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Politics | Avvenne domani

Lassù nel cloud

Bilinguismo e profezie digitali.

Un sincero ringraziamento, innanzitutto, alle ricercatrici e ai ricercatori dell'EURAC per aver dato il via, con la loro ricerca sulla conoscenza della seconda lingua tra i giovani in Alto Adige ad un dibattito di buon livello, con interventi interessanti, centrato finalmente su una delle questioni chiave della nostra realtà politica provinciale, anziché sui bizzarri gusti musicali di qualche comandante degli Schützen o sulla telenovela fantasy in tema di autodecisione andata in scena  in non so quale Konvent.

Leggendo con interesse molti degli interventi (quelli più interessanti sono sicuramente quasi tutti stati pubblicati da Salto) mi è tornata in mente, all'improvviso, una sorta di profezia sentita esprimere, nel settembre dello scorso anno, durante uno degli incontri sicuramente più interessanti e partecipati del Festival della Letteratura di Mantova. A parlare, davanti a parecchie centinaia di spettatori silenziosi  e interessati, un esperto americano di quello che potremmo definire il  "futuro digitale".

Alec Ross, piacevolmente incalzato da Beppe Severgnini, ha dipinto, in poco più di un'ora, il quadro di un futuro dominato da una tecnologia sempre più pervasiva, capace di sostituire l'uomo in molti tra i suoi compiti odierni. Tra i vari esempi fatti durante l'incontro c'è anche quello che mi ha particolarmente colpito. Nel giro di qualche anno, sei o sette al massimo secondo Ross, due persone parlanti lingue completamente diverse, ma dotati di uno strumento digitale (tablet o smartphone) collegato via etere al cosiddetto "cloud" e cioè ad un colossale elaboratore dotato di una memoria quasi infinita, potranno tranquillamente conversare senza sapere nemmeno una parola della lingua dell'altro. Le loro frasi verranno captate dallo smartphone, inviate lassù nel cloud, elaborate, tradotte e rinviate allo strumento dell'interlocutore nella sua lingua. Il tutto in tempo reale. "E per i dialetti, come faremo" -  provocava scherzosamente Severgnini. Ross, che avendo studiato anche in Italia non aveva bisogno del traduttore, ribatté fulmineo: "Un paio d'anni in più al massimo. Il tempo per immettere i dati".

Non so voi, ma la mia prima reazione fu di assoluta incredulità. Poi ho pensato che, se una decina d'anni fa, mi avessero detto che il mio telefono cellulare mi avrebbe pilotato alla ricerca di un ospedale, in una sconosciuta cittadina nel nord della Spagna o che lo stesso sarebbe in grado, volendo, di rilevare il mio battito cardiaco e la mia pressione sanguigna e di farli riservatamente avere al mio medico, avrei provato lo stesso senso di rifiuto. Eppure succede.

Ripensandoci meglio, poi, mi sono detto che, nel futuro disegnato dai profeti digitali come Alec Ross, saremo tutti in grado di superare l'ostacolo costituito dalla mancata conoscenza di una lingua, per chiedere ed ottenere informazioni, per sostenere una normale conversazione su un tema specifico, ma mai nessun "cloud" ci potrà dare quella conoscenza profonda di una lingua che serve per poter penetrare nella cultura e nella storia dei popoli che lo utilizzano, per poter sfiorare le emozioni di una persona che ci sta davanti nella sua complessità umana, per poter effettivamente "vivere" nel luogo in cui quella lingua è lo strumento di comunicazione fondamentale.

La rivoluzione digitale che ci attende, mi dicevo, potrà dunque permetterci di parlare in un'altra lingua, ma non di comunicare.

Alle riflessioni di allora ne ho aggiunta, in questi giorni un'altra. Lo scambio di frasi, senza reale comunicazione, che Alec Ross ci promette per il prossimo futuro è esattamente quel bilinguismo che si è voluto creare, quasi imporre, negli ultimi quarant'anni in Alto Adige.

