Society | Il ricordo

Siamo tutti fantozziani

Morto a Roma l'attore Paolo Villaggio. Ha raccontato la derelizione dell'essere impiegati in una vita che non ci appartiene.
Paolo Villaggio
Foto: upi

Uno dei primi ricordi che ho di Paolo Villaggio (Genova, 30 dicembre 1932 – Roma, 3 luglio 2017) mi riporta ovviamente con la memoria in un cinema della mia città. Tutti ridono. Letteralmente, un collettivo contorcersi dalle risate, come raramente mi è capitato di osservare. Un altro film per me centrale è “Il bel paese”, di Luciano Salce. Lo vidi assieme a mio padre in un cinema del centro, a quel tempo i cinema stavano tutti in centro. Era il 1977: l'abiezione degli anni di piombo, altro che “degrado”, era testimoniata in modo impietoso, quasi in presa diretta. Lì si rideva poco, e forse il personaggio ci faceva capire che non c'era poi troppo da ridere neppure nei film precedenti, quelli con Fracchia e Fantozzi.

I suoi personaggi, le sue battute sono di dominio pubblico, saldano le generazioni e, una volta pronunciate, spesso imitandone la voce, ne richiamano altre, in un gioco collettivo che in queste ore sta inondando anche i social network. I vocabolari ne registrano l'aggettivo “fantozziano”, detto di persona impacciata e servile con i superiori: quel collaboratore è proprio una figura fantozziana. Anche di accadimento penoso e ridicolo: una situazione fantozziana. In realtà sotto sotto vi si percepisce una venatura di impossibile ribellione. Come se quella condizione di fin troppo esibita subalternità esprimesse la contestazione di un ordine assurdo, di una gerarchia imbecille, alla quale si può sfuggire richiamando (per contrasto) un altro (e più alto) valore dell'essere umano, incompatibile con la sua riduzione d'ufficio.

 

Poi un crepuscolo fatto di numerose apparizioni televisive, ospitate da grande saggio, questo soprattutto nell'ultimo periodo. O recuperi da cinema d'autore, la geniale interpretazione del dottor Gonnella ne “La voce della luna” di Fellini. Quel meraviglioso “Ecco vede? Fanno tutti finta!”. Sulla morte diceva: non ci penso mai (difficile crederlo, temeva la depressione come pochi), è un sipario nero, come il ventre della madre (lui, che sull'“occhio della madre” ha costruito uno dei passaggi più celebri, giustamente, del suo citazionismo vittimistico). È stato anche l'antesignano di tutti i congiuntivi sbagliati (maestro di Luigi Di Maio, insomma), il simbolo dell'inadeguatezza, della distanza degli italiani dalla loro lingua. Da questo punto di vista la migliore parodia possibile della fierezza fascista, espressione tra le più autentiche di un popolo cialtrone, che della cialtronaggine ha deciso di esserne l'autobiografia. Scorrendo i primi commenti che vengono pubblicati sui giornali, appresa la notizia della morte, spicca il parallelismo, la sovrapposizione del ricordo di Paolo Villaggio e dell'ombra di Pier Paolo Pasolini. Evidentemente si scorge nelle profezie cupe del secondo l'inveramento rappresentato dal primo. Con una sorta di conseguenza autoassolutoria: è una vera tragedia, quindi volgiamola in commedia. Si ride per non piangere, “facciamo finta che tutto va ben, tutto va ben...”.