Gesellschaft | Iran

“Le persone torneranno ancora in strada”

Cosa è rimasto delle proteste in Iran a quasi un anno dall’uccisione di Jîna Amini? L’intervista al giornalista dissidente in esilio Taghi Rahmani, questa sera a Bolzano
Taghi Rahmani
Foto: geneva Summit

È stato probabilmente il giornalista più perseguitato dalla Repubblica islamica dell’Iran. Taghi Rahmani ha trascorso in carcere 14 dei suoi 64 anni, prima di scegliere l’esilio in Francia. Lo scorso dicembre è intervenuto al Parlamento europeo, portando le testimonianze delle violenze e della repressione delle autorità iraniane contro i manifestanti che scendevano in piazza in tutto il paese a seguito dell'uccisione di Jîna “Mahsa” Amini, una ragazza curda di 22 anni arrestata e picchiata fino alla morte dalla polizia morale di Teheran per non aver indossato correttamente l'hijab. Le settimane e i mesi successivi, tutte le province iraniane, soprattutto in quelle a prevalenza curda, sono state animate da scontri e proteste. “Jin, jiyan, azadî” – donna, vita e libertà – è lo slogan che ha accompagnato le rivolte nelle strade e le manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo. Taghi Rahmani è anche il marito della celebre attivista per i diritti umani, Narges Mohammadi, attualmente detenuta in carcere a Teheran. Sottoposta a torture e maltrattamenti Mohammadi è stata condannata a 10 anni e otto mesi di carcere, oltre a 154 frustate, a causa del suo lavoro. Per il suo impegno ha ricevuto nel 2009 il premio internazionale Alexander Langer, promosso dall’omonima fondazione che, questa sera (28 luglio) ospiterà un incontro con Taghi Rahmani, presso l'antico municipio di Bolzano.

Taghi Rahmani
Taghi Rahmani: Il giornalista e dissidente politico iraniano interverrà questa sera a Bolzano

 

salto.bz: Rahmani, è passato quasi un anno dall’uccisione di Jîna (Mahsa) Amini, evento che ha scatenato una nuova ondata di proteste popolari in tutto l’Iran. Qual è oggi il livello della mobilitazione? Il ritorno in strada della polizia morale può essere considerato il sintomo di una sconfitta?

Taghi Rahmani: *Il ritorno in piazza della polizia morale non è un segnale del fallimento di questo movimento perché, in pratica, nessun funzionario del sistema di governo si sta assumendo la responsabilità di questo ritorno. La polizia morale è già fallita, ma il movimento “Mahsa” nella società iraniana si è dimostrato essere un'ondata importante di resistenza e opposizione alle politiche del regime. Sebbene oggi le proteste popolari nelle strade siano più tranquille, al contempo sono diventate molto più diffuse all’interno della società. Dall’altra parte, c’è stato un mutamento anche all'interno del sistema fondamentalista per gestire le proteste. È vero che la Repubblica islamica è riuscita a fermare queste proteste a causa della sua repressione, tuttavia non hanno nessuna soluzione pratica in grado di soddisfare le necessità della popolazione. Per questo motivo, possiamo aspettarci che in futuro le persone torneranno nuovamente in strada.

In questa nuova ondata di proteste, l’attenzione si è focalizzata sul  protagonismo dei giovani teenager curdi e iraniani, in particolare giovani donne, e sul loro nuovo modo di mobilitarsi, spesso con azioni dirette apparentemente non coordinate tra loro. Rispetto alle grandi mobilitazioni del 2009-2010 contro la rielezione di Ahmadinejad, possiamo parlare di un’evoluzione del dissenso in Iran o piuttosto di un taglio netto con le mobilitazioni del passato?

