Politica | Il reportage

A cena con Salvini

Alla fine della sua lunga giornata bolzanina, il leader della Lega ha celebrato se stesso incontrando i supporters in un ristorante di Bolzano. Una cronaca.

Giovedì 3 dicembre 2015: a Bolzano è il giorno in cui va in scena il Matteo Salvini horror picture show. L'uomo che sembra ormai essere ovunque (diciamo ovunque tranne che a Bruxelles) adesso è qui tra noi, con noi, per noi (“a noi!” no, quello non più, ché sul versante nero c'è stata una frenata). Le notizie e le immagini rimbalzano sui social: ecco Salvini in piazza Walther davanti a un presepe, sorride, lo indica orgoglioso e sembra voler dire: “Visto che roba?...Non siamo mica a Rozzano...”; riecco Salvini a spasso sotto i portici, sempre sorridente, mentre i telefonini di chi lo incontra cercano di catturarne l'immagine; ecco soprattutto Salvini al Rainerum stipato come un uovo. Nel santuario sconsacrato del Pd imperversa il Matteo usurpatore, con permesso di soggiorno provvisorio eppure deciso a lasciare una traccia nella politica locale, proponendosi addirittura come il fulcro egemone di un nuovo centrodestra d'ispirazione autonomista, anzi all'occorrenza indipendentista (massì, tanto che ce frega...). Una roba che da queste parti mica ci crede nessuno, figuriamoci la Svp, ma intanto escono un paio di titoli sui giornali e per un po', anche se a vanvera, se ne può parlare.

Avendo disertato l'happening tardo pomeridiano, mi sono rifatto andando alla “Cena con Salvini”, annunciata per le 21.00 al ristorante pizzeria Metrò di via Druso. Un posto assai curioso. Praticamente collocato alla fine della città. Neppure estrema periferia, proprio l'ultima sosta prima del deserto, scelto forse per la disponibilità di un parcheggio – in realtà già strapieno – e la vicinanza all'autostrada. Dopo aver infilato la macchina in una viuzza lì vicino, entro con l'inevitabile sensazione di essere un intruso. Fortuna che la mia misantropia fa veloci progressi, aspira cioè all'ecumenismo, il che, per converso, mi costringe a sopportare quasi tutti. Insomma, mi faccio coraggio e comincio ad osservare. Scendendo nella sala adibita ad ospitare il banchetto leghista, la sconsiglierei a un claustrofobico, noto una patina antropica che avrebbe potuto depositarsi ovunque, e infatti non fa neppure lo sforzo di cercare il contegno che sarebbe opportuno alla circostanza (è un fatto che se dici “Lega” ti viene più in mente una “tenda ruspante” di questa parodia degli anni Ottanta, praticamente il fondale di un matrimonio di terza classe, per giunta senza la sposa). Un fazzoletto verde annodato al collo o nel taschino della giacca (chi la porta) sono più l'eccezione che la regola. Il resto tentativi di mediocre eleganza da parte delle “signore”, falliti in partenza forse perché l'asticella era stata messa troppo in basso e, si sa, alla fine ci si inciampa. Alcuni personaggi noti alle svogliate cronache politiche, minutaglia di partito in attesa del capo, si raggrumano verso il fondo della sala, dove si estende in lunghezza il tavolo degli apostoli. Decido così di cercarmi un posto dotato di ampia visuale.

Il tavolo che ho scelto è già occupato da tre uomini di età diversa. Si assomigliano, probabilmente sono parenti (nonno, padre e figlio – tre generazioni di leghisti riunite per l'evento?). Attacco bottone e vengo a sapere che sono di Trento. “Abbiamo provato ad entrare al Rainerum ma non ci siamo riusciti, allora siamo venuti qui”. Avete fatto bene, dico loro con strategica perfidia. Nonostante i miei generosi sforzi, la conversazione però si assottiglia subito. Non mi considerano e continuano a confabulare di amenità trentine cercando ogni tanto di attirare l'attenzione dei camerieri per reclamare l'aperitivo. La sala si riempie, un consigliere comunale accompagna al nostro tavolo una coppia e io, deluso dai trentini, attacco bottone con gli altri. Se i primi tre avevano indubbiamente il physique du rôle del leghista canonizzato a Pontida (erano cioè provvisti dell'aura pedemontana che, come arcobaleno monocromo, sovrasta la poco significativa evoluzione della specie: da Erminio Boso a Maurizio Fugatti), i nuovi arrivati mi spiazzano. Sulle prime li battezzo reduci di Forza Italia in avanscoperta. Oppure semplicemente persone non di sinistra alla ricerca di un approdo che non sia necessariamente Renzi. L'uomo – che poi si palesa medico di non disprezzabile cultura (conosce e legge Beppo Pontiggia, per dire) – finirà poi col risultare un interlocutore piacevole e non restio a mettere in discussione le doti politicamente taumaturgiche del “capitano”. Che intanto però eccolo scendere le scale e fare il suo ingresso trionfale. Si leva un autentico boato, quasi tutte le mani si protendono a scattare fotografie.

