Culture | Arte

Passatempi produttivi e libertà impossibili

La mostra di Ingrid Hora fino al 21 novembre ad ar/ge kunst.
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Credo di aver cominciato ad interessarmi di arte e cultura onde evitare di entrare in palestra.
Probabilmente come un proto-atto di ribellione nei confronti dell’imperativo materno, che con la palestra identificava il “fare qualcosa di produttivo” del mio tempo libero. Una ribellione conformista, come spesso accade, considerato che anche frequentare gallerie, biblioteche e teatri è certamente un modo “produttivo” di trascorrere il proprio tempo libero. Devo tuttavia ammettere che entrare alla ar/ge kunst di Via Museo a Bolzano ha comportato un leggero trauma e per qualche secondo ho dovuto riassestare una serie di parametri che davo ormai per incrollabili nelle varie stratificazioni del mio sub-, para-, ultra-conscio...
Che di questi tempi una mostra sia in grado di scuotere qualcosa in me al primo approccio con la soglia della galleria è un fatto tanto positivo quanto eccezionale. Mi sono quindi tuffata con una certa curiosa avidità fra le opere di Ingrid Hora, benché avessero la forma, non scontata, di attrezzi ginnici che non credo di aver più visto dai tempi dell’ora di ginnastica a scuola. Spalliere, cerchi, cavalline, sbarre, tappeti e specchi, tutti privati della loro funzionalità originaria, si ridefiniscono in forme nuove nello spazio della galleria, ribadendo con rigore il loro rifiuto ad adattarsi ad una programmaticità strutturale.

La riflessione di Ingrid Hora, nata nel 1976, cresciuta in Val Passiria e stabilitasi, dopo varie peregrinazioni, a Berlino, emerge senza ricorrere a cripticità o ad approssimazioni: le interessa la dimensione sociale, l’agenda politica della composizione del tempo libero, concetto che la modernità ha reso in se stesso ossimorico. È realmente libero il tempo non occupato dall’attività lavorativa?
Se il Novecento ha impiegato buona parte delle proprie energie sociali a definirne la legittimità, i contorni, la densità e la struttura, generando miriadi di corporazioni, associazioni, raggruppamenti, tutti finalizzati a contenere il potenziale, anche o soprattutto sovversivo, di questa libertà, gli anni Duemila hanno visto sfumarsi i contorni di quanto costruito, nella generale fluidità, nella disgregazione istituzionale ed economica del post-postmoderno. E tuttavia la necessità, come ricordato dal mio personale imperativo materno, di rendere produttivo il tempo libero, non è mai venuta mancare. Ora manca più che altro una più chiara contornatura della dimensione temporale idealmente “libera”. Nella mia esperienza personale, il tempo realmente libero è estremamente raro. Il mio (piuttosto dispotico) ideale dell’Io impone ritmi serrati anche in quei ritagli temporali che non siano strettamente dedicati ad una comunque poco strutturata ed incoerente produttività lavorativa. Il tempo libero dovrebbe forse corrispondere idealmente all’otium, alla nullafacenza prodromo della speculazione intellettuale. Eppure, più ricerco spasmodicamente momenti di ozio, sempre più rari, più mi rendo conto che l’ozio non è affatto sinonimo di libertà. Unicamente libera sembra essere solo la perdita di tempo: se così è, viene quindi a decretarsi un’impossibilità esistenziale del tempo realmente dedicato alla dimensione più puramente umana, individuale o sociale che sia.
Così i video di Ingrid Hora, che catturano gli aspetti di rigidità della strutturazione sociale delle attività per il tempo libero, qui rappresentate da un coro maschile (di Fié allo Sciliar, in gita sociale a Berlino) e da una coreografia che mima esercizi ginnici standardizzati, finiscono per lasciarne filtrare una natura alquanto grottesca, se non perfino aberrante.

La mostra, curata da Emanuele Guidi, segna così un continuum rispetto al percorso artistico di Ingrid Hora, che si è spesso servita di traslazioni formali, sempre molto raffinate, per dare rilievo a paradossi, impossibilità o turbolenze in quello che definisce come proprio campo d’indagine, ovvero il “cemento sociale”.
Tempo certamente produttivo, quello dedicato alla visione di questa mostra. Su cui ho finito per rimuginare per tutto il tempo, potenzialmente perso, del viaggio di ritorno a casa in treno. L’intelaiatura che la società e la produzione hanno imposto alla dimensione privata del tempo non è una gabbia sempiterna: i suoi assunti possono essere messi in discussione, e Hora ci aiuta a farlo. La spontaneità dell’umano e della socialità più franca trapela involontaria dai sorrisi che sfuggono a qualche membro del coro di Fié, in cui ho letto l’unico opposto al rigore normativo che la mostra ha saputo rendere anche sul piano formale: allegria!