Se si intende che non esiste una grande organizzazione politica in Iran, questa opinione è corretta per le mobilitazioni nazionali, ma va notato che il movimento “Mahsa” rimane fondamentalmente un movimento civile e politico. Il “Movimento Verde” era un movimento politico, spinto dalla mancanza di elezioni libere e dalla forte corruzione del governo, con un’organizzazione centrale a sé stante. Il movimento Mahsa è un movimento spontaneo, le sue proteste sono iniziate senza alcuna organizzazione preventiva. La Repubblica islamica ha affrontato i giovani, con uno stile di vita del tutto diverso da quello imposto dalla Repubblica islamica. È una protesta diversa da quelle del passato, tuttavia sono presenti punti in comune, ma anche di debolezza, entrambi importanti da analizzare. Forse si può dire che l'opposizione, o meglio le opposizioni politiche, in Iran non hanno ancora saputo far fronte a questa ondata di proteste politico-civili per poter stabilire nel futuro una relazione adeguata. Perché alla fine le proteste dovrebbero avere un interprete e un rappresentante politico che deve saper comprendere la natura di queste proteste.

Iran revolution
I movimenti non sono stati sconfitti: "È vero che la Repubblica islamica è riuscita a fermare queste proteste a causa della sua repressione, tuttavia non hanno nessuna soluzione pratica in grado di soddisfare le necessità della popolazione. Per questo motivo, possiamo aspettarci che in futuro le persone torneranno nuovamente in strada".

 

Il fatto che non esista un vero soggetto collettivo in grado di rivendicare con legittimità dal basso la guida delle proteste, ha reso il movimento vulnerabile agli attacchi e alla strumentalizzazione?

Questa domanda è corretta. Questo movimento non ha una leadership politica e coloro che hanno cercato di guidarlo dall'estero, anziché esserne una voce o un rappresentante, sono finiti con il danneggiarlo. Oggi in tutto il mondo troviamo movimenti che esplodono all'improvviso, scendono in piazza, protestano e sollevano rivendicazioni civili. Ma questi movimenti, nel nostro paese, hanno una natura politica intrinseca, che non si possono limitare alla protesta e al rifiuto del sistema esistente. È necessario un patto, per superare la debolezza dei movimenti. Le proteste in Iran hanno bisogno che le organizzazioni civili, attraverso persone fidate, riescano a intercettare le richieste provenienti dalla società, accettarle e perseguirle. È senza dubbio un compito difficile, ma non impossibile. Quando gli insegnanti scendono in strada, quando i pensionati protestano, quando le donne alzano la testa, quando, dopo la preghiera del venerdì, infiammano manifestazioni in Sistan e Baluchistan… considerando la convergenza di questi movimenti è necessario che le loro rivendicazioni vengano trasformate in agenda politica da chi si trova in una posizione di rappresentanza, senza abusarne e venire a meno all’obiettivo iniziale.

Lei in più occasioni si è appellato all’Occidente, in particolare all’Europa, chiedendo di supportare i manifestanti. La risposta istituzionale in effetti c’è stata, con nuove sanzioni economiche, risoluzioni europee e nazionali, e addirittura l’inclusione dei Pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche. Come valuta l’efficacia di queste misure? Lei crede che la difesa dei diritti umani e il sostegno da parte dell’occidente nei confronti di un popolo che chiede diritti e libertà sia sincero oppure strumentale (come visto in passato in situazioni simili) a una determinata strategia geopolitica-militare?

In generale, il sostegno di paesi ad altri paesi non può prescindere dai propri obiettivi politici. È un fatto triste, ma è la realtà. Ciò che tuttavia è decisivo, è la volontà politica, sociale ed economica della popolazione di ottenere un cambiamento reale, che non si potrà mai raggiungere con il mero affidamento alla politica o al sostegno dei paesi occidentali. Se prendiamo come buone queste premesse, alcune sanzioni economiche nella pratica non hanno aiutato il movimento iraniano, per quanto abbiano esercitato alcune pressioni anche sul governo. ‏Se i diritti umani vengono discussi‏ come un punto fondamentale all’interno dei colloqui tra stati e il governo iraniano, allora le richieste degli oppositori dovrebbero essere chiare e praticabili. Se il tema dei diritti umani diventa davvero all’ordine del giorno all’interno dei media e dei parlamenti, allora ci può essere speranza. Dopo l’11 settembre l'Occidente dovrebbe sapere che la democrazia in Medio Oriente contribuisce anche alla propria sicurezza. In ogni caso, se vogliamo cercare di cambiare la situazione affidandoci solo all'Occidente, la questione non riguarderà più la libertà e la democrazia, ma si tratterà di garantire semplicemente una serie di interessi strategici nella regione.

