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Foto: Adnkronos
Culture | Vorausgespuckt

Il marchio della sudtirolesità

Provenire da un certo luogo dona colore e carattere a ciò che scriviamo, ma talvolta può risolversi in una trappola dalla quale diventa poi impossibile uscire.

Il titolo di questo mio articolo è un calco, ho apposto solo l'ultima parola (“sudtirolesità”) a quella originaria (che era “napoletanità”), dato che il modello al quale mi rifaccio è un testo di Raffaele La Capria contenuto nella raccolta “Il fallimento della consapevolezza” (Mondadori 2018).

È necessario sottrarsi alla tirannia del marchio

Avrei voluto scrivere già su La Capria in occasione della sua morte, avvenuta poche settimane fa. Scrivere a ridosso di una morte non è come trattare dello stesso tema un po' di tempo dopo. Infatti questo non è un annuncio e neppure una commemorazione (e non che La Capria non meriti una commemorazione, anzi). Adesso mi interessa però riflettere su di lui da un'angolazione del tutto peculiare, e la sostituzione della parola nel titolo me ne dà, per l'appunto, l'opportunità. È altresì chiaro che non intendo tracciare qui alcun parallelismo tra “sudtirolesità” e “napoletanità”, visto che i due contesti sono assai distanti (anche se con un treno veloce le due città sono ormai reciprocamente raggiungibili in poco più di sei ore). Il focus va dunque posto altrove, vale a dire sulla tirannia di quel “marchio" , da La Capria definito per questo come inesorabile.

Quando provenienza e valore si risolvono in un unico tratto

Che cos'è, dunque, un “marchio inesorabile”, e perché può risultare tanto fastidioso? Un marchio è qualcosa che imponiamo (o che subiamo) al fine di raccogliere svariati fenomeni in un'unica categoria, corrisponde a un insieme che riduce la molteplicità, finendo per schiacciarla. Nel campo della scrittura, l'ambito al quale si riferisce La Capria, non è importante se x, y e z sono scrittori con una loro precisa poetica, con uno stile differenziabile: già per il fatto di venire da Napoli, si tratterà in fin dei conti di scrittori napoletani, e questo già è sufficiente per individuarli. Se poi però si volesse definire meglio in cosa consista questa “napoletanità” che annienta le altre differenze, sostiene ancora La Capria, ci troveremmo probabilmente a che fare con una serie di cliché e di semplificazioni immiserenti. Quindi questi scrittori non andrebbero “omologati”, non dovrebbero essere messi tutti “nello stesso sacco”. Ora, se ci pensate, anche qui da noi accade qualcosa del genere. Prendiamo Joseph Zoderer, Sepp Mall, Sabine Gruber, Alessandro Banda o Enrico De Zordo: più o meno la prima cosa che si dirà è che si tratta di autori “sudtirolesi” e questo dovrebbe bastare a contrassegnarne il valore (come se, estremizzando, provenienza e valore si risolvessero in un unico tratto).

Quando questo capita il mio primo impulso è di fuggire

Anch'io, per quanto riguarda la mia infima e trascurabilissima reputazione di “autore”, sono stato spesso percepito alla stregua di un “rappresentante” di questo posto, cioè del Sudtirolo, e ogni tanto vengo persino contattato da giornalisti di altri luoghi che mi interrogano su come si vive qui, che tipo di problemi abbiamo, come potremmo risolverli e così via. Quando questo capita il mio primo impulso è quello di fuggire, di dire: ma io che ne so, perché devo parlare sempre del luogo in cui abito, perché mi devo confrontare con dei problemi che neppure più sento e che forse nessuno più sente (il bilinguismo insoddisfacente, le pulsioni secessioniste, il disagio degli italiani, il malcontento dei tedeschi, la trasparenza dei ladini...)? Basta, mi verrebbe da aggiungere, parlatemi d'altro, parliamo d'altro, io sono anche altro, ognuno è anche e forse (anzi: sicuramente) soprattutto altro. Se x è uno “scrittore sudtirolese”, anche se scriverà (e come non potrebbe?) cose ambientate qui, il fatto di essere “sudtirolese” non dovrebbe continuare ad avere una rilevanza così “inesorabile”.

Un buon testo funziona ovunque, anche tradotto

Torno in conclusione a La Capria. Nel suo romanzo più famoso (“Ferito a morte”, pubblicato nel 1961 e vincitore del Premio Strega), proprio nella pagina iniziale, nuota (è il caso di dirlo) una metafora di vasta portata. Il protagonista immagina (anzi, sogna) di inseguire una spigola, che vorrebbe infilzare con il fucile subacqueo. Si tratta della Grande Occasione, ma un attimo d'indecisione gliela fa mancare. Ora, leggendo il libro – che sì, è ambientato a Napoli, parla anche di Napoli eccetera – la metafora della Grande Occasione mancata segue un suo proprio sviluppo, si declina in varie forme, delle quali quella inerente l'ambientazione (Napoli come luogo delle occasioni mancate) non è certo l'unica possibile. Il volume prende così un respiro più vasto, direi esistenziale, universale, e quindi può essere letto benissimo sia da chi ha i piedi a bagnomaria nel golfo dominato dal Vesuvio, ma anche da chi li tiene in una tinozza di neve sciolta all'ombra delle Dolomiti. Un buon testo (in questo caso un piccolo capolavoro, com'è “Ferito a morte”) funziona ovunque, pure tradotto.

Per citare una celebre battuta tratta dall'ultimo film di Paolo Sorrentino, la cosa più importante non è il contesto dal quale proveniamo, neppure il luogo del quale scriviamo, ma se “teniamo una cosa da dire”, e se questa cosa che abbiamo da dire sia comprensibile a più persone possibili, perché in grado di farsi apprezzare senza essere riconducibile a un marchio inesorabile.