Cultura | gastbeitrag

Coronavirus e “Stubenhocker”

Devo ammettere che, come immigrata dal Sudtirolo a Milano, mi sento, in un modo pre-razionale, più attrezzata contro il virus.
Milano, Arco della Pace
Foto: Eva Pattis Zoja

Milano, Lombardia: sulle mappe del Coronavirus, questo è il punto focale delle infezioni in Europa, i cerchi dal rosso scuro a nero crescono quotidianamente sullo schermo. Milanononsiferma, lo slogan del sindaco Sala di quattro settimane  fa, sembra appartenere ad epoche distanti. Ci siamo abituati alla vista delle piazze vuote, che i giornalisti chiamano spettrali, ma cogliamo anche  la poesia di un'architettura senza persone. Dal mio balcone con i gerani, vedo uno squarcio di piazza attorno all’Arco della Pace, crocevia dei percorsi di Napoleone e Radetzky. Presto saranno le 18:00. Sequenze ritmiche sparse di uno strumento a percussione indugiano nell'aria di marzo. Le improvvisazioni musicali dalle finestre delle case vicine hanno accompagnato nelle ultime settimane l'ora in cui “la mosca cede alla zanzara” (28 XXVI, Inferno). Non sono la prima a pescare nelle immagini dell’ inferno o a chiamare dantesco il paesaggio che ci circonda. Alle 18:00 inizia la conferenza stampa della protezione civile. I giorni che trascorriamo all'interno delle case sono divisi in due: il tempo prima e dopo le 18:00. Aspetto impazientemente e quasi avidamente la comunicazione dei cosiddetti fatti, come se fossero una sentenza giuridica. Intanto mi sono già documentata su decine di siti web e sono convinta di sapere molto di più di quanto verrà annunciato. In realtà sono interessata solo ai numeri, ma rimango a guardare lo stesso, fino a quando l'ultimo giornalista non ha posto la sua domanda. Mentre ascolto provando a classificare i numeri pronunciati, il mio sguardo segue affascinato i gesti della traduttrice nel linguaggio dei sordomuti. Non ascolto veramente quando gli uomini parlano, probabilmente a causa del loro tono, che indica come alcune cose vengono dette e altre taciute.

Sono psicoanalista ed è parte del mio lavoro prestare attenzione a ciò che non viene detto, negli altri e in me stessa. Questi gesti eleganti del linguaggio muto hanno un effetto rassicurante, sera dopo sera mi sembrano più familiari, mi piacerebbe imparare questa lingua... Sto divagando da quello che volevo dire. Non è così facile, perché quello che volevo dire ha a che fare con i gerani rossi sul balcone, che nel luogo da dove vengo, non si  chiamano gerani, ma in un altro modo. Non appena i due signori della conferenza stampa si sono alzati dalle loro sedie, li clicco via con soddisfazione e apro - come se i risultati reali, i veri risultati stessero arrivando da lì - un sito web chiamato Südtirol. Agitata come un cane da caccia, cerco il numero di persone infette da Covid19 nei singoli comuni. Il comune che sto cercando ossessivamente è al quarto posto nella lista: dopo Bolzano, Merano e Santa Cristina e inizia con K.

Ho dovuto ammettere che, con tutta la mia volontà, non riuscivo a immaginare i sudtirolesi infettati da questo virus. Che assurdo!

Sono sempre così tesa che non riesco più a ricordare quante persone erano infettate il giorno precedente, spero solo, con tutto il cuore, che questo numero precedente possa non essere aumentato. Ma anche se fosse così, non potrei calmarmi affatto: perché in realtà non ricordo il numero del giorno precedente. Il mio unico ricordo sicuro è che all’inizio il numero era quattro: quattro persone infettate da coronavirus nel comune di K. e venti persone in quarantena. Ero spaventata e immaginavo le persone a K. Conosco le case nel centro del paese e ho immaginato il loro interno dove potrebbero vivere queste quattro persone, come se potessi guardare attraverso le finestre, dall'esterno. So che le pantofole aspettano davanti alla porta e che l'illuminazione sopra il tavolo da pranzo è piuttosto bassa. E ovviamente so quali piatti potrebbero arrivare sul tavolo. Mi sono resa conto che nell'immaginazione mi ero solo attaccata agli oggetti, non riuscivo ad immaginare le persone reali per le quali ero preoccupata. Non mi veniva neppure un’immagine di una persona che da K. veniva portata all'ospedale di B. con la febbre. Qui a Milano, dove vivo da quarant'anni, ci sono amici ricoverati nelle unità di terapia intensiva degli ospedali ridotti a lazzaretti di guerra e temiamo per la loro vita. Quindi non mi mancano gli esempi.

