Economy | Da noi?

Riflessioni dalla Silicon Valley

É difficile confrontare la Silicon Valley con l’Alto Adige, eppure ci é utile per fare alcune riflessioni su come stimolare l’innovazione in un mercato sempre più globale
Note: This article was written in collaboration with the partner and does not necessarily reflect the opinion of the salto.bz editorial team.

Secondo i dati a nostra disposizione non siamo messi male, ma, sapendo che ci aspettano tempi difficili é importante attirare e trattenere le menti e le idee migliori. Per questo motivo dobbiamo chiederci se il nostro contesto regionale sia o possa diventare sufficientemente attraente per chi vuole investire e crescere.

La Silicon Valley é un luogo strabiliante come lo é viverla dopo averne studiato le caratteristiche e i modelli.  E l’innovazione in Alto Adige prende forma anche così: grazie al Fondo Sociale Europeo (FSE) di Bolzano e ai Professori Giancarlo Succi e Alberto Sillitti, del Centre for Applied Software Engineering (CASE) della LUB, che hanno rispettivamente finanziato e organizzato SITE (Summer in IT Entrapreneurship). Si tratta di un progetto rivolto a una ventina di ragazzi, finalizzato a far acquisire loro le competenze necessarie a creare un proprio business e portarlo al successo, confrontandosi con il più competitivo contesto internazionale dell’ Hi-tech. Un investimento pubblico di tale portata su venti giovani introduce il primo dei punti da trattare: il ruolo del pubblico nell’innovazione.  

Iniziamo subito a sfatare il mito sullo sviluppo liberista americano e l’esclusivo intervento pubblico per aggiustare i “fallimenti del mercato”. In realtà, non funziona così. Come ricorda Erik Reinert (2007) gli Stati Uniti sono sempre stati lacerati da due tradizioni, quelle interventiste di Alexander Hamilton e quelle liberiste di Thomas Jefferson. Questo dibattito é stato risolto pragmaticamente, lasciando ai jeffersoniani la retorica politica e agli hamiltoniani la politica economica. Per quanto possa sembrare assurdo, anche fra i democratici più convinti c’é chi ha difficoltà ad ammettere che l’innovazione americana non dipenda esclusivamente dal Venture Capital e da imprenditori illuminati, bensì da investiti miliardari, sparsi tra innumerevoli piccole agenzie federali, basate su “missioni” specifiche o, meglio ancora Pre Commercial Procurement (PCP), tra l’altro caldamente raccomandati anche dalla Commissione Europea dal 2007. Questi particolari tipi di appalti sono importanti nella fase di ricerca e sviluppo (R&S) prima della commercializzazione dei prodotti richiesti. In sostanza le agenzie pubbliche emettono un “pre-bando” in cui si spiega il tipo di prodotto/servizio (la cosiddetta “missione”) e il relativo budget disponibile per quel progetto. L’impresa (o le imprese) che riesce a fornire la soluzione migliore si aggiudica il progetto e la “conoscenza prodotta”. Questa non é, in genere, esclusiva del cliente ma dell’impresa che poi potrebbe riutilizzare quella determinata tecnologia per applicazioni analoghe. In genere si nota come il prodotto finale sia in realtà una sintesi fra diversi fornitori, inizialmente in concorrenza e poi successivamente in partenariato per definire un prodotto ottimale, incrementando il transfer tecnologico e lo knowledge spill-over. In questo modo si ottiene anche una condivisione dei rischi e benefici, rendendo, da un lato, gli incentivi in R&S per i prodotti alla Pubblica Amministrazione più efficienti, e, dall’altro, più utili per il sistema produttivo. Basti pensare, a titolo di esempio, che dal 2009 il Dipartimento dell’Energia ha distribuito più di 13 miliardi di dollari per lo sviluppo di energie pulite (Mazzucato, 2014, 189) per una delle nuove “missioni” del governo federale americano, la rivoluzione verde. Un esempio più lampante é, come ci spiega Mazzucato (2014), l’iPhone: un prodotto composto da tecnologie, non solo esistenti, ma finanziate dal governo federale (principalmente per usi militari), dal  microprocessore allo schermo tattile, dal GPS a Siri.

