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"Ruzante? Non potevo che farlo io"

Il grande attore comico Natalino Balasso da giovedì in scena con la sua riscrittura del grande classico. "Oggi chi denuncia gli artisti è un cretino".
Natalino Balasso
Foto: Salto.bz Fabio Gobbato

Per noi pubblico Natalino Balasso è un comico, un autore, un attore, uno scrittore, un regista.  Lo abbiamo visto in televisione, al cinema, su YouTube, lo abbiamo ascoltato anche alla radio.

Per Natalino Balasso il suo (vero) mestiere è il teatro. E’ lì che ha iniziato la sua carriera ed è lì che ama più di tutto lavorare. Perché il teatro è sì filosofia, ma è anche carnalità, passione, vibrazione, quella parentesi in cui tutto diventa vero per il tempo esatto in cui dura, in un atto d’amore verso il suo pubblico. Un pubblico che ha da divertirsi, emozionarsi, lasciandosi andare nelle trame di quel proprio linguaggio.

In questa stagione di ripresa Natalino torna sul palco di piazza Verdi a Bolzano da giovedì 25 a domenica 28 novembre, con un suo progetto meditato da lungo tempo, prodotto dal Teatro Stabile.  “Balasso fa Ruzante. Amori disperati in tempo di guerre” nasce dall’intreccio di una selezione di testi tratti dall’opera di Angelo Beolco, attore e commediografo padovano del Rinascimento, famoso per aver dato vita al personaggio di Ruzante, appunto, un contadino padovano ruspante, famelico e poltrone.

Balasso riscrive Ruzante (Beolco), Balasso interpreta Ruzante, Balasso e Ruzante (Beolco) usano la comicità come solo i poeti (colti) sanno fare.

Salto.bz: Parto con l’ammettere di aver dovuto studiare per prepararmi a questa intervista, infatti conoscevo poco (o nulla) di questo Ruzante, autore del ‘500 che contro le tendenze del tempo scrive nella lingua dei contadini padovani, una lingua anche un po’ inventata…

Natalino Balasso: …la lingua dei contadini ingrossata, anche per ottenere l'effetto comico, perché lui comunque era un uomo di corte.

Inizialmente si pensava che non fosse un uomo colto, ma in realtà LUI era un intellettuale, un curioso..

Certo, e quando diciamo LUI, intendiamo Angelo Beolco. Ruzante è il personaggio, che poi spesso il personaggio viene identificato con il creatore. Come succedeva con gli Arlecchini, con la Commedia dell’Arte.

Una curiosità è la sparizione di Ruzante dalle scene, dopo il grande successo in vita scompare per più di tre secoli per rinvenire a fine ‘800. Forse complice dell’insabbiamento fu la corrente della Controriforma, che certo non vedeva di buon occhio un autore satirico - il primo - che con un linguaggio reale, raccontava della vita vera.  Tu lo riprendi e lo riscrivi. Perché sei andato a ripescare proprio Ruzante?

Ma stai scherzando? Ruzante, in Italia, chi lo può fare se non lo faccio io? Non lo fa nessuno, è ovvio. Non potevo che finire a fare Ruzante. Vent'anni fa Marco Paolini mi disse “Tu devi fare Ruzante”, me lo disse anche Gabriele Vacis. Ho aspettato di avere 60 anni, magari se lo facevo 40 anni era meglio, nel senso che sarei meno stanco alla fine dello spettacolo, però è una cosa che dovevo fare prima o poi.

La sua però è una lingua morta, come faremo a capirlo?

