Società | Declino demografico

Un gelido inverno (demografico)

Perché dobbiamo preoccuparci del calo della popolazione in età lavorativa. Dai congedi parentali alle politiche per gli under 35: come contrastare la crisi delle culle.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale del partner e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Adobe Stock Images

Uno “tsunami d’argento”. Così in un recente articolo il New York Times ha definito la crisi della natalità nel nostro Paese, tra le più gravi in Europa, chiedendosi se l’Italia non fosse destinata a scomparire. Lo scenario, del resto, tra un marcato invecchiamento della popolazione e un processo di ricambio generazionale a rischio, è a tinte scure. Come risollevarsi dunque dalla denatalità e dal regresso demografico? Ne abbiamo parlato con Emiliano Campisi, ricercatore dell’IPL | Istituto Promozione Lavoratori.

salto.bz: Quali sono le principali cause del calo delle nascite?

Emiliano Campisi: L’Italia sta passando un inverno demografico ormai da molto tempo. Gli ultimi dati Istat riportano che le nascite sono scese per la prima volta sotto quota 400mila l’anno. Sicuramente pesa l’emergenza Covid ma si tratta di una tendenza ormai consolidata e che è iniziata ben prima della pandemia. Tra il 2008 e il 2019, ad esempio, le nascite sono calate del 27%. Il problema, dunque, esiste, le cause sono molteplici e spesso anche intrecciate. Da una parte gravano le condizioni economiche del Paese; come noto infatti l’Italia è l’unica realtà in Europa in cui i salari sono diminuiti rispetto al 1990 in termini reali e precisamente del -2,9%, mentre in altri Paesi come la Spagna sono saliti del 6,4%, in Austria del 25%, in Francia del 31%, in Germania del 33%. Dall’altra parte pesano le misure di politica famigliare che certamente influiscono non poco sulla scelta di diventare genitori.

Tra il 2008 e il 2019, ad esempio, le nascite sono calate del 27%.

Un inverno demografico è problematico sia economicamente che per la sostenibilità del sistema pensionistico.

Le previsioni Istat ci dicono che, se non dovesse esserci un cambio di rotta, nel 2050 gli italiani potrebbero essere 5 milioni in meno. Questo significa che solo poco più di una persona su due sarebbe in età lavorativa, cosa che porterebbe un 52% di persone tra i 20 e i 66 anni a provvedere sia alla cura e alla formazione delle persone under 20 (16%), che alla produzione di adeguate risorse per assistere e mantenere i pensionati (32%). Si tratta pur sempre di proiezioni a lungo termine e quindi caratterizzate da una dose di incertezza; ciò che è indubbio invece è che il tasso di fecondità per mantenere stabile il numero di abitanti deve essere poco superiore a 2, e in Italia questo indicatore al momento risulta pari a 1,25.

Per il nostro sistema di welfare questo cosa implica?

Più ci allontaniamo in difetto dal numero 2, più il sistema di welfare va sotto pressione e più dobbiamo riformarlo. L’equilibrio, del resto, è garantito dal rapporto tra lavoratori attivi e non attivi. Ciò che dobbiamo chiederci a questo punto è: siamo noi a doverci allineare al sistema pensionistico, e quindi a dover rincorrere la denatalità facendo sempre più figli per finanziare questo sistema, oppure possiamo trovare un modo per conformarlo a immagine e somiglianza della società attuale operando dei cambiamenti strutturali?

Quella economica non è l’unica ragione per cui nascono meno bambini. Sull’opportunità di avere figli possono incidere le politiche per la famiglia ma anche ad esempio l’incertezza e la sfiducia verso il futuro.

È così, le condizioni macroeconomiche pesano fino a un certo punto. Poi ci sono appunto le politiche di welfare famigliare; pensiamo al tema dell’abitare, a quanto sia difficile per un giovane poter comprare una casa data l’attuale precarietà del mondo del lavoro; pensiamo al tema dei nidi, alla difficoltà di accedervi e ai relativi costi, senza contare le spese scolastiche, educative, culturali, sportive. E non ultima è la questione dei congedi parentali.

Ovvero?

