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Politics | Avvenne domani

E se...?

Domande e risposte su piccoli e grandi interrogativi lasciati aperti dalla storia e dalla cronaca nelle vicende altoatesine, dal 1992 ad oggi.

So benissimo che con i verbi al condizionale non si fa storia, eppure ogni volta che si riparla, come oggi in occasione del venticinquesimo anniversario, della chiusura del "Pacchetto" avvenuta nei primi mesi del 1992 non riesco a togliermi dalla mente un fatidico "se".

Che cosa sarebbe successo se, quel 30 gennaio del 1992, Giulio Andreotti non avesse portato in Parlamento gli ultimi frammenti di attuazione di uno Statuto varato esattamente vent'anni prima, e, con l'emanazione delle residue norme di attuazione, non avesse solennemente dichiarato che il lungo processo di realizzazione della nuova autonomia era finalmente terminato?

Per capire il senso di questo interrogativo bisogna, come al solito, calarsi per un attimo nella realtà confusa di quei giorni. Bisogna innanzitutto intendere che, quello di Andreotti, fu l'ultimo atto del suo ultimo Governo e, senza ombra di dubbio, di quella che siamo soliti chiamare Prima Repubblica. Due giorni dopo quella seduta della Camera, il Capo dello Stato Francesco Cossiga sciolse le camere e indisse elezioni anticipate. Ancora due settimane o poco più e il 17 febbraio, a Milano, i magistrati misero le manette ai polsi di Mario Chiesa, esponente socialista di secondo piano, preso con le mani nel sacco. Nel sacco c'era una tangente. Quell'arresto, come tutti sanno, fu il sassolino che, spostato, provocò la valanga di Tangentopoli.

Tutto questo in meno di venti giorni, ma a portare al capolinea un sistema politico che era sopravvissuto a crisi ben più robuste per tutti i decenni precedenti, erano stati, nei mesi e negli anni precedenti, eventi di portata internazionale che avevano cambiato, con la caduta del muro di Berlino e il crollo dell'impero sovietico, la faccia dell'Europa e del mondo, rendendo obsolete diverse posizioni di rendita sulle quali il sistema di potere italiano era vissuto dal 1945 in poi. La vecchia diga anticomunista, eretta con le elezioni del 1948, non aveva più ragione di esistere e i mattoni politici con i quali era stata realizzata si rivelavano troppo fragili o troppo erosi dal tempo per poter ancora sostenere l'edificio di una maggioranza di governo.

Nuovi soggetti politici, come la Lega Nord, si facevano impetuosamente strada in un paese pronto a rinnegare antiche fedeltà politiche, mentre i vecchi comunisti, privati d'un tratto di antichi riferimenti ideologici, provavano a cambiare nome e pelle per inoltrarsi, lontano dai vecchi porti sicuri, in un'incerta navigazione nel mare aperto di una politica della quale nessuno  aveva ancora ben capito regole e precetti.

Questo è il mondo nel quale Giulio Andreotti decise di chiudere la sua ennesima esperienza governativa proprio ponendo il suggello ad un compito, quello di trovare una giusta sistemazione al problema della minoranza sudtirolese in Alto Adige, che in fondo aveva iniziato nell'autunno del 1946, affiancando Alcide Degasperi nei giorni cruciali delle trattative per l'Accordo di Parigi.

Se questi erano i giorni, se questo era il clima, è evidente che nessuno avrebbe potuto meravigliarsi se Andreotti di quel lontano impegno, rinnovato poi più volte nei decenni successivi, si fosse però dimenticato, nel tumulto politico di una fase nella quale ogni giorno portava novità sconvolgenti e prospettive ignote.