 

Ho dovuto ammettere che, con tutta la mia volontà, non riuscivo a immaginare i sudtirolesi infettati da questo virus. Che assurdo! Naturalmente c'erano persone infette, come mostra chiaramente  il mio sito web. Tuttavia, questa incapacità di immaginare continuava. Dovevo ammettere con me stessa che esisteva una specie di convinzione, profondamente radicata e irrazionale, che poteva essere pensata ma non facilmente formulata. Cioè: qualcosa del genere non può accadere a noi. Agli italiani, ai tedeschi, agli austriaci, agli inglesi e ancora di più ai cinesi, che sono lontani, sì, ma a noi sudtirolesi non succede. Noi, continua questa voce, non siamo affatto migliori o più intelligenti - non vi è alcuna arroganza associata a questo sentimento irrazionale - siamo solo in qualche modo  più protetti, da sempre. Che tipo di protezione assurda è questa, che crediamo di avere e che è in contrasto con tutti gli eventi storici, e potrebbe persino essere stata responsabile del fatto che noi sudtirolesi abbiamo riconosciuto troppo tardi certi pericoli politici? Da dove viene questo assunto pre-razionale? Può darsi che il fatto di appartenere a un luogo geograficamente confinato, a un specifico dialetto e un certo tipo di tradizione, significhi che ci si sente magicamente più sicuri e i disastri possono essere proiettati sugli altri e si può fare la distinzione noi e voi in maniera facile senza sentirsi in colpa? Esiste forse uno strato nella nostra psiche, nel quale ci sentiamo come i Cogi delle montagne Colombiane nella zona di Santa Marta, che chiamano gli altri “fratelli minori”, mentre la parola “uomo” si applica solo a loro stessi? L'esempio dei Cogi mi aiuta a non vergognarmi troppo di questa idea politicamente così poco corretta. Cerco fra me una spiegazione: le popolazioni montanare potrebbero avere una predisposizione genetica al tenersi lontano da tutto  ciò che viene dal basso, dalla pianura, perché le epidemie in realtà si diffondevano più facilmente lì, a causa dell'umidità e degli insediamenti più densi. I contadini di quota alta sono sempre stati esposti a condizioni ambientali inospitali ed estreme, hanno sempre cercato e trovato modi autonomi basati sulle risorse locali per superare gli ostacoli. Non si poteva ascoltare troppo ciò che veniva dal basso, da lì non ci si potevano aspettare linee di comportamento adeguato per sopravvivere. Sopravvivevano e avevano figli quelli che si affidavano alle proprie forze. Se è così le popolazioni di montagna avrebbero iscritto  nel loro DNA un istinto a lasciarsi proteggere dalle montagne: l'altitudine tranquillizza perché tiene lontani i mali.

Stavolta rimanete davvero a casa come degli inutili “Stubenhocker”.