Salvini prende posto. Davanti a lui si siedono Walter Blaas e Pius Leitner dei Freiheitlichen. I camerieri cominciano a servire il menu. (Un menu intonato all'ambiente, c'è da dire, cioè tutt'altro che avvenente, al costo non modico di 40 euro a persona, data la mediocrissima qualità, e basato sulla prevalenza del maiale: dall'antipasto, fettine di Speck servite quasi fredde, alla braciola di porco tigliosa e scaccia musulmani. La mancanza del dolce e persino del caffè, invece, non si comprende in spregio a quale altra religione sia stata dovuta). Tra una portata e l'altra, davvero come se si trattasse di un matrimonio, i parenti dello “sposo” (cioè gli attivisti) e lo “sposo” (cioè Salvini) si alzano da tavola e passano a salutare i commensali. E' a questo punto che tutti riprendono a scattare fotografie coi telefonini e a richiedere “Matteo” per gli inevitabili selfie. Al fine di smaltire meglio le richieste, Salvini si pone al centro della sala e da più angoli gli affluenti danno corpo a vere e proprie file, invariabilmente portate a compimento con la medesima posa: lui sorridente, l'adepto o l'ammiratore o il feticista di selfie che lo abbraccia col pollice alzato.

Mi alzo anch'io e raggiungo Pius Leitner. Non che intenda parlare di politica con un politico in un'occasione come questa (sarebbe la cosa più noiosa e inutile di tutte), ma vorrei almeno strappargli un commento su ciò che vede e che sente (ironia della sorte: feci la stessa cosa con Ulli Mair a maggio, in piazza Matteotti). Gli chiedo cosa pensi di tutto questo culto della personalità. La risposta è secca: “Es ist nie gut”. E ripete deciso: “Nie gut”. Che sia invidia? Fra l'altro, rifletto, a che pro il manifesto feeling, cercato ed esibito, tra la Lega e i Freiheitlichen? E' possibile che per Fugatti il partito del “Libero Stato del Sudtirolo” sia solo una sorta di Svp in chiave minore, buono per dare una spolveratina di interetnicità e accreditarsi qualche simpatia nel famigerato “mondo tedesco”. Il problema, però, è che i Freiheitlichen, anche se ridimensionati e scornati, sono pur sempre un competitor della Svp. In altri tempi si sarebbe potuto anche pensare ad un cartello di destre dure e pure, per spezzare l'asse Svp/Pd di centrosinistra. Ma adesso il ragionamento fa solo sorridere, visto che o si governa con la Svp o si sta all'opposizione. Il tributo portato da Blaas e Leitner a Salvini, almeno per i primi due, ma anche per le ambizioni del terzo, è ancora un segno di debolezza.

Siamo alla fine. Matteo Salvini dà segno di voler lasciare la “festa”, non prima di fare un altro giro di selfie, ringraziare i convenuti spronandoli ad impegnarsi giorno e notte per la causa e ribadire illusoriamente che la città, con questo entusiasmo, è ormai a portata di mano. Prima del “rompete le righe” c'è tempo di cantare tutti insieme un paio di canzoni. I Nomadi e Ligabue sono i riferimenti culturali che vanno per la maggiore. Al tavolo accanto al mio qualcuno azzarda anche un canto fascista, ma sono solo un paio di gocce in mezzo a un altro mare. Arriva l'auto blu del “capitano”, lui saluta e ringrazia di nuovo tutti. Si siede davanti, accanto all'autista, e accende l'Ipad. Arriva Fugatti e sale dietro. I fans battono le mani e gridano. Senza sgommare (sarebbe stato bello, però) l'auto parte nella freddissima notte di Bolzano.

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Gabriele Di Luca Lun, 12/07/2015 - 16:58

In risposta a di Enrico Lillo

Potrei scrivere di qualsiasi cosa, anche di una cosa che non è una cosa, di un evento che non accade, di un personaggio che non compare, di un dialogo muto. Mi basta entrare in sintonia con una determinata situazione, anzi: con la mera sensazione della situazione. In quel momento si attiva in me una specie di diapason dell'ineffabile e le parole trovano il modo di comporsi quasi da sole.

Lun, 12/07/2015 - 16:58 Collegamento permanente