Economia | Il documentario

Macchine o maiali

L’orrore degli allevamenti intensivi, l’impero della soia, la “bomba ecologica” e i consumatori inconsapevoli. Intervista a Stefano Liberti, co-regista di “Soyalism”.
Soyalism
Foto: Soyalism

Un viaggio attraverso gli Stati Uniti, la Cina, l’America Latina e la foresta amazzonica, e l’Africa per raccontare un sistema di produzione del cibo non più sostenibile. Il documentario di Stefano Liberti ed Enrico Parenti, “Soyalism”, descrive l’aumento esponenziale delle monocolture di soia e dello stretto legame con l’industria della carne, soprattutto di maiale che sta fagocitando le piccoli produzioni locali e mettendo in crisi l’ambiente e la salute collettiva. Il film sarà proiettato nell’ambito della prima iniziativa culturale fra Trento, Rovereto, Bolzano e Merano: il Filmfestival ”Tutti nello stesso piatto”, martedì 19 novembre alle ore 20 nella Sala di Rappresentanza del Comune di Bolzano, in Vicolo Gummer 7. Sarà presente il co-regista e giornalista Stefano Liberti.

 


salto.bz: Liberti, partiamo dal titolo, “Soyalism”, gli “-ismi” sono per le dottrine e i movimenti, perché avete scelto questo nome?

Stefano Liberti: In fase di montaggio abbiamo cercato un titolo che fosse accattivante e che allo stesso tempo rappresentasse quello che vogliamo raccontare e cioè che il nuovo sistema di produzione e di distribuzione alimentare esemplificato dall’industria della carne di maiale e dalle monoculture di soia è di fatto un nuovo modello di sviluppo. Dopo il capitalismo e il socialismo questa è l’epoca del “soialismo”, ma dietro a quest’ironia insita nel titolo c’è una grande realtà, ovvero che oggi ci sono delle grandi multinazionali e dei governi potenti che controllano il modello di produzione del cibo.

Un grande potere nelle mani di pochi.

Precisamente. Ogni elemento di questa filiera è controllato da pochissimi attori, con la logica del grande che mangia il più piccolo, un processo che è iniziato negli Stati Uniti dove già negli anni ’80 e ’90 i piccoli produttori di maiali, all’inizio indipendenti, sono stati man mano cannibalizzati dalle grandi aziende. A livello globale nel momento in cui è entrata in gioco una potenza economica, e demografica, importante come la Cina la concentrazione degli allevamenti è aumentata ancora di più. Oggi c’è un’industria cinese (che produce una quantità spaventosa di carne di maiale) che si è comprata la principale industria del settore negli Stati Uniti, diventando un colosso mondiale. Nel film analizziamo la filiera del maiale e quella della produzione e della commercializzazione della soia, che viene usata come mangime per gli animali.

Dopo il capitalismo e il socialismo questa è l’epoca del “soialismo”, ma dietro a quest’ironia insita nel titolo c’è una grande realtà, ovvero che oggi ci sono delle grandi multinazionali e dei potenti governi che controllano il modello di produzione del cibo

E come funziona l’impero della soia, il “nuovo oro verde”?

Anche in questo caso sono poche le aziende che comandano, e poco note. Eppure la Cargill, ad esempio, la principale azienda privata degli Stati Uniti attiva nel settore, ha un fatturato paragonabile a quello della Coca-cola, lo stesso del Pil di alcuni paesi africani, quindi parliamo di una multinazionale gigantesca che determina di fatto i modelli di produzione, di commercializzazione e di consumo. Ha un potere straordinario ma questo è del tutto ignoto al grande pubblico. Noi cerchiamo di raccontare questa filiera andando sul campo e dando voce a diversi testimoni, esperti, persone che vivono sui territori, mettendo in luce le criticità e le vulnerabilità di questo sistema, che ha conseguenze su tutti noi.

 

 

Cosa vi ha impressionato di più durante la vostra ricerca?