Narges Mohammadi
Narges Mohammadi, attivista per i diritti umani e moglie di Taghi Rahmani: Sottoposta a torture e maltrattamenti Mohammadi è stata condannata a 10 anni e otto mesi di carcere, oltre a 154 frustate, a causa del suo lavoro.

 

Lei ha passato 14 anni in carcere e attualmente sua moglie si trova detenuta in gravi condizioni. Cosa significa essere un prigioniero politico in Iran e come è cambiata, se è cambiata, la repressione degli oppositori al regime in questa nuova ondata di proteste?

Il prigioniero politico in Iran ha molteplici significati. Con l’assenza di libertà di parola e di opinione, nasce la resistenza e questo porta ad avere numerosi prigionieri di coscienza. Il governo, a volte, è costretto a rilasciarne alcuni, ovviamente, dietro pesanti cauzioni e severi controlli da parte delle istituzioni di sicurezza. Questa volta, l'ondata di arresti è stata maggiore rispetto al passato, ma l'impatto è stato minore. Si può dire che oggi la Repubblica islamica non ha più nessun valore e la convinzione che il sistema dell’Ayatollah sia arrivato al tramonto sta crescendo di giorno in giorno nella mente della gente.

Le attiviste femministe, come Nasrin Sotoudeh e Narges Mohammadi, sono le più colpite dalla repressione ma, al contempo, riescono ad ottenere maggiore visibilità internazionale. Quello che abbiamo visto l’ultimo anno è inoltre il primo movimento che, dopo tanti anni, ripoliticizza radicalmente, portandola in piazza, la questione del controllo del corpo femminile. Saranno le donne a liberare l’Iran?

La Repubblica islamica ha reso l'hijab obbligatorio come mezzo per dominare l’intera società, attraverso la pressione e il controllo sulle donne. Le attiviste legate ai diritti femminili sono profondamente radicate nella storia iraniana.Appartengono a generazioni e a correnti diverse ma il sostegno internazionale dovrebbe farsi sentire in maniera compatta affinché i movimenti paghino meno le conseguenze per le loro attività. L'attenzione internazionale dovrebbe elevare l'influenza di queste attiviste, così da rendere determinante ed efficace la loro azione. Oggi la lotta contro l'hijab obbligatorio è diventata nei fatti una forma di resistenza politica. È lo stesso leader della Repubblica islamica, Khamenei, ad affermare che non si tratta più di un dettame della Sharia ma di un "haram" politico: le donne e gli uomini che vi si oppongono non vengono considerati colpevoli di violare un precetto religioso ma di aver messo in dubbio l'autorità del governo. Il successo del movimento “Mahsa” è l’aver reso centrale la resistenza delle donne e il loro ruolo all’interno della società ma il processo per ottenere l'uguaglianza civile e legale è ancora lungo e necessita del sostegno di tutti i settori della società. Oggi assistiamo a una profonda attivazione, anche le persone che indossano l’hijab si mobilitano contro l’obbligatorietà ed è una lotta che deve continuare fino a che questa legge non verrà completamente abolita. Ma questo non è sufficiente. Oggi la Repubblica islamica non è in grado di fornire il pane alla gente, non tollera opinioni, religioni e stili di vita diversi da quelli che promuove, che sono quelli che la gente effettivamente vuole. In questo momento è fondamentale far conoscere all’opinione pubblica mondiale le conquiste del movimento “Mahsa” affinchè si attivi di conseguenza.

 

* Traduzione a cura di Sabri Najafi