Per me è l'inghippo sempre la lingua, perché il pubblico teatrale è peggiorato molto. Negli anni ’60-‘70 si recitavano commedie in dialetto in giro per l'Italia. Govi recitava in genovese in qualunque regione, qui veniva Eduardo e la gente aveva fatto l'orecchio a quelle musicalità. Goldoni si è sempre fatto dappertutto in veneto, però adesso, se si vuole fare Goldoni, si traduce e si traduce anche Eduardo. E’ che metà del pubblico si rifiuta di entrare nei linguaggi teatrali, perché sempre di linguaggi teatrali si tratta,  che siano più o meno costruiti, e quello è un altro discorso, però vale sempre che la lingua teatrale è una lingua, nella quale entri piano piano, in teoria potresti anche ascoltare una commedia straniera, ma non voglio dilungarmi in questo. La verità è che è normale che si traduca, perché oggi certi autori non si capiscono più. Ruzante men che meno, perché la sua è una lingua che ormai la gente del posto non capisce più, non si parla più. E’ un dialetto molto antico, e io non l'ho solo tradotto. Ho voluto che l'italiano che parliamo in scena fosse un fiorentino, che in qualche modo alle persone dia l'idea di una lingua antica, quindi è scritto in una lingua antica in cui ho inserito dei venetismi, una terminologia, determinate espressioni che ho filtrato attraverso un testo molto interessante, che è il diario di Antonio Pigafetta, un navigatore che ha viaggiato tanto coi genovesi, ma che è vicentino. Lui scriveva in fiorentino, ma con molti venetismi. Non ho messo quindi delle parole che in qualche modo evocano il veneto e che posso venire in mente a me, ma ho inserito dei termini che potevano venire in mente a uno del Cinquecento, in modo che la gente capisca quello che diciamo, ma è anche convinta di stare ascoltando una una lingua antica. Il teatro è finzione ed è anche inganno.

Quando in teatro le luci si spengono, nulla è più vero. Quindi è ridicolo denunciare gli artisti. Chi denuncia gli artisti è un cretino, perché non ha capito questo patto.

Menato, l’amico di Ruzante, ad un certo punto gli dice proprio “Con voi il vero diventa falso e il falso verità, come a teatro”

Oltretutto questa cosa parla del patto che c'è nell'arte e che oggi si sta dimenticando. Quando noi vediamo un politico o un prete, o qualcuno che si offende e vorrebbe denunciare degli artisti che propongono delle cose, ha annullato quel patto lì. Il patto è: sul palco è tutto finto, non è vero niente. Nel momento in cui si accendono le luci, è tutto vero, ma solo in quel momento. Quando le luci si spengono, non è più vero. Quindi è ridicolo denunciare gli artisti. Chi denuncia gli artisti è un cretino, perché non ha capito questo patto.

Natalino Balasso racconta il suo "Ruzante" Parte 1, per salto. bz

 

E quindi se è anche vero che comunque il teatro deve parlare ai suoi contemporanei, Ruzante e i suoi temi, la miseria, la guerra, le passioni, come li riproponi?

Tu mi stai chiedendo se io faccio una roba di teatro contemporaneo, quelle cose che piacciono tanto adesso, oppure no?

No, sto chiedendo quale guerra diventa, per esempio, la guerra da cui Ruzante soldato torna impoverito, debole, malmesso.

Sicuramente ogni opera parla ai suoi contemporanei, anche quando non vuole. Anche quando ti metti in testa di fare paro paro una tragedia classica, come lo facevano i classici, quindi con tutti fermi che parlano al pubblico per tutta la sua durata, quindi sei ore - diciamolo pure, una rottura di coglioni - comunque tu regista, con questa roba, stai raccontando qualcosa.  Probabilmente mi stai raccontando che hai un'angoscia dentro e che devi far soffrire gli altri per sentirti meglio tu.

