibili in paesaggi realistici, intervenendo con il suo obiettivo sempre aperto al massimo, ha qui voluto (rap)presentare una impressione captata in uno zoo di Pechino “a ‘di-segnare’ l’azione del passato”. Nell’immagine istantanea rappresenta il presente e la triste e inevitabile percezione del suo futuro, ne scrive a proposito. “La paura della mancanza di libertà, mi toglie il fiato”, afferma Matinelli, lo fa dire all’elefante che nella sua mole non trova spazio sufficiente, ma di fatto è l’artista stesso che lo urla ai quattro venti!

A molti risultava l’opera più inquietante, altri invece ci vedevano ciò che “è”, altri ancora la temevano: di qui il nome “Seh-Gespräch” inventato dallo stesso Xander Luchs in quanto uno sguardo genera l’altro, un occhio vede e l’altro provvede, un’opinione stimola un’altra e un’altra ancora. Lui per questa “mostra della paura” ha creato una immagine lavorando in profondità, sovrapponendone tre, una sopra l’altra, creando in primo piano una silhouette umana scura ai margini di un bosco da cui emerge a dimensioni sovranaturalistiche la testa di un lupo dagli occhi gialli. Il titolo “Ur-Angst”, ossia “paura primordiale”, allude alle nostre paure più intime, quelle che nascono nel nostro inconscio, e l’artista si mette in contatto con il proprio timore del buio, dell’abbandono, del sentirsi solo, e la pone in relazione agli animali (qui al lupo, animale per eccellenza che richiama la paura, basti pensare alla favola del “Cappuccetto Rosso”). Fotografo, Luchs affina lo sguardo nel reale, ma fa parlare l’intuito per aggirare l’ovvio nella sua arte fotografica, puntando l’obiettivo su strutture, nessi, casuali e non, focalizzandone punti di correlazione con l’uomo, la natura e l’architettura. Ama addentrarsi nello specchio della realtà per farne emergere quello dell’anima usando tecniche varie per elaborare le immagini stravolgendole fino all’irriconoscibile.

Da menzionare, infine, le due opere plastiche: la “Angst-Säule“, ovvero la „colonna della paura“, creata dallo scultore Andy Geier e il plastico „Angst vor der Angst“ (Paura della paura) di Peter Tribus. La prima nasce da un tronco di marmo, un tempo usato per delimitare le proprietà ai fini di difenderle contro estranei, di qui l’uso come simbolo della paura dell’ignoto. L’artista ha voluto andare oltre e condurre questa paura verso la libertà, creandone una figura umana, senza alcun limite attorno e che non delimita più nulla. Nemmeno la propria essenza. Infatti, Geier invita il pubblico a toccarla, a guardarla prendendola in mano, per „comprenderla“ - nel vero senso della parola - essendosi lui stesso in un certo senso liberato di una paura, o meglio del timore di fronte a un blocco di marmo, il timore di sbagliare un colpo. Forse era accaduto proprio quello che un tempo disse il grande Michelangelo del proprio fare scultura: di voler unicamente liberare la forma già iscritta in esso! Lo stesso nocciolo di paura, quella di prendere (o far prendere) vita, ha voluto affrontare Peter Tribus nella sua prima stampa realizzata in 3D: un modellino architettonico di una facciata di una casa con due balconi e una scala, dove una figura bianca rattrappita è seduta – sola - dentro (o dietro?) le sbarre di un balcone, una sorta di gabbia, la paura della paura, appunto, che conduce da sempre alla paura della vita, quella sottile paura del vivere che non è nient’altro che mancanza di amore. Amore verso se stessi, amore per ciò che amiamo. Qui, l’amore dell’artista per l’arte che - però – se manca di dialogo, spesso, non può e non vuole vivere.
Per chi vuole far vivere l’arte e conoscere ancora meglio gli artisti citati (e quelli non citati) la galleria online artneedsyou.com è aperta ventiquattrore su ventiquattro... Basta un click!