In fondo l'attuazione dell'autonomia altoatesina nata con lo Statuto del 1972 si trascinava stancamente da oltre vent'anni. Tutte le norme di attuazione più importanti erano già state emanate, ma al compimento dell'opera mancavano alcuni adempimenti considerati irrinunciabili dalla controparte politica sudtirolese, una Suedtiroler Volkspartei, ben decisa a non lasciare nessuna questione irrisolta. Una SVP, tra l'altro, spaccata al suo interno tra fautori ed avversari della chiusura, quasi come allo storico congresso del 1969 sull'approvazione del "Pacchetto".

Nulla avrebbe potuto essere più naturale, in questa situazione complessiva, che accantonare il problema ancora una volta, come già era avvenuto più volte negli anni precedenti, in attesa che il tempo facesse maturare soluzioni migliori o mitigasse la dura opposizione di molti a quelle già concordate.

Ripeto: non ci sarebbe stato nulla di strano se Andreotti avesse rimesso l'intero fascicolo riguardante l'Alto Adige in un cassetto ed ero avesse lasciato a disposizione dei suoi successori. È difficile credere che i due governi successivi, quelli diretti da Giuliano Amato e da Carlo Azeglio Ciampi, limitatisi a traghettare, nell'arco di un biennio, il Belpaese verso un totale stravolgimento delle regole politiche, avrebbero potuto e voluto interessarsi il compito di affrontare al contempo anche una "grana" come quella altoatesina.

Bisogna dunque pensare che, se Andreotti non avesse "chiuso" il 30 gennaio del 92, il dossier Alto Adige sarebbe arrivato ancora aperto sulla scrivania occupata, nella primavera del 1994, dal nuovo padrone dell'Italia: Silvio Berlusconi. E qui la questione, già di per se stessa ingarbugliata, si sarebbe complicata ulteriormente. Di quel governo Berlusconi, come dei successivi, facevano parte, come noto, gli ex missini di Alleanza Nazionale, anch'essi reduci, come gli avversari comunisti da un lavacro purificatore, con relativo cambio di nome e di simbolo, che non poteva però cancellare cinquant'anni di irriducibile opposizione a tutta la politica governativa sull'Alto Adige e soprattutto a gran parte degli istituti fondamentali del nuovo Statuto di autonomia. Nelle stesse file degli "azzurri" di Forza Italia militavano diversi personaggi che non avevano mai nascosto di avere, sulla questione altoatesina, opinioni del tutto simili a quelle manifestate per decenni dal vecchio leader Giorgio Almirante e dal suo pupillo e successore Gianfranco Fini. Chiedere ad una maggioranza così composta di mettere il proprio sigillo sull'attuazione di un'autonomia considerata da sempre come un errore fatale, un'ingiustizia storica, un errore politico imperdonabile, sarebbe stato come costringerla ad un altro ritenuto contro natura. Bisogna credere che a quel punto l'intera questione si sarebbe drammaticamente riaperta, con grande gioia, tra l'altro, di tutti coloro che, nel piccolo mondo sudtirolese, avevano continuato a sperare che l'intesa sul "pacchetto" si rivelasse alla fine con una scommessa perduta.

Non vale, a smentire questa tesi, il fatto che arrivata al governo la destra di Berlusconi e Fini nulla abbia fatto per cancellare un modificare le intese già raggiunte. Non vi è chi non capisca che c'è una differenza fondamentale tra l'avere ereditato un problema risolto, con il plauso crescente, tra l'altro, della comunità internazionale e il trovarselo ancora aperto sul tavolo, tra infinite pressioni, tra cui quella di un elettorato italiano dell'Alto Adige che, in quegli anni, proprio alla destra consegnava su un piatto d'argento montagne dei voti sempre più alte.

Per un Berlusconi a caccia di credibilità internazionale, voglioso di farsi accettare nel club dei conservatori europei, quello di metter mano al problema altoatesino, cedendo alle richieste di chi, da Bolzano, gli prospettava improbabili rivincite, sarebbe stato un errore marchiano e ovviamente non lo commise, ma, è bene ripeterlo ancora una volta, del tutto diversa la situazione sarebbe stata se la questione fosse rimbalzata addosso ancora tutta da definire.