La scomparsa dei piccoli produttori, dei contadini, che non esistono praticamente più. Le grandi produzioni sono ormai molto industrializzate, le campagne sono state trasformate in fabbriche di alimenti per le città che richiedono poca manodopera e quindi si assiste a una desertificazione dei territori. Abbiamo guidato attraverso il Mato Grosso, il principale Stato del Brasile produttore di soia del mondo, per almeno un migliaio di chilometri vedendo solo enormi distese di monocultura di soia. La cosa più sconcertante, al di là dell’uniformità del paesaggio, della totale assenza di alberi, era l’assoluta mancanza di persone, non c’era nessuno nel raggio di chilometri se non un operaio su una mietitrebbia per la raccolta. Abbiamo visitato delle aziende agricole, enormi, tutte uguali e vuote, con i loro 180mila ettari di terreno, numeri che nei nostri territori, differenti per morfologia ed estensione, non riusciamo neanche a concepire. Ebbene, le persone che una volta vivevano in quei luoghi si trasferiscono nelle città e vanno a ingrossare le fila del sottoproletariato urbano e dell’economia informale, e quindi abbiamo da una parte dei centri urbani fortemente sovrappopolati e dall’altra delle campagne vuote dove la produzione del cibo per le città è controllata da pochi grandi attori che decidono praticamente tutto.

Raccontare pubblicamente queste realtà vi ha creato qualche problema?

Il documentario sta girando molto in Europa e anche negli Stati Uniti ed è ancora molto richiesto anche a un anno dalla sua uscita. In Italia abbiamo fatto delle proiezioni con le associazioni di categoria, come la Coldiretti. Una cosa che non siamo riusciti però a fare è stato portare Soyalism in Brasile anche se al Paese dedichiamo ampio spazio. La mia ipotesi è che ci siano delle diffidenze di carattere politico, del resto attacchiamo in modo frontale un modello di sviluppo che oggi è al potere.

 

 

L’allevamento intensivo di suini viene definito una vera e propria “bomba ecologica”, per quale motivo?

Chiudere i maiali dentro i capannoni industriali significa produrre molta più carne in uno spazio molto più ristretto e questo consente di abbassare il prezzo di produzione e quindi anche quello di vendita. Ma ciò ha un costo ambientale fortissimo: i maiali, come i polli, le mucche, non sono più liberi di nutrirsi nell’ambiente circostante e al contempo il loro letame non è più un fertilizzante ma diventa uno scarto. Inizialmente gli animali, in numeri più contenuti naturalmente, si nutrivano di quello che il territorio offriva, e poi il loro letame veniva utilizzato per rigenerare i terreni. Quella che era dunque una economia circolare oggi non esiste più, diventa lineare, industriale, gli animali sono delle macchine che devono essere alimentate con del carburante, in questo caso la soia e il mais. Queste “macchine” producono carne ma, come in ogni economia industriale, anche degli scarti. A causa dell’alta concentrazione degli animali in questi capannoni le feci e le urine non sono più utili per la fertilizzazione perché ricchi di ammoniaca, fosfati, azoto, e dunque devono essere smaltite.

Il 60-70% degli antibiotici prodotti dall’industria farmaceutica vengono utilizzati dalla zootecnia e non per la cura delle malattie che colpiscono gli esseri umani

In che modo?

Nel film descriviamo come avviene lo smaltimento negli Stati Uniti, dove si sono inventati un sistema di grandi piscine - di “lagune” come le chiamano loro - a cielo aperto, contenenti i resti reflui che vengono poi sversati sui territori. Lo stesso avviene negli allevamenti dei maiali in Italia, che sono concentrati in una specifica area del Paese, la pianura padana. I resti reflui vengono messi dentro delle grandi vasche, e solo a volte vengono trasformati in biogas. C’è poi un altro elemento molto importante e poco presente nel dibattito pubblico, che è quello dell’antibiotico-resistenza. Quando si chiudono gli animali in spazi angusti questi tendono ad ammalarsi più facilmente e per evitare ciò vengono somministrate loro, in misura profilattica, delle grandi quantità di antibiotico, soprattutto nei primi mesi di vita. Questi antibiotici si diffondono nell’ambiente, con i resti reflui, oppure entrano nella catena alimentare attraverso la carne, e questa enorme diffusione fa sì che si sviluppino dei batteri super-resistenti agli antibiotici che possono attaccare l’essere umano. Il tema è stato denunciato dall’Organizzazione mondiale della sanità e i dati sono impressionanti: il 60-70% degli antibiotici prodotti dall’industria farmaceutica vengono utilizzati dalla zootecnia e non per la cura delle malattie che colpiscono gli esseri umani. L’Italia è il secondo paese europeo dove più si usano antibiotici, dopo Cipro che però ha un’incidenza molto relativa come numero di capi pro-capite. Nel nostro Paese di questo tema si parla poco perché l’industria della carne ha una posizione molto difensiva in merito e cerca di non affrontare il problema, che però riguarda la salute pubblica.

