Gesellschaft | il ritratto

Io, Basaglia e quei “matti” da allenare

Nel 45° anniversario dall'approvazione della Legge 180/78, la testimonianza di Lucio Blasig, l’infermiere scelto da Franco Basaglia per insegnare ginnastica ai pazienti.
ex manicomio
Foto: Valentjna Juric

Lucio Blasig ha 79 anni ed è un allenatore di corsa a tempo pieno. A chi gli chiede di descrivere la sua occupazione prima della pensione risponde, molto semplicemente, che insegnava ginnastica ai “matti”
Mi sento di dover aggiungere solo due precisazioni a questa risposta, una geografica e una temporale: Gorizia, anni Sessanta
A quel tempo, infatti, senza farci troppo caso, questa provincia friulana diffidente ed assopita assisteva, per prima in Italia, all'inizio di un lento processo sociale di revisione e modifica di concetti e schemi di pensiero relativi alla malattia mentale. 
A partire dall’inverno 1961, era stato nominato direttore del manicomio cittadino lo psichiatra veneziano Franco Basaglia, che aveva l’intento non solo di rendere più vivibili queste strutture, ma di arrivare, pian piano, alla loro abolizione. 
Conoscendo la buona predisposizione di Lucio alle ciacole, non è stato difficile convincerlo a parlarmi di quel periodo. Lui aveva iniziato a lavorare all’ospedale psichiatrico di Gorizia a ventiquattro anni e al tempo un impiego provinciale era una gran cosa, un’oasi di stabilità in un territorio economicamente ancora arretrato. 

Sapevo solo che se uno in paese “disturbava” veniva allontanato


Mi spiega che, prima di iniziare a lavorare, la sua conoscenza dei “matti” non era superiore a quella dei suoi coetanei di Mariano, il suo paese natale:
“Non avevo idea di cosa fosse un manicomio, sapevo solo che se uno in paese “disturbava” veniva allontanato”. Ci riflette un momento per poi aggiungere che, secondo lui, a quel tempo, tra la gente comune non era ancora diffusa l’attenzione su certi temi. Non per cattiveria, semplicemente non era ancora maturata questa sensibilità o, se era presente, raramente superava la dimensione familiare dei diretti interessati.
Gli domando in che cosa consistesse il suo lavoro e se, vista la sua carriera da mezzofondista, portasse i malati a correre.  Lui scoppia in una risata amara:
 “La prima volta che sono entrato nella struttura sono rimasto sconcertato. C'erano tantissime persone, credo 600, forse di più. I reparti erano otto, quattro femminili e quattro maschili: A,B,C,D. Era come un paese e nemmeno molto piccolo. Nei reparti ho visto di tutto: c’erano malati che quando non erano a letto stavano seduti a fissare il muro per otto ore al giorno e altri che non si alzavano proprio. Mi viene alla mente in particolare il ricordo di una paziente, nel reparto femminile, legata ad un letto che aveva una rete per non farla uscire ed un materasso con un buco per cacca e pipì". 
Quindi, mi spiega, altrochè corsa: soprattutto all’inizio i malati erano in condizioni fisiche estremamente difficili, alcuni non erano in grado di prendere in mano un bicchiere e altri non sapevano nemmeno dove fossero. Occorreva fare riabilitazione motoria e solo a volte si riusciva a fare esercizi di ginnastica di base. Già questa, però, era una piccola rivoluzione. Prima dell’arrivo di Lucio, infatti, per molti malati l’attività motoria era solamente quella associata al grande albero nel giardino della struttura, al quale venivano legati con una catena, così potevano camminarci intorno senza però scappare. 

Tanti pazienti ricoverati nei manicomi fino agli anni Sessanta non avevano in realtà niente a che fare con la psichiatria


