Culture | 5. FRIEDENSFESTIVAL BERLIN IN ALEXANDERPLATZ

La fisarmonicista di Auschwitz e il Centro per la pace

Il modello bolzanino come stimolo per la creazione di un Friedenszentrum a Berlino. A 80 anni dall'avvento di Hitler.
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Foto: Archiv: rhd

Esther Bejarano ha cantato la libertà. Sulla voce tremolante di una sopravvissuta si è chiusa la quinta edizione del Friedensfestival Berlin in Alexanderplatz. Settant'anni fa la sua fisarmonica copriva il chiasso di Auschwitz. Ora è rimasta soltanto lei a ricordare l'orchestra femminile del campo. Gli altri non ci sono più. I suoi occhi hanno visto ciò che non era possibile vedere: «Avevamo il tristissimo compito di suonare la musica d'accompagnamento del genocidio. Stavamo seduti sulla porta d'ingresso, sotto la grande scritta: Arbeit macht frei. I treni arrivavano colmi di ebrei da tutta l'Europa. Il nostro binario aveva la forma dell'inferno. Portava dritto alle camere a gas. Noi sapevamo benissimo la fine che attendeva questa gente, ma gli uomini e le donne che transitavano su quei treni sentivano la musica e si dicevano l'uno l'altro: “Beh, dai, con questa bella musica non deve esser poi così male questo luogo”. Li vedevamo passare lenti accanto ai nostri strumenti e poi sparire per sempre». 

A 89 anni la Bejarano sale ancora sui palchi del mondo insieme al figlio rapper e agli altri musicisti del gruppo Microphone Mafia. Canta le sue canzoni contro la guerra, i suoi ricordi dei massacri, le immagini della spietatezza: «Dove ieri giocava il bambino oggi c'è solo l'immagine della morte / dove ieri splendeva il sole, oggi c'è solo una luce opaca: rossa e nera». 

Insieme alla coordinatrice del festival, Ina Edelkraut, la fisarmonicista di Auschwitz si è chinata fra i sassi dipinti da alcuni artisti iraniani e ha piantato l'albero simbolico di Berlin, Stadt des Friedens. «Ottant'anni dopo la presa di potere di Hitler e l'inizio della tempesta europea – si è letto nel messaggio inviato dal festival ai rappresentanti delle istituzioni locali – auspichiamo la nascita di un centro per la pace cittadino che possa rappresentare le istanze dei popoli del mondo affinché una  nuova storia di nonviolenza e di giustizia internazionale possa crescere nel cuore dell'Europa trasformando le vecchie pulsioni di violenza in nuove vie di riconciliazione e di pace». 

L'ispirazione per questo “sogno” berlinese è venuta a Ina Edelkraut dopo aver conosciuto il Centro per la pace di Bolzano: «A Berlino – ha detto la Edelkraut al ritorno da un incontro con il sindaco Luigi Spagnolli nel marzo scorso per programmare i lavori della prima conferenza internazionale di donne israeliane e palestinesi nel dicembre del 2014 – abbiamo bisogno di un centro come quello di Bolzano dove sia possibile elaborare una cultura della pace e dei diritti umani uscendo dalle vecchie logiche del pacifismo visto solo come una prassi di militanza politica a base volontaristica su cui si fonda per la gran parte il pacifismo tedesco, e costruire delle buone pratiche di dialogo, di incontro, di mutua fecondazione fra religioni e culture diverse per rappresentare l'orizzonte planetario di un impegno che investa tutti i campi del sapere, da quello artistico a quello musicale, da quello letterario a quello filosofico, politico, sociale». 

Durante le giornate del Friedensfestival il Centro per la pace ha avuto i suoi spazi di rappresentanza sulla tribuna principale sia nel racconto delle attività svolte nel corso della sua storia oramai decennale, con la presenza del coordinatore attuale Luca Sticcotti e della collaboratrice Valentina Biasi, sia nella discussione conclusiva dove si è parlato di come il centro per pace possa stimolare, anche formalmente, la nascita di un centro analogo a Berlino.

Ma l'Alto Adige quest'anno non era presente al Friedensfestival solo con il Centro Pace. La manifestazione si è aperta con il racconto di due storie. La prima, tratta dalla versione tedesca del libro di Antonio Riccò – per molti anni dirigente scolastico a Laives e quindi a Merano - Tariqs Auftrag. Ein Flüchtling aus Afghanistan, la drammatica storia di un bambino afghano morto sotto le ruote di un Tir dopo aver cercato la fuga in Italia. La seconda tratta dal libro Komak Komak - la traduzione tedesca della vicenda, finita positivamente, di Alidad Shiri, il ragazzino afghano giunto in Alto Adige attaccato al semiasse di un tir - scritto in collaborazione con la sua insegnante Gina Abbate, anche lei presente fra gli oratori del Friedensfestival di Berlino.  

Dopo 80 anni dall'avvento di Hitler la Germania si interroga sulle sfide di una capitale non solo economica e finanziaria, ma città davvero città della pace. Per quattro giorni la piazza simbolo di Berlino si è riempita di stand, di colori, di musica, di folclore e di discussioni sugli scenari di conflitto aperti sul mondo. 

Mercoledì, sempre nell'ambito delle iniziative del Friedensfestival, le due orchestre giovanili di Berlino e di Auschwitz terranno un concerto nella Gedächtniskirche, la chiesa del ricordo, distrutta dalle bombe della guerra. 

Ottant'anni dopo la nuova Europa riparte da Berlino. Per dire: mai più!