Ha visto da vicino in che condizioni vivono gli animali negli allevamenti intensivi. Cosa ci può raccontare al riguardo?

Gli animali vivono in uno stato di sofferenza permanente. Abbiamo girato il film in Brasile, negli Stati Uniti, in Cina e in Africa perché volevamo andare nei luoghi più rappresentativi di questo grande sistema e abbiamo tralasciato l’Europa che ha un ruolo sempre più periferico a livello mondiale anche se poi il modello si replica identico a se stesso dappertutto. Il posto dove abbiamo avuto meno difficoltà a girare è stata la Cina, abbiamo potuto visitare e filmare gli allevamenti intensivi, i mattatoi, abbiamo seguito tutti gli anelli della filiera, cosa che invece non siamo riusciti a fare negli Stati Uniti.

Come si spiega questa apertura da parte della Cina?

La Cina ha affrontato molto recentemente, dal 2010 in poi, il processo di industrializzazione della filiera. Il Paese ha mutuato il modello di produzione statunitense ed era forte il desiderio e l’orgoglio di mostrare la tecnologia utilizzata, gli standard di igiene, il funzionamento tipo catena di montaggio del mattatoio, e nel momento in cui abbiamo girato, nel 2016, i cinesi non avevano ancora sviluppato l’elemento di criticità del sistema.

 

 

In questo scenario, in cui abbondano le zone d’ombra, come possono orientarsi i consumatori?

È difficile, perché non si conosce l’origine della materia prima che si consuma, specie nel caso della carne, tranne alcune eccezioni tipo la produzione del prosciutto di Parma e di San Daniele. Soprattutto il consumatore non può sapere, perché non è indicato, se l’animale arriva o meno da un allevamento intensivo. Fornire questo elemento sarebbe già un passo avanti per aumentare la consapevolezza. Il vero tema è che la carne costa molto poco perché se ne può produrre tanta in uno spazio ristretto, ma soprattutto perché i costi ambientali e sanitari non sono pagati dal produttore ma accollati alla comunità intera.

Se l’industria della carne non si attrezza per fare un percorso di sostenibilità e trasparenza nel giro di dieci anni verrà travolta da un cambiamento dei consumi che non c’è dubbio avverrà

Qualche best practice esiste?

Alcune catene della grande distribuzione, per esempio la Coop, ha lanciato in Italia l’anno scorso una campagna importante, una battaglia culturale rivolta al consumatore ma che insiste anche sui produttori: una linea di prodotti senza antibiotici. È interessante tuttavia notare che per raggiungere lo scopo la Coop ha dovuto importare carne dall’estero perché nel nostro Paese gli allevamenti, perlomeno nel momento in cui è stata lanciata la campagna, non erano in grado di garantire la fornitura di materia prima necessaria. In alcuni paesi europei come la Danimarca o l’Olanda, invece, l’antibiotic-free è già una realtà più concretizzata. In Italia ci vorrebbero normative più stringenti, l’obbligo di indicare sull’etichetta se la carne viene prodotta in un certo modo.

Nonostante tutto però molti consumatori continuano a scegliere la carne italiana.

Perché si è sviluppata una sorta di sovranismo alimentare, ma non è che se la carne è prodotta in Italia è più buona o è garanzia di salubrità del prodotto. La normativa europea è la stessa per tutti i Paesi della Ue. A volte ci mascheriamo dietro l’italianità perché pensiamo di essere i migliori al mondo, e non è detto che lo siamo. Sicuramente qui ci sono standard di qualità alti, c’è una cultura maggiore riguardo al cibo che altrove, però ci sono anche delle criticità nella produzione agroalimentare che vanno messe in luce. Se l’industria della carne non si attrezza per fare un percorso di sostenibilità e trasparenza nel giro di dieci anni verrà travolta da un cambiamento dei consumi che non c’è dubbio avverrà.

 

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Karl Trojer Sab, 11/09/2019 - 09:51

Salvare il nostro meravigliso pianeta dal disastro climatico prodotto negli ultimi 150 anni da noi, esseri umani, presuppone, fra l´altro, un´ ingente cambiamento del nostro modo di nutrirci e di consumare risorse materiali ed energie. Il consumo di carne va radicalmente ridotto : a) da noi stessi, e b) tramite delle rigorose leggi che tutelino il benessere degli animali (pesci compresi) e tassino sensibilmente i costi delle varie carni.

Sab, 11/09/2019 - 09:51 Collegamento permanente