A me piace fare la commedia, a volte mi capita di fare anche testi seri, ma non mi piace, e chi fa la commedia ovviamente deve lavorare sul contemporaneo. Io non posso far ridere o comunque divertire o comunque raccontare un momento gioioso ai contemporanei, se non parlo una lingua che loro capiscono e se non gli dico delle cose che loro in qualche modo possono percepire. Ora, però, se noi parliamo di guerra, sappiamo tutti cos'è. Anche chi non l'ha fatta, anche chi non ha combattuto nel Cinquecento, conosce magari un'altra guerra, magari delle altre cose, quindi per forza devi parlare ai tuoi contemporanei, lo devi fare come tecnica. Però, al di là di questo, a me piacciono quelle cose che in qualche modo posso vivere. Il teatro peraltro è l'unica forma d'arte che prevede contemporaneità di viventi. Io posso fare il pittore famoso anche da morto, ma non posso fare l’attore di teatro da morto. Non sono più un attore quando sono morto, in teatro, invece sono ancora un attore di cinema. Quando poi riprendiamo il teatro e lo facciamo vedere, e abbiamo questi archivi video del teatro, quello già è diventata una “cosa”, non è più teatro. E’ diventato una cosa morta. Magari io vedo un filmato di Totò, mi diverto, mi fa ridere Totò, ma non può essere teatro quella cosa lì, perché non siamo io e lui contemporaneamente nello stesso luogo, non respiriamo la stessa aria e non percepiamo la stessa identica cosa in quel momento. E allora, ecco perché il teatro non può che essere contemporaneo. Mi fa ridere oggi una definizione di teatro che si chiama “teatro contemporaneo”. E’ un tipo di teatro, diciamo, che nasce credo negli anni 90-2000, forse più tardi, non so. Comunque ha degli stilemi, delle proposte, ma, Che senso ha? Il teatro è tutto contemporaneo, sempre, e se sei vecchio, fai teatro vecchio, ma un teatro vecchio contemporaneo.

 

Quindi cosa significa tradurre?

Ruzante ha degli universali, come anche Aristofane…come fai a tradurre Aristofane? Io non credo che tu possa prendere Aristofane e dire: Se quello era lo schiavo che rubava il cibo, allora io faccio la donna delle pulizie che si ruba il bracciale. No! Per me non è così che si traducono le cose. Una volta ho visto una rappresentazione de “Il Ventaglio” di Goldoni e invece del ventaglio c'era un affarino di quelli con l’elica, sai quei ventilatori con l’elica? Cioè, secondo te, quella è la modernizzazione del ventaglio? Siamo sicuri? Attenzione! Forse il cellulare o una borsetta. Quello che rappresentava il ventaglio nel Settecento era un modo per comunicare ed era un modo per atteggiarsi delle ragazze, quindi cos'è? E’ un oggetto erotico. Quell’affarino lì ce l’hanno i camionisti, forse nelle serate di prostituzione, quelle a Parigi, ma insomma, non possiamo modernizzare in questo modo. E’ un affronto all'intelligenza che facciamo. Io credo che gli universali siano molto più potenti di quanto noi crediamo. Il sottotitolo dello spettacolo ti dice tutto, cioè “Amori disperati in tempo di guerre”. Dovrebbe essere Nada a farci la sigla! Noi raccontiamo gli amori disperati, ma in tempo di guerre. E allora è chiaro che io non rappresento una società contemporanea, anche se voglio parlare ai contemporanei. La donna che vediamo, che è la bravissima Marta Cortellazzo Wiel che fa Gnua - un personaggio che riassume molti personaggi femminili, tra cui anche la Betía - ecco, la Gnua non è solo una donna contesa, cioè, non ci sono solo due uomini, di cui uno se la vuole portare a casa, l'altro anche, e lei, a seconda, decide. Ma è anche una donna combattuta tra l'amore che esiste, e che esisteva anche in tempi di schiavitù sessuale, perchè la femmina nel 500 vive in tempi di schiavitù sessuale, se non è nobile, chiaro, perchè i nobili fanno sempre quello che vogliono. Ma è una contadina e una contadina - poi verrà raccontato nello spettacolo - cosa può fare? Non può vivere da sola, deve cercare una protezione, esce dalla protezione del padre e deve trovare la protezione di un uomo. Ma lei è combattuta tra questo canone che le impone la società in cui vive, e l'amore che lei sente, perché comunque è una donna, comunque è un essere umano. In tutte le epoche gli esseri umani hanno amato e quindi lei si innamora. E ti domandi, Perché si innamora, perché ha bisogno? L'inghippo è sempre quello. L'amore e il sesso è sempre bambino, quando si è innamorati, quando c'è il sesso, si è bambini e lei a un certo punto deve ammettere di diventare una donna. E allora, certo che c'è il sesso, certo che c'è quello che noi chiamiamo amore, ma non c'è più la gioia, non è gioioso, la felicità diventa un'altra cosa, filtrata attraverso dei meccanismi intellettuali. Per questo abbiamo differenziato le cose, anche Ruzante racconta di luoghi diversi. Quindi all’inizio, nell’amore bambino, abbiamo il pavano, le campagne del pavano. E abbiamo tre personaggi, Ruzante, Menato – interpretato da Andrea Collavino – la Gnua, che sono tre bambini innamorati, e amanti, sono stati tutti amanti di tutti. La Gnua che si ricorda di come è nato l'amore, però vuole Ruzante, perché c'è un eros potente. E quindi nudi nei pagliai, il pelo… che adesso non c'è più, non esiste più il pelo e non capisco perché!  Adesso lo chiedo all’unico uomo qui presente (Fabio Gobbato al video) “Le ascelle,  perché una se le deve depilare?”

