Ritorno a Sant'Anna di Vinadio, tra Italia e Francia

Nel santuario più alto d'Europa, si unisce la devozione di entrambi i versanti alpini, italiano e francese.
Un luogo dove si torna indietro nel tempo, immergendosi nell’irrazionale e nella fede più semplice e sincera che si possa immaginare.
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La storia dettagliata potete leggerla sul sito del santuario. Come spesso succedeva per gli edifici religiosi di frontiera, in origine si trattava di una piccola chiesa che fungeva da ospizio per viaggiatori, pellegrini e mercanti.
Si parla di una prima attestazione del 1307. Solo un secolo più tardi inizia ad essere citato il nome di Sant’Anna, madre di Maria, il cui culto cominciava a diffondersi, ed era legato alla protezione delle madri, delle partorienti e dei bambini.
Il Santuario di Sant’Anna di Vinadio, in alta Valle Stura, provincia di Cuneo, è il più alto d’Europa (si trova a 2035 metri) ed è situato di fronte al Colle della Lombarda, che separa Italia e Francia.
Il luogo, molto frequentato particolarmente in estate, è meta di pellegrinaggi effettuati a piedi a partire dalla bassa valle e da tutta la provincia di Cuneo, in occasione della ricorrenza che si celebra il 26 luglio.
Da piccola chiesetta, nei secoli, il santuario si è allargato e attorno al luogo sacro sono sorti numerosi edifici dedicati all’ospitalità: case vacanze, ostelli, rifugi.
La chiesa non è di particolare pregio artistico o architettonico, con i suoi tetti in lamiera opaca che hanno rimpiazzato le più coerenti lose in pietra grigia: non molto grande, non ospita affreschi o dipinti di gran valore, ma è caratterizzata dal pavimento in legno in in salita, che segue l’inclinazione della roccia su cui venne costruito.
Il sito di Sant’Anna è molto bello, proprio per la posizione che permette di vedere le cime della valle e anche oltre.

Ma fin qui, voi penserete, che c’è di diverso da altri luoghi montani?
C’è che a Sant’Anna la devozione parla italiano e francese, perché i fedeli salgono fin lassù tanto dalle pendici nostrane quanto da quelle confinanti.
E spesso, i francesi, hanno cognomi che sono italiani, proprio della valle Stura, che ha conosciuto un’emigrazione un tempo stagionale legata alla transumanza in Francia, poi spesso divenuta stanziale in Alta Provenza.
Sotto il porticato che affianca la chiesa, sono tante le lapidi e le targhe affisse dai devoti, la maggior parte con scritte in francese.
Reconnaissance à St. Anne pour sa protection. Merci de tout coeur Luisette Benevello, 1986”; “Remerciements à St. Anne N. et fils, la Seyne sur mer”; “Remerciement pour la grace obtenue, 1959”; “Voti fatti, gracie, Degiovanni Caterina” e così via.
Poi si entra all’interno, e ci si trova immersi in mondo arcaico datato 2013.
Ai tempi dell’I-phone e dei Google glasses, della religione della tecnologia e del festival del cinismo, a Sant’Anna si può fare un tuffo nell’irrazionale e nella fede più semplice e sincera che si possa immaginare.
Le pareti della chiesa sono costellate di ex voto, per la maggior parte quadretti e disegni eseguiti da mani semplici e quasi bambine, più naif di un dipinto naif.
Quello che stupisce non è però lo stile, ma il fatto che sono recenti, di qualche anno fa, e anche di oggi.
I quadretti rappresentano incidenti in auto, o in  larga parte in trattore o altri mezzi agricoli, o ancora scene di lavoro nei campi, o nei cortili di fattorie.
Chi è finito nel canale, chi è caduto dal fienile, chi si è salvato dal trattore a cingoli, chi ha rischiato di essere stritolato nell’imballatrice, e così via…
Un mondo contadino sempre uguale a se stesso che i più credono finito, scomparso, appiccicato con lo sputo in qualche film nostalgico o cantato da novelli cultori del buon tempo andato. Un mondo che è qui accanto a noi vivo e vegeto, magari dove il trattore costa più di una Porsche, ma con l’immaginetta di Sant’Anna appesa allo specchietto retrovisore, o tenuta nel portafogli.
Pareti decorate da mani spesso incerte, con nessuna nozione della prospettiva, prodighe di colori piatti e sgargianti.
E poi, in fondo, accanto all’altare, centinaia di fiocchi rosa e azzurri delle nascite, con foto incellofanate di infanti e, vicino alla statua di San Gioacchino, il marito di Anna, il luccichìo di decine e decine di cuori d’argento.

Nel santuario, alle 14.30, il giorno della mia visita, si benedivano i bambini. Arrivavano passeggini, mamme, neonati urlanti, intere famigliole.
Nel frattempo c’era chi stava con la testa tra le mani, perso in qualche preghiera o in qualche dolore, chi accendeva i ceri, e giovani campeggiatori di qualche parrocchia della pianura, che provavano canti con la chitarra.
Io, che fatico a credere in me, figurarsi in un’entità superiore, mi sono spostata nelle piccole cappelle situate sotto il porticato, dedicate alle confessioni.
Lo scorso anno a luglio, mio padre, che da anni passava le vacanze in quella valle, ci lasciò improvvisamente e lievemente, poco dopo aver detto quanto si trovava bene in quel luogo.
A Sant’Anna ci dovevo tornare. Non fosse altro per averlo potuto scorgere sorridente, con il suo bastone per andare a funghi, appoggiato al muro di quella chiesa in salita, dove ho lasciato fuori tutte le mie convinzioni e le mie certezze, per percepire in silenzio secoli di sofferenze, miracoli, dolori e fiducie ritrovate.