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Foto: Artribune
Society | Vorausgespuckt

Strappi nella memoria

Quando ricordiamo qualcosa in genere dimentichiamo qualcos'altro. Il caso della costruzione dell'identità nazionale, quasi sempre edulcorata, ne è un esempio istruttivo.

La memoria, come un telo, si può usare per avvolgerci diverse cose. Una di queste è l'identità di un popolo o di una nazione (sia “popolo” che “nazione” sono termini tutt'altro che privi di oscurità, ma per non appesantire quanto sto scrivendo li lascerò sussistere senza ulteriore specificazione). La memoria è come un telo, dicevo, ma al pari di un telo può essere strappata, e chi se la butta addosso (o chi ne tesse i filamenti, ancor prima) tende spesso a occultare gli squarci che non conviene esibire.

Esibizioni e occultamenti rivelano molto di noi. L'inizio della settimana ha visto un profluvio di ricordi inerenti alla vittoriosa impresa spagnola della nazionale italiana (luglio 1982). Sbucavano da ogni parte, quei ricordi, a commento di una riesumazione di partite e gesta narrate soprattutto dai protagonisti: Zoff, Gentile, Cabrini... Per chi nel frattempo è morto (Gaetano Scirea, Paolo Rossi) si è ricorso ai familiari. Il refrain unanime: che gloriosa impresa, quarant'anni fa! E via col rondò di immagini: Pertini e la sua pipa sulle tribune del Santiago Bernabeu, Enzo Bearzot portato in trionfo come Vittorio Pozzo, il giro di campo con la coppa, l'urlo di Tardelli, il Brasile più forte di ogni tempo (asserzione generosa) battuto, la Germania del cattivissimo portiere Harald Schumacher spezzata (abbiamo spezzato le reni alla Germania). Rivisto tutto, ricordato tutto? Macché. Nessuna allusione, ecco il primo strappo, a quanto avvenne nel girone eliminatorio che precedette i giorni abbaglianti di luglio: uno striminzito pareggio (1 a 1) con il Camerun, forse addirittura comprato. Della cosa se ne occuparono due giornalisti coraggiosi (Oliviero Beha e Roberto Chiodi). Inutile dire che non ricevettero pacche sulle spalle. Oggi solo i guastafeste citano la loro inchiesta.

Un'altra data che sarebbe utile commemorare è quella del 13 luglio 1920. In quella data, a Trieste, venne infatti dato alle fiamme il Narodni Dom (Casa della Cultura slovena), che segna – sono parole di Renzo De Felice – “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”. Anche in questo caso si tratta di fatti largamente occultati da chi, al contrario, ha intessuto gran parte della narrazione inerente le vicende del confine orientale esclusivamente sulle “foibe” e la presunta “persecuzione etnica” compiuta dagli slavi sugli italiani (si veda il testo che istituisce il “Giorno del Ricordo”). Opportuno quindi correggere la prospettiva (vale a dire allargarla) riferendoci per esempio a quanto ha testimoniato l'autore triestino (sloveno) Boris Pahor, recentemente scomparso, in molti suoi interventi e opere, da ultimo in un libro autobiografico meritoriamente ristampato (in una nuova edizione ampliata) da La nave di Teseo. L'incendio del Balkan (com'è altrimenti noto) fu un episodio cruciale nel processo di repressione delle minoranze poi perfezionato dal fascismo, ed è molto significativo scorgere tra i suoi protagonisti quel Francesco Giunta che, dopo Trieste, replicò anche a Bolzano (nel 1922) la medesima orrenda azione conculcatrice. Ma quanti sono quelli che si ricordano di Francesco Giunta e del suo odioso nazionalismo?

Avrei un'ultima data, un'altra ricorrenza da segnalare. L'undici luglio del 1995, a Srebrenica, venne eseguito un massacro da parte delle truppe Serbo-Bosniache - agli ordini del comandante Ratko Mladić - ai danni della popolazione civile che si trovava in quella città. Morirono più di 8000 persone, poi seppellite in fosse comuni. Tragedia immane, resa possibile anche dallo sconcertante comportamento delle cosiddette forze di interposizione dell'ONU (caschi blu). Consigliabile la visione del film Quo vadis?, Aida, nonostante la semplificazione. Per chi non si accontenta delle semplificazioni, invece, ai fatti di Srebrenica, e più in generale ad alcune storie che hanno a che fare con le recenti guerre nella ex Jugoslavia, dedicò qualche anno fa un bellissimo volume Luca Restello (La guerra in casa). “Nella zona di Srebrenica i segni erano già tutti nell'aria [nella] primavera del 1992, ma nessuno voleva vederli”, scrive a un certo punto. Non vedere segni premonitori assomiglia molto, giocando di anticipo, al meccanismo che ci porta ex post a nascondere gli strappi della memoria, quando cioè ci accingiamo a costruire la nostra identità mutilando quella altrui, o dimenticando volutamente gli aspetti sgradevoli che potrebbero nuocere alla consolatoria, autoassolutoria edificazione della nostra immagine.