Ecco perché si va d’estate nudi come vermi, con l'olio, tutti depilati, è perché ci vergognamo di essere animali! Invece l'amore è animale.

Anche gli uomini adesso lo fanno…

Ma lasciamo stare questo aspetto! Però, che le donne vogliano sempre qualcuno che gli somigli, questo è chiaro. Ecco perché si va d’estate nudi come vermi, con l'olio, tutti depilati, è perché ci vergognamo di essere animali! Invece l'amore è animale.  Comunque poi c'è un secondo frangente, quello in cui arriva la guerra, in cui i protagonisti scoprono di non essere più bambini. Quel campo che lavorano non è loro, ma di un vescovo; poi ci sono gli zingari, gli zingari rubano i bambini, bisogna stare attenti, loro non ne hanno di bambini, ma bisogna stare attenti lo stesso; e poi ci sono altri tipi di contrasti, per cui l'incontro con l'altro diventa conflitto e quello è il momento della guerra.

Infine c’è il momento di Venezia, che io ho rappresentato riprendendolo da “Parlamento del Ruzante che torna da campo”, ovviamente tutto rivisto e riscritto. E Venezia gia nel Cinquecento è città di mercanti, infatti chi va a rifugiarsi a Venezia nel Quattrocento, quando nasce? I mercanti del Friuli, i padovani che hanno fondato Rialto, l'isola di Rivo Alto, con una mentalità diversa dal contadino, che ha comunque delle mentalità molto rigide, però in più ha anche paura degli dei, ha paura che, come dice Asterix, il cielo gli caschi sulla testa. Vedremo quindi queste tre persone cambiate, vedremo un ambiente diradato, vedremo questi fantasmi. Ruzante quando ci arriva non sa neanche se è vivo, così come ne il “Parlamento del Ruzante che torna da campo” pensa “E se fosse un sogno? Beh no, ho preso la barca, non può essere un sogno! E se invece sono morto? Se sono morto sono uno spirito che vaga, ma gli spiriti non hanno fame e io ho fame!”. Insomma, cerca di aggrapparsi alla concretezza e forse è l'unico che è rimasto. E infatti è rimasto indietro. E’ rimasto bambino, ha ancora questa attrazione forte per la Gnua, ma scopre che tutto è cambiato. Anche Menato è andato a Venezia, sono tutti nella città e hanno un altro modo di parlare, quasi un modo “sustoso” come direbbe Ruzante.

Semba uno smarrimento drammatico…

Credo che nel finale tutto il pubblico piangerà e dirà “Perché abbiamo dimenticato di quando eravamo bambini?”

Quindi ci sono tre personaggi che rappresentano altrettanti tre momenti.

Ecco, potremmo anche definirle tre età della vita, perché l'infanzia è l'età dell'erotismo, l'adolescenza è l'età della lotta, del combattimento, della guerra. E poi c'è la maturità, che pur essendo lunghissima, per chi è vecchio vola via in un lampo. E questo momento è un po’ cinico, in cui da vecchi si rimproverano i giovani per cose che si facevano da giovani.  Volutamente dimentichi che sei stato giovane. Ma cos'è la tua? E’ chiaro che è invidia. Vorresti impedire ai giovani di vivere la gioia dell'erotismo. Guarda la musica dei giovani, è tutta piena di suoni grassi e pieni, piena di erotismo.

