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“Difendere la cultura del castagno”

In Val Venosta molti castagneti antichi rischiano di scomparire per motivi economici: “I ricavi non compensano gli sforzi”.
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Foto: Gianni Bodini

In una soleggiata giornata di fine marzo ho incontrato Franz Winkler nel suo castagneto (Ketschtn-Egart) curato in modo esemplare a Corzes. Anche in questo periodo, benché senza foglie, gli antichi e maestosi alberi lasciano senza parole; alcuni sono persino plurisecolari. Tuttavia, scopro solo parlando con Franz quante cure siano necessarie da parte dell’uomo, per garantire che i castagneti continuino a esistere come “biotopo culturale”.

Innanzitutto, mi spiega che il castagno europeo appartiene alla famiglia delle fagacee e non è, come si potrebbe supporre, imparentato con l’ippocastano. E chi avrebbe mai pensato che ogni dieci alberi innestati ne nasce uno selvatico? E perché accade ciò? “La pianta selvatica contiene più polline”, mi spiega Franz, “e un castagno dà i suoi frutti solo quando due diverse varietà si trovano l’una accanto all’altra”.

Quella tra l’uomo e le castagne è una storia che dura da quasi 3.000 anni. Furono i Romani a diffondere questo frutto in ogni angolo del loro vasto impero. Nel Tirolo, e nello specifico in Alto Adige, i castagni sono stati coltivati a partire dall’XI secolo. Un tempo, anche qui in Val Venosta, questo alimento costituiva una delle fonti basilari di nutrimento. “Allora non si conoscevano le patate. Solo le castagne riuscivano a sopperire, in qualche modo, alle periodiche carestie dell’epoca”.

Sono dei veri matusalemmi

Il castagno ricevette una “spinta finale” durante il regno dell’imperatrice Maria Teresa, che ne promosse la coltivazione nelle terre governate, come il Burgenland, la Slovenia, la Stiria e il Tirolo meridionale. Molti dei castagni piantati durante la sua reggenza, ma anche prima, esistono ancora oggi e contraddistinguono il nostro paesaggio. Sono dei veri matusalemmi!

In Val Venosta, i castagni venivano piantati fino all’altezza di Corzes soprattutto per i loro frutti, mentre nell’Oltradige si praticava spesso la selvicoltura a ceduo. “A questo scopo”, spiega Franz, “i castagni venivano tagliati ogni 20-30 anni. Il motivo è da rintracciare nella viticoltura: per la costruzione del cosiddetto pataune, l’impalcatura del vigneto, erano necessari numerosi pali in legno di castagno”. Naturalmente, questo è perlopiù un ricordo del passato, così come lo sfruttamento dei castagneti per il pascolo e l’ingrasso di animali domestici.

Un bosco come questo richiede cure scrupolose durante tutto l’anno, anche se non si direbbe.

Quando gli alberi sono del tutto spogli, a dicembre, è necessario eliminare la distesa di foglie e ricci che si è formata. “Potrebbero insidiarvisi i parassiti al riparo per lo svernamento”, commenta Franz. Verso fine marzo e inizio aprile, gli alberi vengono concimati: preferibilmente con letame stagionato o, in alternativa, Franz utilizza proprio il pacciame raccolto, ovvero ricci, foglie ed erba, oltre a concimi organici. “In nessun caso si devono usare fertilizzanti artificiali”, spiega Franz, “e tanto meno quelli calcarei”. Anche nei mesi successivi è importante annaffiare gli alberi ogni settimana. Franz mi racconta che per farlo utilizzava un canale di irrigazione di cui, in effetti, sono rimaste delle tracce.

 

A fine settembre e a ottobre, finalmente, il duro lavoro dà i suoi frutti nel vero senso della parola: inizia la raccolta! Giorno dopo giorno, Franz percorre in lungo e in largo il castagneto: “È importante raccoglierle ogni giorno per evitare che si secchino”. Sua moglie Waltraud, che lui chiama affettuosamente Keschtnbäuerin (contadina delle castagne), si occupa della selezione e del confezionamento, oltre che della vendita.

 

Zuppe, ciambelle, torte, cuori, miele… e persino birra!?

 

Oltre al consumo fresco, soprattutto durante il Törggelen (tradizionale usanza culinaria autunnale, NdT), si cucinano una varietà di piatti che hanno come ingrediente principale proprio la castagna. Chi non conosce i deliziosi cuori ricoperti di cioccolato, in tedesco Keschntherz, che dalla fine di settembre adornano le vetrine di innumerevoli pasticcerie e panetterie altoatesine? In molte famiglie si conservano ricettari con pietanze a base di castagne, che vengono tramandati di generazione in generazione, così come accade nella famiglia di Franz. Ma scoprire che esistono anche altre specialità che derivano da questo frutto, come il miele o addirittura la birra, mi ha lasciato davvero a bocca aperta!

 

Cosa riserva il futuro alla castagna in Val Venosta?

 

Al termine delle visite ai castagneti di Corzes e Silandro, un tempo coltivati attivamente e poi abbandonati, parliamo dei rischi per la coltura del castagno in Val Venosta.

Nel 2014, per la prima volta, a Silandro e Corzes è giunto dall’Asia il cinipide del castagno, che causa foglie deformate e mancanza di allegagione, comportando perdite di raccolto talvolta significative. “Nel nostro caso è andato perso il 95 per cento”, si rammarica Franz. Fortunatamente, esiste un’altra specie di imenottero, anch’esso originario dell’Asia, che contrasta il parassita: il Torymus sinensis. “Grazie alla diffusione del suo antagonista naturale, per il momento il cinipide del castagno non è più un grosso problema qui in Val Venosta e in Alto Adige in generale”, afferma Franz. L’insetto salvifico viene allevato in Piemonte e utilizzato dalle autorità forestali al momento del bisogno. Camminando accanto ad alcuni alberi, notiamo che alcuni presentano tracce di cancro corticale. “È causato da una patologia fungina giunta dall’Asia attraverso il Nord America e menzionata per la prima volta in Alto Adige nel 1957”, mi spiega Franz. “Ostruisce i vasi linfatici delle piante, provocando la morte di alcuni rami o talvolta dell’intero albero. Per fortuna esiste un ceppo virulento benigno, che combatte questa malattia”. Non è quindi necessario l’intervento umano: l’albero guarisce da solo.

Nel corso dell’ultimo secolo, per motivi economici, molti castagneti hanno ceduto il passo ad altre forme di coltivazione: la loro cura è dispendiosa e richiede molto lavoro. I ricavi non compensano gli oneri. E così, i maestosi alberi antichi della Val Venosta rischiano di scomparire

La cultura del castagno in Val Venosta è in realtà minacciata da tutt’altre circostanze: nel corso dell’ultimo secolo, per motivi economici, molti castagneti hanno ceduto il passo ad altre forme di coltivazione, poiché la loro cura è alquanto dispendiosa e richiede molto lavoro. I ricavi non compensano gli sforzi. E così, i maestosi e antichi alberi della Val Venosta rischiano di scomparire.”