In queste ore, nelle quali quella chiusura della vertenza internazionale viene solennemente celebrata a Merano, sarebbe dunque più che opportuno elevare un sommesso ringraziamento ad un personaggio per altri versi controverso e discutibile come Giulio Andreotti, ma che nell'occasione diede prova di serietà e di lungimiranza politica.

E, visto che siamo in tema di celebrazione meranesi e di discorsi ipotetici, vale anche la pena di domandarsi se e come si sarebbero svolte le cerimonie di questi giorni, qualora, nel dicembre scorso, le elezioni presidenziali austriache, ripetute dopo le irregolarità del maggio 2016, avessero dato un esito diverso.

A Merano, per incontrarvi il Presidente Sergio Mattarella, arriva da Vienna un signore,Alexander Van der Bellen, che al pari del suo predecessore Heinz Fischer rappresenta in massimo grado i valori e i sentimenti più puri della tradizione democratica austriaca. Van der Bellen è l'erede diretto di una parte politica minoritaria in Austria come in Italia, i Verdi, che però si è sempre spesa per politiche i intesa con l'Italia sulla questione altoatesina, per promuovere la pacifica convivenza tra tutte le popolazioni locali. Lo fece anche nel 1992, quando al Nationalrat si discusse sulla chiusura della controversia. La gran parte dei parlamentari allora concordarono su questa scelta. Ad opporsi, come sempre si erano opposti a qualunque forma di intesa con Roma, furono solo gli eletti della destra estrema, inquadrati nel Partito Liberale.

E proprio un rappresentante di questa forza politica, Norbert Hofer, è l'avversario che, per due volte, è arrivato ad un soffio dallo strappare a Van der Bellen la nomina alla più alta carica della Repubblica.

Che cosa potrebbe succedere, in queste ore a Merano, se un piccolo numero di voti fosse stato espresso diversamente e se, a celebrare i fasti di questo quarto di secolo di autonomia attuata, fosse stato chiamato invece Norbert Hofer. Sarebbe venuto ad onorare un anniversario che tutti i suoi predecessori politici hanno concordemente definito infausto, frutto di un tradimento della vera causa sudtirolese? Avrebbe piuttosto declinato l'invito? Sarebbe venuto lo stesso, ma per solidarizzare apertamente con coloro che, giocando sulle note di un inno nazionale, avrebbero voluto trasformare l'occasione in una manifestazione irredentista?

C'è mancato poco, con Andreotti nel 1992 e con Van der Bellen nel 2016. Varrebbe la pena ci riflettessero coloro che volte sembrano giocare con le scelte e le responsabilità politiche.

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Matteo D Sun, 06/11/2017 - 12:46

Gentile Maurizio,
grazie delle tue parole perché hai espresso - in maniera molto più efficace e storicamente ordinata di quanto avrei potuto fare io - le medesime preoccupazioni e pensieri che mi sono venuti quando ho letto delle polemiche sulle celebrazioni.

Grazie

Sun, 06/11/2017 - 12:46 Permalink
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michele buonerba Wed, 06/14/2017 - 23:48

Un'analisi lucida e condivisibile dei fatti di quel 1992 che sconvolsero l'Italia, ma che videro la chiusura della vertenza sudtirolese. In effetti se si fosse atteso ancora, oggi, alla luce di quanto accadde in Italia negli anni successivi, probabilmente a Merano non ci sarebbe stata nessuna cerimonia. A distanza di 25 anni ritengo che sia però anche necessario guardare avanti e considerare che oggi la composizione della società locale sia radicalmente diversamda quella nella quale fu pensato e scritto il Secondo Statuto di autonomia. Allo stesso tempo le condizioni internazionali, dopo il breve periodo dei muri populisti, suggerirebbero uno sguardo al futuro diverso da dibattito emerso durante la Convenzione per la riforma dello Statuto.

Wed, 06/14/2017 - 23:48 Permalink