Prima hai nominato Andrea Collavino e Marta Cortellazzo Wiel, tuoi compagni di palco, mentre alla regia c’è Marta Dalla Via. Con loro hai già lavorato in passato, immagino non sia un caso.

Sì, e sono contento. Ostamente io non vorrei più lavorare con gli Stabili, nel senso che non lavoro più a progetti che qualcuno ha e che mi vorrebbe come una pedina di “sto progetto” solo perché il mio nome va a coprire una fascia di pubblico. Non mi interessa. E invece adesso faccio questo lavoro. Intanto ho trovato un direttore illuminato e giovane, guarda caso. E non è un caso.

Forse anche lui è un po' bambino..

E’ tanto bambino! E dice “Io sono il direttore, sono il manager di questo posto. Tu sei l'artista, adesso ti devi fare il c* tu! Io ti do la possibilità di fare un progetto, io ci credo, ma tu dammi la possibilità di crederci.”. Questo è quello che voglio io, ed è la sfida che mi piace. Quindi faccio un progetto che ho pensato io, e oltre tutto lavoro sempre con attori, come anche in questo caso Andrea e Marta - ovviamente c'è la regia di Marta Dalla Via -, che oltre ad essere attori sono anche registi, di conseguenza lo spettacolo viene costruito sempre da quattro persone. E poi c'è anche Luca dé Martini con cui ho lavorato molti anni fa, con un bellissimo spettacolo peraltro, che era “Libera nos” con la regia di Vacis. Ecco, questo tipo di sensibilità mi fa contento, sono contento di lavorare in questo progetto, anche perché sono vecchio, quindi, o faccio le cose che mi fanno contento, se no veramente mollo il colpo, perché non ha senso affrontare un lavoro che deve essere così creativo, che deve metterti così sempre in crisi, come se fosse un lavoro impiegatizio. Non puoi creare la routine della crisi, non esiste. Adesso la stanno creando sanitariamente. Creeremo una routine della crisi, non adesso, ma nei prossimi trent'anni. Questo non lo puoi fare con l'arte, perché sennò facciamo quegli spettacoli dove è tutto cerimoniale, dove la gente va a teatro perché si va a teatro, sono abituati così, che gli attori sono quelli che fanno in quel modo lì, eccetera. Invece no! Bisogna rimanere spiazzati. Io sempre tengo presente che al pubblico gli voglio bene, non voglio fare delle cose pensando “Ah, sei il pubblico! Hai pagato, e adesso ti tratto male, così impari! Perché io sono un artista, sono su un piedistallo lassù, io ho capito tutto e sono più intelligente di tutti, e anche figo ovviamente. E tu invece sei una m*, stai laggiù, sei un pubblico e non ti faccio capire niente.” Ecco, non mi piace questo tipo di atteggiamento nei confronti del pubblico, perché io gli voglio bene. Quindi, questa è una commedia di Ruzante, è chiaro che non è la commedia che pensiamo in maniera classica per cui tutto finisce bene, con i matrimoni eccetera, bisogna parlare un gergo che sia anche, in qualche modo, moderno. Comunque voglio che il pubblico si diverta, e se non si diverte, che si commuova, che abbia un sentimento, non che sia indifferente.S

Su YouTube oltre il 60 percento delle persone di un video di 10 minuti, ne guarda uno. C'è gente che addirittura ne guarda 10 secondi e poi cambia, cioè guarda quella roba lì come se fosse televisione. A me quel pubblico non interessa, preferisco avere meno pubblico, ma vero

Dici di non voler diventare la routine della creatività, e in effetti hai il tuo canale online, il Circolo Balasso. Hai creato un mezzo che permette al pubblico di confermare il gradimento di quello che fai. Pagando il loro abbonamento, le persone aderiscono veramente al tuo modo di lavorare.