Questo presupposto granitico, che non viene mai messo in discussione perché è profondamente radicato nel sistema psicofisico, ha subito due grandi scossoni negli ultimi trent’anni. La prima irruzione del mondo globale è stata Chernobyl la  cui nuvola si era fermata esattamente sopra il Sudtirolo. Abbiamo visto  una pioggia radioattiva cadere proprio su di noi. Questa nuvola, oltre a fare paura, compiva qualcosa di inaudito, come poteva fermarsi proprio qui... Questa volta il pericolo non era venuto dal basso ma dall'alto. Il secondo shock venne con le misurazioni dell'ozono negli anni novanta: mostravano concentrazioni più elevate ad alta quota. Quindi i dati scientifici che abbiamo recentemente acquisito ci stanno dicendo  che le montagne non offrono una protezione sufficiente: al contrario, potrebbe essere più pericoloso fare un'escursione domenicale che stare chiusi  in una stanza di città. Ma il nostro codice genetico “sa” anche qualcos'altro. Il pregiudizio secondo cui i “Stubenhocker” (parola dispregiativa per i temperamenti che preferiscono stare a casa) sono deboli e pigri, potrebbe a sua volta corrispondere a una  selezione genetica avvenuta nei secoli. Da un punto di vista darwiniano, non essere un “Stubenhocker” era un vantaggio: sopravviveva meglio chi sapeva cavarsela all’aperto, mentre i discendenti degli “Stubenhocker” erano i perdenti nella corsa della selezione. Noi, discendenti dei montanari  più attivi, sentiamo l’impulso a stare fuori e a muoverci. L’appello allo “stare in casa”, che arriva “dal basso“, fa solo scrollare le spalle. E c’è dell’altro: in uno strato  profondo della psiche noi sentiamo le nostre montagne come diverse dalle altre montagne (ad esempio: le montagne del vicino Trentino non sono “vere montagne”, le vere montagne sono solo le nostre e hanno una forma precisa: non vogliamo mica paragonare lo Sciliar al monte Baldo....). Le percepiamo quindi come autentiche divinità protettrici personali, che ci parlano: nulla può accaderti quando sei qui. Predisposizioni genetiche e modelli archetipici sono strutturalmente ancorati nella nostra psiche, determinano il nostro comportamento indipendentemente dalla conoscenza razionale. Potrebbe essere che per tutti questi motivi oggi troviamo così difficile accettare le normative della  protezione civile e integrarle nel nostro comportamento?  

Si può aggiungere  ancora una lettura legata a elementi storici più che ambientali. Il Sudtirolo un secolo fa si è ritrovato di colpo ad essere una piccola scheggia di un grande impero frantumato. C’era stato posto per tutti in quello che è stato chiamato da Stefan Zweig non un diverso stato ma un diverso mondo. Joseph Roth lo descriveva così: “A quei tempi era diverso. Tutto era sicuro. Ogni sasso stava al suo posto. I tetti stavano sicuri sopra i muri delle case”. Non per le leggi della fisica, ma perché dalla origine dei tempi li proteggeva l’idea imperiale. Potrebbe essere che in uno strato storico-culturale della nostra psiche ci sentiamo ancora parte di quell’ impero composto da ventiquattro paesi e tredici etnie, ed  inconsciamente ci sentiamo protetti dalla sua aura, anche se non esiste  più da un secolo? Va da sé che l'Europa non è adatta a rimpiazzare quella proiezione di immensa istituzione protettiva: al contrario, l'Europa  fa da lente di ingrandimento e mette in evidenza i nostri problemi.

Il comune che sto cercando ossessivamente è al quarto posto nella lista: dopo Bolzano, Merano e Santa Cristina e inizia con K.

Penso anche che, ancora più indietro nel tempo, addirittura il balcone  dove sto seduta ha fatto parte di questo impero e della sua cultura, i gerani rossi, i “Brennenden Lieben”, inclusi. La parola dialettale per i gerani è amore ardente; sono stati simboli dell’ identità locale e, nel fascismo, di implicita opposizione. Quest'anno continuavano a fiorire anche durante tutto l'inverno. E ora devo ammettere che, come immigrata dal Sudtirolo a Milano, mi sento, nel modo pre-razionale descritto sopra, più attrezzata contro il virus in confronto ai membri della mia famiglia italiana.

Quindi vorrei dire ai sudtirolesi del comune di K., dove i numeri degli infettati si sono moltiplicati per dieci in una settimana: per favore, anche se sono certa  che  avete la vostra protezione speciale, stavolta rimanete davvero a casa come degli inutili “Stubenhocker”: questa volta fatelo per gli altri, quelli a cui succedono  davvero le cose brutte.

 

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Waltraud Mittich Sab, 03/28/2020 - 15:00

Il suo discorso, bello e autocritico, mi ricorda J. Roth, che Lei pure cita, quando egli parla degli "Ostjuden". Per Roth, secondo Magris, l"Ostjudentum" è un mondo di valori larici, di qualità positive tramandate nell'intimità domestica, di piccole storie salvate dalla distruzione.
Grazie per il suo intervento

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