La storia, come si sa, subisce una svolta improvvisa proprio quattro decenni fa. Nel luglio del 1976, infatti, viene varata una tra le norme di attuazione più importanti del nuovo Statuto di autonomia: quella che impone l'obbligo del bilinguismo per tutti gli impiegati pubblici. Sino ad allora, sin dal fatidico 4 novembre 1918, si era andati avanti secondo il sistema per il quale, in Alto Adige, gli italiani parlavano italiano e i sudtirolesi dovevano arrangiarsi. Furono costretti ad impararlo, l'italiano, per comunicare con qualunque tipo di autorità, civile e militare, per comparire in tribunale, per vendere o comperare un terreno. Lo impararono anche perché, durante il fascismo, furono costretti a frequentare scuole la cui unica lingua di insegnamento era quella italiana, ma anche nel secondo dopoguerra, quando l'insegnamento del tedesco fu ripristinato, c'era un mondo, quello di quasi tutti gli uffici pubblici, delle poste, delle ferrovie, degli istituti di previdenza, dove il tedesco era e restava una lingua pressoché ignota.

Sino alla svolta del 1976, quando fu fatto valere, finalmente, il principio basilare secondo cui ogni cittadino ha diritto di utilizzare nei rapporti con la pubblica amministrazione la sua lingua madre. Per vederlo effettivamente e totalmente applicato ci vollero ancora diversi anni, ma si iniziò subito stabilendo che, da quel momento in poi, tutti i nuovi assunti fossero bilingui, ovvero dotati di un'apposita certificazione rilasciata dai competenti uffici provinciali: il famoso "patentino".

Per i sudtirolesi non ci furono grossi problemi. L'italiano avevano già dovuto impararlo. Per gli italiani, invece, fu una specie di catastrofe, dalla quale, a giudicare dal dibattito di questi giorni, non si sono ancora del tutto ripresi. La comunità italiana arrivò a  quel traguardo totalmente impreparata, saldamente ancorata, sino al giorno precedente, al principio secondo il quale "qui siamo in Italia e qui si parla italiano". Quando ci si accorse che questa moneta non era più spendibile, iniziò la ricerca affannosa, per certi versi sconclusionata, di un modo per recuperare il terreno, senza dover fare, magari, troppa fatica.

C'era un'alta montagna da scalare, sulla cui vetta stava, quasi irraggiungibile, il mitico "patentino", ma gli italiani maturarono ben presto l'impressione che qualcuno, la Suedtiroler Volkspartei per parlar chiaro, cercasse ogni mezzo per impedir loro di salire. Cominciarono a sospettarlo quando, proprio mentre entravano in vigore le norme sul bilinguismo, la SVP, facendosi forte del dettato del nuovo, bloccò rigidamente ogni tentativo di anticipare già agli anni della scuola materna l'insegnamento della seconda lingua. Se ne fecero ancor più convinti quando, con la stessa motivazione, fu per anni stoppata anche la cosiddetta "immersione", madre dell'attuale CLIL. In realtà alla Suedtiroler Volkspartei del fatto che gli italiani imparassero o meno il tedesco non interessava né punto né poco. Le sue drastiche chiusure sull'argomento (e quanto fossero del tutto ingiustificate lo dimostra il fatto che oggi, a Statuto invariato, le stesse sperimentazioni possono tranquillamente essere fatte) derivavano da una sensibilità esasperata su tutte le tematiche che abbiano attinenza con la scuola, considerata settore vitale per la tutela della minoranza, e soprattutto dal caparbio rifiuto di ogni sia pur piccola riforma che possa portare verso la creazione di una "zona mista" nella quale italiani, tedeschi, ladini possano ritrovarsi, affiancando alla propria originale identità un comune senso di appartenenza ad una terra nella quale vivono assieme ormai  da quasi un secolo . È per questo che ogni tentativo di proporre modelli di scuola bilingue che vadano al di là della sia pur felice esperienza ladina, viene rifiutato senza neppure essere preso in considerazione. È per questo che l'intera società altoatesina, anche così come si è venuta a configurare della nuova autonomia, è basata sulla totale separatezza tra i gruppi. A questo modello di società corrisponde pienamente quello del bilinguismo che per essa viene richiesto. Non la conoscenza e la comprensione della lingua altrui come strumento per poter veramente entrare in contatto con gli altri, ma semplicemente una serie di nozioni necessarie e sufficienti per poter garantire il diritto dell'altro ad usare la propria lingua in un burocratico rapporto con l'ente pubblico.

E forse nemmeno questo,  se si pensa che poi, il famoso "patentino" è stato abbondantemente usato, più che come strumento per la promozione di un reale bilinguismo (se non fosse cosi 'non verrebbe rilasciato una volta per tutte senza successivi accertamenti), ma come una sorta di grimaldello per garantire ai nativi maggior facilità di accesso ai posti pubblici in sede locale. Solo dopo un intervento dell'Europa ci si è risolti ad aprire la porta anche ad altri tipi di certificazione.