Se vuoi ti faccio un ragionamento su questo. Quando metti una roba, un video su YouTube o su altre piattaforme, hai il resoconto di quanta gente ti guarda, se sono vecchi, giovani, donne. YouTube ovviamente lo fa solo su chi è iscritto a YouTube, chi non lo è non risulterà in questa cosa. Però ti segnala per tutti “per quanto tempo guardano un video”. Ebbene, ti assicuro, che su YouTube oltre il 60 percento delle persone di un video di 10 minuti, ne guarda uno. C'è gente che addirittura ne guarda 10 secondi e poi cambia, cioè guarda quella roba lì come se fosse televisione. A me quel pubblico non interessa, preferisco avere meno pubblico, ma vero, piuttosto che milioni di persone finte. Non sono persone che esistono. Non ti è rimasto niente se tu hai guardato una battutina e lo vedo, lo noto anche nei fan, e tu sai che io sono uno che odia i suoi fan. Quando ti fermano e ti ricordano una cosa, e tu pensi “Ma porca miseria, è questa la cosa che più ha colpito te? Veramente?”. Ecco perché questi abbonamenti. Io finora ho avuto 3-4 mila persone, ma che vanno e vengono, non è che uno paga l'abbonamento per 4 anni. Sì, certo, ci sono abbonamenti annuali e adesso questi ovviamente mi obbligano a produrre. Per forza, non è che posso dire “Vabbè, dai, adesso basta”, e no, ti dicono “Vai avanti adesso!”. In mezzo a questi sicuramente ci sono anche persone che lo fanno semplicemente perché dicono “Io amo che ci sia un tipo di arte, che ci sia questo artista qua, e lo sostengo. Forse non avrò tempo di vederlo, però mi piace che ci sia”. Però ti assicuro che, per la maggior parte, invece,  ci sono persone attente, persone che magari non la pensano affatto come me. Oltretutto nei miei video ci sono più cose recitate, ci sono anche molti brani di teatro, che non è teatro mio. Quindi uno può vedere cose di tipo diverse o creazioni artistiche, e altro. Però, questa è l'idea, è se vogliamo essere veri.  E la domanda che ci facciamo sempre è “Il teatro è finto?”. Ma se io vado su YouTube, chi è finto è lo spettatore, perché tu guardi 30 secondi di un video che dura mezz'ora, e poi ti sei fatto anche già un'opinione. E allora tu sei finto e dici cose finte. E’ per questo che noi leggiamo i nostri social e li vediamo pieni di cose finte.

Com’è il tuo rapporto con i social?

Ho letto una cosa, con cui sono d’accordo, che diceva Roberto Mercadini, se non lo conoscete andatelo a cercare. Roberto Mercadini è uno che fa anche spettacoli, non è propriamente un attore, fa spettacoli-conferenze in cui parla di temi diversi. E’ una persona coltissima, non so come faccia a conoscere tutte le lingue che conosce, ti parla della Bibbia in ebraico, cose così, e poi ha degli interessi suoi. Lui diceva sta roba qua “Io non rispondo più a chi cerca di offendermi sul social, perché quello che noi non sappiamo è che ci sono persone, per esempio, che hanno dei problemi veri di salute mentale e finisce che vado a litigare con uno che dice così, perché gli va di dire così e non direbbe comunque diversamente. Sono io, invece, che dovrei evitare. Magari un bambino di 10 anni oggi scrive su un social, ma tu come lo vedi che è un bambino di 10 anni? Se mette una foto di un cane, come lo vedi? E ti metti a litigare con un bambino di 10 anni, questo succede. Allora, è finto! Per questo io dirò sempre che il mio mestiere è il teatro, perché sono per la carnalità, per le vibrazioni, per i contatti fisici, perché questa cosa in cui cercano di imbrigliarci… come anche noi adesso, noi adesso abbiamo un contatto fisico, ma presto saremo invece dei file. Tutti stanno cercando di farti credere “Guarda che la realtà è quella là, è quella del file, non è quella di noi che siamo qui adesso con queste sedie, con questi colori pastellati, peraltro molto belli, questa roba un po’ scomoda (divanetto) dove mi avete seduto, che mi obbliga a parlarti con una certa aggressività, ma non per me, è la sedia! Ma questo sul file non apparirà mai, e allora questo dico, stanno cercando di farci credere che la DAD è la scuola, che lo streaming è il teatro, stanno cercando di farci credere che la virtualità sarà il futuro. Non è così, non è così. Dobbiamo reagire a questa cosa! Sappilo, noi siamo dei carbonari. E’ per questo che faremo l'amore in diretta, durante questa intervista. Soltanto per far capire che esistiamo veramente! E poi chiamiamo anche la Gambino (Barbara, Ufficio stampa del Teatro Stabile) e anche te (Fabio Gobbato al video) perché vedo che sei prestante.