“Credo che, prima di Basaglia, ci fosse tanta confusione attorno al concetto della malattia mentale. Tanti pazienti ricoverati nei manicomi fino agli anni Sessanta non avevano in realtà niente a che fare con la psichiatria. C’era una legge di inizio secolo che permetteva l’internamento di tutti quelli che in paese “disturbavano”, ma questo poteva voler dire un sacco di cose”. 
Nei vecchi manicomi si usavano ancora trattamenti disumani come l’elettroshock o l’insulinoterapia e, in generale, di umano c’era ben poco: i malati erano degli alienati, spogliati non solo dei più basilari diritti, ma di tutto ciò che adorna una persona, come gli averi la padronanza del proprio aspetto.
“A Gorizia, invece, piano piano, abbiamo tolto le camicie di forza, le reti ai letti. Mi ricordo il momento in cui gli operai hanno tolto le reti e di quanto sia stato commovente vedere queste persone per anni rinchiuse uscire per la prima volta dal reparto. In realtà poi ci mettevano molto tempo per uscire: avevano abbattuto i muri fisici ma restavano da abbattere quelli che per tanti anni si erano costruiti nella testa. È stata dura convincere alcuni a fare solo qualche passo e fargli riprendere confidenza con il proprio corpo e con il movimento era una soddisfazione immensa”.
Certo non mancavano resistenze al nuovo approccio di Basaglia e tra il personale sanitario c’erano i basagliani e gli antibasagliani. Per questi ultimi, mi dice Lucio iperbolando un pò, vi era una forte resistenza a qualsiasi istanza di cambiamento e una convinzione che “i malati son massi, bisogna tenerli rinchiusi e buttare via la chiave”. Ciò aveva dei risvolti concreti anche sul suo lavoro. Ad esempio, nei giorni in cui era in servizio un capo reparto antibasagliano, succedeva spesso che quando Lucio andava a prendere i malati per l’attività motoria quotidiana, non trovasse nessuno pronto ad aspettarlo. In quei giorni lì, mi spiega in Lucio in dialetto goriziano, non gli restava che andare a cercare in giro i pazienti uno per uno: 
“Era tutto un “Toni ‘speta qui, Mario sta fermo lì che vado a prender gli altri”. Tornavo con gli altri e avevo perso i primi due. In quei giorni gli infermieri non erano collaborativi e quindi era una fatica enorme assembrare tutti i pazienti. Una volta ero riuscito con fatica a raccogliere all’entrata tutti i pazienti, quando mi ero accorto che ne manca uno. Dov’era? Nella stanza delle docce, dove un’infermiera li insaponava e lavava con un“fregon”. Non una scopa, che è più morbida, ma una ramazza!”.
Gli attriti ideologici, lo scarso appoggio dell’amministrazione locale e rotture interne alla sua equipe portarono Basaglia a lasciare Gorizia nel 1967.
“Gorizia era per lui un primo esperimento. Quello che però voleva, non era la creazione di una comunità felice: voleva che i malati tornassero in società, non che rimanessero al suo margine. Questo io l’ho visto in parte realizzato dopo, quando Basaglia se ne era già andato. Dopo, infatti, sono stato trasferito Grado, dove era stato istituito uno dei primi centri di salute mentale. In queste strutture, il rapporto personale sanitario-pazienti si era invertito: eravamo noi che ci recavamo a casa di pazienti e non viceversa”.

Marco Cavallo
Marco Cavallo: Il simbolo del superamento dell'ospedale psichiatrico.

 


Lì il ruolo di Lucio aveva con il tempo assunto più importanza: “Il mio periodo a Grado è stato quello che professionalmente mi ha dato più soddisfazioni. Ormai avevo degli anni di esperienza e sempre più responsabilità. A Grado non insegnavo più solo ginnastica, ero il punto di riferimento per molte famiglie, dalle quali mi recavo per capire le problematiche. Quando c’era un problema, un paziente aveva una crisi o doveva essere convinto a prendere il farmaco mi chiamavano. Serviva empatia, ascolto, ma anche decisione. La parte fondamentale del mio lavoro era creare un rapporto con i pazienti, non mostrarsi come un’autorità che imponeva loro dei trattamenti. Spesso per loro era una questione di rivendicazione di un ruolo, come per dire: ok, sono malato, ma voglio comunque decidere per me”.
Il suo tono diventa poi sempre più divertente e leggero e mi racconta una delle sue storie. 

ex manicomio
L'ex manicomio di Gorizia: "C’è quasi sempre tantissima sofferenza nella mente di una persona con una malattia mentale, ha bisogno di essere capita, di percepire vicinanza”.

 

“Senti questa, questa è di quando ero ancora a Gorizia… In ospedale c’era un malato convinto di essere posseduto dallo spirito di un cobra. Quando andavo a prenderlo al reparto per fare ginnastica mi chiedeva sempre: “Posso prima andar in cusina a farme un cafè?”Sisi valavalà, va a farte il caffè”, rispondevo io. Dopo un po' di tempo e tanti caffè, ho scoperto che lui era fermamente convinto che solo bevendo il caffè sarebbe riuscito a sconfiggere lo spirito del cobra. Non un caffè qualsiasi però: affinchè fosse efficace doveva prepararlo mettendo un cucchiaino di lucido da scarpe nella moka. In questo caso, come in tanti altri simili, non serve a niente arrabbiarsi per le assurdità dei ragionamenti e di certi comportamenti. Per noi sono assurdi, per chi è malato no, il cervello funziona in modo diverso. Certo, il vivere in società richiede che ci sia prevedibilità nei comportamenti, serve un certo grado di omologazione. Però di fronte a comportamenti assurdi bisogna comunque sempre agire con empatia e comprensione. Per quanto mi riguarda, passare ogni giorno il tempo a contatto con la malattia mentale mi ha fatto acquisire un modo particolare di guardarla. Per me è un problema come un altro: uno ha un tumore, uno una gamba rotta, uno nasce con i polmoni deboli, ... Io vedo male, per esempio. E se qualcuno ha un problema nella mente, perché lo si emargina? C’è quasi sempre tantissima sofferenza nella mente di una persona con una malattia mentale, ha bisogno di essere capita, di percepire vicinanza”. 
Lucio trasmette una leggerezza positiva, che è tutt’altro che superficialità. Mentre racconta le sue storie si sta bene, si ride. Non c’è retorica nelle sue parole, solo il racconto del suo vissuto. Le idee che si è fatto sulle malattie mentali non hanno rigore scientifico, ma le sue sono parole semplici suonano autentiche.