Dunque, si tratta di strumenti che storicamente in Italia sono stati rivolti soprattutto alle donne, nella vecchia concezione per cui la cura del focolare spettasse alle madri. Una visione non solo ingiusta ma anche deleteria nelle sue conseguenze perché scaricare tutto il lavoro di cura sulle donne significa ostacolare, se non rendere impossibile, la loro auto-realizzazione e la loro indipendenza sul piano lavorativo, economico e sociale. In confronto a molti paesi Ocse in Italia le donne hanno più difficoltà a conciliare lavoro e famiglia e spesso si trovano a dover scegliere tra avere un impiego o avere dei figli. Il risultato è che abbiamo un basso tasso di natalità rispetto al resto d’Europa e un basso tasso di occupazione femminile (in Italia è al 49%, mentre la media europea si attesta intorno al 63%). Un sistema di welfare ancora “maternalistico” - come lo ha definito Maurizio Ferrera sul Corriere di qualche giorno fa - crea evidentemente molti squilibri. Ad esempio per sobbarcarsi il compito della cura dei figli molto spesso le donne sono costrette a prendersi lunghe pause dal lavoro o a preferire un part-time, quando è loro concesso, peraltro. Il punto è che il sistema di calcolo delle pensioni tiene conto anche di questi fattori. Il gender gap, oltre che sugli stipendi, si riflette anche sulla pensione di vecchiaia: le donne in Italia ricevono pensioni che sono in media del 31% più basse di quelle degli uomini. E la media, nei Paesi OCSE, è del 25%, una differenza non da poco. Per questo sono importanti le misure di congedo parentale soprattutto rivolte ai padri – o, per dirlo in altri termini, le pari opportunità e la maggiore partecipazione delle donne nel mondo del lavoro passano anche attraverso i padri.

Sono dunque strumenti che hanno “appeal” tra le famiglie?

In Alto Adige i dati Istat ci dicono che abbiamo il tasso di fecondità più alto d’Italia (1,72), così come è alto il tasso di occupazione femminile (69% nel 2022). Negli ultimi anni la popolazione è pressoché sempre aumentata, anche grazie al saldo migratorio. Ci sono certamente condizioni economiche favorevoli in questa provincia, ma esistono anche ulteriori incentivi a sostegno delle famiglie rispetto al resto d’Italia. Per esempio oltre all’Assegno unico e universale statale per i figli a carico c’è l’Assegno provinciale al nucleo familiare, l’Assegno provinciale per i figli e l’Assegno provinciale al nucleo familiare plus. Quest’ultimo, in particolare, va nella direzione giusta per favorire un bilanciamento del ruolo genitoriale poiché incentiva economicamente le famiglie in cui i padri si prendono più tempo dal lavoro per accudire i figli; nello specifico, viene riconosciuta una indennità una tantum fino a 2400€ qualora il padre usufruisca del congedo parentale entro i primi 18 mesi di vita del proprio figlio/della propria figlia e per un periodo minimo di due mesi interi continuativi. Uno dei motivi per cui in Italia il congedo parentale è poco utilizzato dai papà si deve al fatto che è basso il livello di indennità percepito. Nel 2021 nel nostro Paese solo il 12% di loro ha usufruito di questo strumento; l’indennità è pari al 30% dello stipendio durante il periodo in cui si sta a casa, e nemmeno per tutta la fase di pausa dal lavoro.

Mentre nel resto d’Europa?

In Germania ad esempio del congedo usufruisce il 34% dei padri a fronte di un’indennità pari al 67% dello stipendio, in Nord Europa lo usa addirittura il 100% dei papà e l’indennità è dell’80%. La predisposizione a prendere il congedo da parte dei padri è sicuramente correlata alle condizioni economiche, alla paura di perdere il posto di lavoro o di compromettere la propria carriera. Se invece lo Stato agevola il ruolo dei genitori dando loro un adeguato sostegno e per un tempo prolungato si genera maggiore sicurezza.

La predisposizione a prendere il congedo da parte dei padri è sicuramente correlata alle condizioni economiche, alla paura di perdere il posto di lavoro o di compromettere la propria carriera.

Altre possibili soluzioni per arginare il declino demografico?

Occorrono misure specifiche per affrontare il fenomeno. L’anno scorso, per esempio, con il cosiddetto Family Act il governo italiano ha provato a riformare alcune aree d’intervento che rappresentano il fulcro degli incentivi alla genitorialità, come appunto l’Assegno Unico e universale, il sostegno alle famiglie per le spese educative, scolastiche, sportive, culturali così come i congedi parentali che in Italia vanno riformati ed estesi a tutte le categorie professionali, passando per l’introduzione di incentivi al lavoro femminile, e la necessità di rendere protagonisti gli under 35 - se promuoviamo infatti la loro autonomia finanziaria, con sostegni alle spese universitarie, per l’affitto, per l’acquisto della prima casa, li aiutiamo dando loro sicurezze in più che oggi mancano. Infine, guardando ai dati Ocse notiamo come i paesi con più alta occupazione femminile - quelli del Nord Europa sono i più virtuosi - presentano anche più alti tassi di fecondità, ciò dimostra lo stretto legame tra le politiche per la conciliazione vita-lavoro e la crescita demografica. Posto il ruolo inconfutabile che hanno le condizioni macroeconomiche, in Italia in termini di politiche familiari possiamo fare tanto ancora.