Che posto ha la poesia nella tua comicità?

La comicità è poesia. Io adoro la poesia e se intendiamo la poesia come quello scritto che si differenzia dalla prosa, io l’adoro. Avrò consumato Prévert da giovane non so quanto, i poeti antichi, anche la poesia moderna. Io adoro leggere le poesie. Mi sono innamorato di un poeta, di cui per me si parla poco, purtroppo, ma che invece dovrebbe avere un posto e che si chiama Gilberto Centi. Abitava a Bologna ed è morto tempo fa. Ha scritto poesie meravigliose che nascono sull'onda degli anni 80-90. Adoro chi sa mettere in fila le parole. Questo è il poeta. Le parole che scrivono i poeti le conosciamo, le usiamo anche noi tutti i giorni. Noi però non riusciamo a metterle in fila come fanno loro. E questa è un'arte, ed è magnetismo. Magnetismo è quando tu metti in fila le cose giuste, per questo è difficile. E quando un poeta ha sofferto, intendo dire, quando è andato in crisi scrivendo una poesia, lo percepisci, perché ogni parola ti sembra ragionata. E’ ovvio che ogni lingua parla al suo presente, quindi se leggo Arrigo Boito “Dualismo”- una poesia che adoro e che dovrebbe essere un manifesto dell'arte anche se parla della realtà - la metrica, la rima, quel tipo di parole ti riportano a epoche precedenti, ad altri secoli. Però a volte si riesce a superare anche questo piccolo ostacolo per arrivare a immaginare come quelle parole siano state pensate, soprattutto se sono secoli vicini a noi. Però noi leggiamo molte cose anche tradotte, e qui diventa un po’ diverso. Sentivo ad esempio della gente che protestava, perché c'è chi traduce Eduardo, eppure non dice niente quando vede Shakespeare in italiano. Voglio dire, o non si traduce niente o si può tradurre tutto quello che secondo noi va tradotto.

Avrei un'ultima domanda.

Si, anche perché devo tornare alle prove, devo magnare!

Parliamo di stili. Dei Maneskin, è meglio Damiano in reggicalze o suo fratello alla Cugini di Campagna?

Allora, guarda, intanto è la prima volta che so che ci sono due fratelli. Questi non so neanche chi ca**o siano, a me poi X Factor non piace. Anzi, poi un giorno parleremo di questa roba delle competizioni, che già negli anni 70, quindi 50 anni fa, Piero Ciampi diceva che questo paese è diventato tutto un festival canoro. Però lasciamo stare. Questa cosa dei Maneskin e il modo di vestire, quello che mi stupisce è la gente che si stupisce. Tra l'altro, se guardi le foto, è vero che i Cugini di Campagna si vestivano così. Ecco, ai Cugini di Campagna vorrei anche dire “Avevate un altro tipo di corpo, questi Maneskin invece mi sembrano ben fatti.” E’ chiaro che se vuoi parlare far parlare un po di te…ti ricordo però che quella volta che Al Bano citò in giudizio Michael Jackson per avergli copiato una canzone e tutti deridemmo Al Bano, lui vinse la causa contro Michael Jackson, che arrivò in Puglia a questo processo, me par de sì, non è che seguo molto queste cose!