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My brilliant 2018

Con “Lazzaro Felice”, “L’amica geniale” e “Capri Revolution”, il cinema italiano rivolge lo sguardo al nostro passato – e un messaggio al presente. Sapremo ascoltarlo?
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Foto: web

Siamo persone divise. Divise tra le radici che ci trattengono alla terra natia e i rami che si protendono verso il cielo, alla ricerca del sole. Al richiamo del mondo resiste il nostro passato, la nostra storia, i paesaggi a noi più familiari. Fuggire altrove, oppure restare dove siamo cresciuti? L’andare via spesso non rappresenta una libera scelta, bensì un’imposizione, dettata dalle condizioni politiche, economiche, culturali della realtà che ci circonda: per non restarne schiacciati e migliorare le proprie condizioni di vita, o perché costretti dalla guerra e dalla povertà.

Ingiustizia e disumanità

Di come l’Italia sia faticosamente uscita dalla povertà, attraversando un mare di contraddizioni, parlano tre pellicole italiane uscite nel 2018, che meritano di essere viste (e riviste). La prima è Lazzaro Felice, terzo film della regista Alice Rohrwacher. In un indefinito Centro Italia – tra accenti laziali, maremmani e umbro-marchigiani – i contadini mezzadri dell’Inviolata lavorano al servizio della padrona, la marchesa Alfonsina De Luna, che li tiene in uno stato di schiavitù. Il giovane Lazzaro, dalla bontà sovrannaturale, è a sua volta sfruttato brutalmente dagli altri contadini nella raccolta del tabacco: “Io sfrutto loro e loro sfruttano quel pover'uomo. È una catena e non si può fermare” dice la marchesa. Quando la comunità verrà liberata dal “grande inganno”, l’arretratezza e l’isolamento cui sono costretti ben oltre la fine della mezzadria, le si apriranno le porte della città contemporanea – e di un “nuovo inganno”, fatto di emarginazione e sradicamento. Nessuno vuole “tornare a zappare” all’Inviolata, al “vero vino, vero pane” di una volta: ad accorgersi dell’ingustizia subìta resta solo Lazzaro, scomparso e ricomparso come per magia, come se il tempo non fosse mai passato. Un quieto ribelle, troppo santo per essere (dis)umano.

Il valore rivoluzionario della libertà

Un qualcosa di magico e spirituale è presente anche in Capri Revolution di Mario Martone, già regista de Il giovane favoloso sulla vita di Giacomo Leopardi. Questa volta la protagonista è la giovane Lucia, che porta a pascolare le capre sull’isola di Capri, nel golfo di Napoli. La sua vita è stretta tra il mondo contadino dal quale proviene, paternalista e analfabeta, l’ideologia socialista e interventista del dottore del paese – siamo allo scoppio della Grande Guerra – e una comune di nordeuropei che propugna il pacifismo, il nudismo e il vegetarianesimo. Lucia si trova di fronte al riscatto possibile con l’arte e la musica, come fu per Leopardi il bisogno di amore, d’entusiasmo, di vita, di fronte all’insopportabile “prudenza” del villaggio di Recanati. “Il giovane favoloso si conclude con La ginestra, la poesia in cui Leopardi si interroga sul progresso in natura, e questi sono i temi di Capri Revolution” spiega il regista, ricordando “La rivoluzione siamo noi” di Joseph Beuys: i protagonisti del film sono giovani e ribelli, “il desiderio è di raccontare un’Italia che non è doma, che sente la spinta a cambiare, a interrogarsi sul rapporto tra collettività e individualità”. L’isola è una metafora del mondo, “il confronto non si può eludere, è inevitabile”.

Liberatoria come la conclusione di Capri Revolution è la colonna sonora affidata a Sascha Ring (Apparat) da Martone, che restituì sul grande schermo L’amore molesto, primo libro dell’allora semi-sconosciuta Elena Ferrante. E sono proprio le parole potenti dell’autrice de L’amica geniale riportate fedelmente dalla bellissima serie tv di Saverio Costanzo (musiche di Max Richter e voce narrante di Alba Rohrwacher) a essere capaci di emozionare e commuovere ben al di là dei confini nazionali. È la luce che sprigiona Napoli, la lingua napoletana di Lila e Lenù – le due bambine cresciute nell’Italia del secondo dopoguerra protagoniste del romanzo di Ferrante – i loro sguardi, le urla e la polvere che si alzano tutt’attorno nel rione. C’è qualcosa di altamente poetico e profondamente umano, italiano – se quest'aggettivo può avere ancora un significato nobile. Si tratta della capacità di indagare – con la scrittura così come con la cinepresa – dentro gli strappi della nostra identità, individuale e collettiva, devastata da ogni genere di sopruso e cattiveria, ma capace ancora di brillare di luce propria. Ma sarebbe riduttivo ricondurre tutto a una celebrazione del nostro paese: è proprio l’universalità della natura umana a essere al centro, la perpetua ricerca della propria libertà e l’emancipazione dalle tenebre, il guardare al futuro così come i nostri occhi si illuminano alla vista del mar Mediterraneo.

La bellezza che ci manca

Non serve scomodare Pasolini perché sorga il dubbio che proprio le magnifiche sorti e progressive, una certa idea di sviluppo propagata da chi si riempie la bocca con il made in Italy, abbiano mandato in cortocircuito il rapporto con il “locale” e la “tradizione”. Con quell’Italia rurale, brutale e “cattiva”, ma ancora capace di farsi comunità nel conservare i suoi riti secolari. Non illudiamoci sia qualcosa appartenente al nostro passato: c’è una lezione preziosa impartita al presente (e al mondo) da questi film. Se non saremo in grado di guardarci allo specchio, un paese come il nostro –  capace di produrre grandi meraviglie artistiche, ma abbruttito dal cinismo e dalla volgarità non solo della sua classe politica – non potrà che infliggere ulteriori violenze ai suoi figli costringendoli alla fuga. Peppino Impastato proponeva di “educare alla bellezza, un'arma contro la rassegnazione, la paura e l'omertà”: siamo ancora in tempo a salvarci, a ribellarci come Trina – la protagonista del romanzo Resto qui se sapremo ascoltare le voci di Lazzaro, Lila, Lucia che si alzano dal ventre dell'Italia.