Culture | Sokolov

20 agosto - La chimica del pianoforte

Si scompone in tutte le gocce che formano il mare e poi, singola goccia, si frammenta ancora fino ad essere aria, spazio, un fiore che si schiude nel tempo...
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Dopo il concerto di Grigory Sokolov, ho avuto bisogno di un giorno intero per ritrovare la via di casa. M’ero persa nel blu profondo, in un viaggio siderale che dà le vertigini.

Ricordo che l’Auditorium gremito era percorso da una strana tensione, che cresceva mano a mano che i minuti passavano. Il Maestro non appare, si fa attendere. La sua foto mi rimanda l’immagine di un uomo corpacciuto con un volto da paggio, di indole collerica e suscettibile. D’improvviso, vedo muoversi un’ombra, dietro ai piccoli vetri quadrati della porta, ai lati del palcoscenico. Qualcuno ci guarda, ci osserva, ci spia. L’elettricità che percorre sempre la sala, prima di ogni esibizione, stasera ha un’intensità quasi inquietante, che si sfoga in tossi improvvise, contagiose, che colpiscono ognuno in modo diverso. Tossettine stizzite, roboanti, soffocanti o inutilmente trattenute percorrono le file di poltrone, lasciandoci interdetti e timorosi che accada di nuovo, nel momento sbagliato.

Il Maestro fa il suo ingresso con passo deciso. Le lunghe falde del frac accompagnano, briose, la sua andatura spedita; al momento di sedersi le solleva con un tocco stizzito ed io ho la sensazione che un piccolo particolare fuori posto potrebbe scatenare un furia muta ma implacabile. Appena tocca il piano la tensione svanisce, sciogliendosi in una malinconia d’amore che mi fa pensare alle notti bianche di un sognatore che passeggia per San Pietroburgo. Vedo allora due innamorati qualsiasi che si interrogano sull’ampiezza e l’intensità del reciproco amore e lo fanno con spavalderia, perché il sentimento è saldo e giovane, non ha paura di nulla e sembra non avere confini; ma una piccola punta di amarezza e paura li coglie, mentre passeggiano abbracciati, sulle note della sonata di Chopin. Avvertono, con rammarico, che per quanto quell’amore sia destinato a superare il tempo ed i giorni insieme, domani o tra un anno non saranno più gli stessi di allora.

Intravedo le mani del Maestro riflesse sul coperchio del piano. Corrono leggere sfiorando i tasti o li pigiano con intensità dolorosa, come se da questo contatto dipendesse l’accendersi della sua coscienza. Quando smette di suonare, si accascia, reclinando un poco la testa di lato, colto, mi pare, da un’insopportabile tristezza. Ma poi subito si rianima, tuffando le mani nel piano. Si perde Grigory, nuota in un blu sterminato, alla ricerca di un tesoro affondato o di una terra ai confini del mondo. Può diventare ciò che vuole: pesce o uomo che respira sott’acqua, diafana bolla che risale, sottile, verso la superficie o campo di posidonia che si lascia cullare dalle onde. Si scompone in tutte le gocce che formano il mare e poi, singola goccia, si frammenta ancora fino ad essere aria, spazio, un fiore che si schiude nel tempo ed il tempo stesso.

Mi disturba lo scrosciare immediato dell’applauso. Avrei voluto condividere con lui quel po’ di silenzio che accompagna sempre i momenti solenni.

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