Questo è il bilinguismo di utilizzo corrente in Alto Adige. Gli italiani continuano a scalare la loro montagna, sempre rallentati dal fatto di non vivere l'impresa come la conquista di qualcosa,  ma come un obbligo insostenibile e ingiusto. I tedeschi, che sulla cima della montagna c'erano già, si ritrovano inevitabilmente ogni giorno più in basso. Per decenni hanno dovuto imparare l'italiano perché non avevano alternativa. Adesso l'alternativa c'è, visto che un giovane sudtirolese, soprattutto se vive in periferia, non vuole entrare in un ufficio pubblico e non è a diretto contatto con il settore turistico, può tranquillamente vivere tutta la sua vita senza aver bisogno di parlare una parola d'italiano.

Questo è anche il bilinguismo che potrebbe esser reso superfluo dalla rivoluzione digitale promessa da Alec Ross, con la garanzia di poter conversare in modo corretto ed esaustivo, su qualunque argomento,, avendo anche l'opzione, con minimo sovrapprezzo, di poter usare il dialetto della valle natìa.

E l'altro bilinguismo? Quello che nessuna rivoluzione digitale potrà mai sostituire? Quello che porta ad entrare veramente nel mondo degli altri e non solo a  scambiare con loro qualche informazione tecnica?

Quel bilinguismo, c'è da temere, resterà, in questa terra, merce rarissima. E d'altronde come chiedere ai giovani studenti di inseguirlo, se poi non diamo loro nessuna possibilità per esercitarlo nella vita reale.

Siamo come gli abitanti di una casa con diversi piani. Abbiamo vissuto momenti difficili, ma adesso, da qualche tempo, abbiamo imparato a comportarci da buoni vicini. Ci salutiamo educatamente sulle scale quando ci incontriamo e a volte scambiamo persino qualche frase sul tempo o sulle regole per gettare l'immondizia. Litighiamo educatamente alle riunioni condominiali. In ciascuna famiglia ci sono ancora dei ragazzotti irrequieti che rimpiangono i tempi in cui facevano scoppiare qualcosa nel giroscale, ma li teniamo buoni, almeno per ora. Ogni tanto succede che un panno steso cada sul balcone del piano di sotto. Andiamo per riprenderlo. Entriamo in quella casa che è esattamente uguale alla nostra. Le stanze, le finestre, tutto uguale anche il panorama, fuori, è lo stesso. Eppure tutto è diverso, perché ci abitano gli altri. E ci prende uno strano desiderio di mettere assieme, almeno per un po', quelle realtà così uguali e così diverse al tempo stesso e provare a raccontarcele, per vivere un po' assieme. Ma non funziona così. Ci chiudiamo la porta alle spalle e torniamo al "nostro" mondo. Nebeneinander invece che miteinander. E nemmeno il cloud di Alec Ross potrà cambiare qualcosa.

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Floriana Gavazzi Mon, 06/05/2017 - 08:43

Vorrei aggiungere una considerazione al bel pezzo di Maurizio Ferrandi. Se quest'anno il festival dell'economia di Trento si è occupato della "salute disuguale", l'Alto Adige sta producendo tra i suoi giovani il "bilinguismo disuguale".
Una piccola élite impara la seconda lingua perché la famiglia ha la sensibilità e la cultura per spingere i figli ad attività in L2 e ha i soldi per i viaggi studio all'estero, tutti gli altri imparano sempre peggio e resteranno tagliati fuori dai posti di lavoro che contano in Alto Adige. Ma la scuola non dovrebbe servire da ascensore sociale e favorire pari opportunità per tutti?

Mon, 06/05/2017 - 08:43 Permalink
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Paolo Carbone Tue, 06/06/2017 - 08:58

Ottimo pezzo e ottima analisi davvero. Pur essendo un "foresto", ma assiduo frequentatore dell'Alto Adige riconosco bene questa realtà e tutte le volte che la tocco con mano mi lascia molta amarezza. Sarà che amo questa terra, sarà che me la cavo con il tedesco, ma questa separazione fisica e psicologica è davvero difficile da accettare.
E tuttavia, la scuola, nel senso di momento comunitario, può essere l'unica strada per tentare di rimediare....fin da piccoli, fin dall'asilo.

Tue, 06/06/2017 - 08:58 Permalink