In poche parole, il ruolo pubblico, nel promuovere l’innovazione, é sempre stato il principale motore nella creazione di vantaggi comparati, anche nello stato liberista per eccellenza. Questo vale anche per l’Alto Adige e da qui si trae la prima “riflessione”: il posizionamento sul mercato competitivo e il focus sulle “missioni” strategiche per lo sviluppo. Da qualche anno sono state focalizzate meglio le nostre politiche di sviluppo, basti pensare al Piano Pluriennale per la Ricerca e l’Innovazione. Ciononostante, l’indirizzo rimane ancora eccessivamente generico. Soprattutto dal 2011, col parco tecnologico, si é acceso il dibattito sui settori strategici per il territorio e, con l’uscita nel 2012 del Piano Strategico per l’Innovazione e la Ricerca si é fatta chiarezza su alcune aree strategiche: Klimahaus e risparmio energetico, Tecnologie alimentari, Tecnologie alpine con l’ICT e l’automation come asse trasversale fra i tre cluster. Eppure ci sono resistenze che rendono questo indirizzo ancora incerto. Per esempio, a oggi non si é ben compreso se nel parco tecnologico sarà incluso il cluster trasversale dell’ICT & automation. Pensare che un cluster strategico, in quanto infrastruttura tecnologica agli altri cluster, possa essere escluso per “mancanza di risorse” fa comprendere come una mentalità poco lungimirante rischi di frenare l’innovazione. In concreto, la normativa sull’innovazione, é sostanzialmente inadeguata alle sfide che ci troviamo davanti. L’economia dell’innovazione, spiega come gli interventi indiretti in R&S siano fondamentalmente inefficaci, da un punto di vista economico, perché non fanno altro che sostenere chi avrebbe investito ugualmente (Mazzuccato, 2014). In altre parole, per stimolare l’innovazione, crediti d’imposta o contributi sono assai inefficienti, perché vanno a chi già investe comunque, non stimolando nulla di realmente nuovo. Sono solo strumenti per supportare l’economia, ma la politica innovativa é un’altra cosa. Il problema sta nell’identificare i settori strategici (il nostro posizionamento competitivo sul mercato) e su quali tecnologie puntare (o meglio ancora, scommettere) per i prossimi 10 anni. Non si ha difficoltà a riconoscere che i miglioramenti sulla legge 14/2007 sono stati molteplici, ad iniziare dai bandi innovazione. Ciononostante, la struttura principale della normativa rimane ancorata ad una logica passata: fai innovazione (quella che vuoi tu) e io do il contributo. Con ciò non si vuole dire che solo i quattro cluster selezionati vanno finanziati e supportati mentre gli altri settori devono “emigrare” ma bisognerebbe avere coscienza di alcuni elementi. Siamo piccoli e quindi non possiamo fare tutto. La competizione é globale, quindi sarebbe opportuno posizionarsi (cioé, essere riconoscibili) in settori in cui si può mostrare eccellenza, altrimenti la credibilità sul mercato non é garantita. Inoltre, bisogna avere una visione di lungo periodo, altrimenti nessun investitore potrà essere attratto. In Silicon Valley l’asset più prezioso, molto più dei soldi, é la propria credibilità e reputazione. Noi, che viviamo fra i contesti più autonomi in Italia dovremmo saper cogliere più di tutti questa sfida, offrendo garanzia e coerenza a chi vuole credere in noi. Piangersi addosso e addurre motivazioni poco credibili dello stato competitivo in Sudtirolo é inutile. Sbaglia chi dice che l’Alto Adige non é innovativo perché ha una bassa spesa in R&S. I dati devono essere interpretati e, se si confronta l’export del Trentino, con quello dell’Alto Adige, si nota che l’esportazione in A.A. é maggiore, anche se il Trentino, formalmente, ha una spesa in R&S maggiore. Come fa una regione a basso valore aggiunto a esportare nel contesto globale contemporaneo? La risposta é piuttosto semplice, é una questione di ragioneria. Il nostro sistema fiscale non ci aiuta a mettere sotto investimenti i costi di R&S perché l’imposizione finale sarebbe maggiore, a meno che non si falsifichi il risultato con importanti crediti d’imposta. Per questo motivo, a un’impresa che fa R&S conviene contabilizzare le proprie spese di R&S da investimenti a costi. In questo modo si abbatte l’utile e si paga meno IRES. La soluzione, in proposito? Avere coscienza di sé, delle proprie forze e debolezze, e pianificare per un periodo non inferiore ai 10 anni.

Si dice che siano due i motivi del successo della Silicon Valley: il transfer tecnologico e il Venture Capital. La San Francisco Bay Area é infatti popolata da più di una trentina istituti universitari, tra cui Stanford e Berkeley, due eccellenze mondiali.

Il transfer tecnologico é qui inteso come reale commistione tra accademia e start up. Tutte le università stimolano i loro professori e ricercatori a fondare una spin off dalle loro ricerche per due principali motivi: l’università prende una percentuale dell’impresa o degli utili e la loro reputazione si moltiplica incredibilmente. Fra Berkeley e Stanford c’é una continua competizione su chi sforna annualmente più start up di successo, perché, quando potenziali studenti decidono dove iscriversi, andare in un’università imprenditoriale é particolarmente ‘appealing’: chissà che non diventino loro i prossimi Zuckerberg…! Un’università ingessata, che non crea valore, qui non potrebbe esistere. Secondo uno dei più influenti scienziati italiani, Alberto Sangiovanni Vincentelli di Berkeley, il transfer tecnologico esiste solo nel momento in cui accademia e industria lavorano “fisicamente” assieme su un progetto. L’implementazione é quindi comune, quando si fonda una start up. L’accademia all’italiana, come un’entità a sé stante con, tutt’al più, funzioni di consulenza, é un nonsense.  Se non si conosce a fondo la tecnologia che si utilizza (quindi chi l’ha prodotta), non si può pensare di avere successo sul mercato, se, prima di tutto, non se ne comprendono appieno le funzioni. Al tempo stesso deve essere facile, per l’impresa, entrare in istituzioni di ricerca, con laboratori adeguati, e un parco tecnologico potrebbe fornire una risposta adeguata. In Italia in generale, e in Alto Adige in particolare, seppur le istituzioni di ricerca non manchino, il vincolo di esclusività non aiuta certo il trasferimento del sapere. I ricercatori non possono lavorare per una start up nel loro tempo libero, o per un periodo di tempo per poi rientrare in accademia. Di conseguenza, o ci si dedica pienamente alla docenza e alla ricerca, o si é fuori. Questo fattore impedisce il trasferimento del sapere. In particolare, la Libera Università di Bolzano é l’unica università in Italia a non prevedere alcun compenso per il personale impegnato in attività conto terzi, ovvero quelle attività che l’università svolge non per i propri studenti, non per la ricerca ma per imprese private. Siamo la realtà italiana meno ‘innovation friendly’ e basterebbe una delibera del Consiglio dell’Università per cambiare le cose, non certo una riforma costituzionale. In questo modo, sia i ricercatori, che l’Università prendono una parte degli utili dall’attività. Attualmente, i professori non hanno incentivo a svolgere queste attività (si ricorda che contrattualmente i professori hanno sostanzialmente solo obblighi di docenza). Tra impiegare il proprio tempo ad aiutare l’innovazione regionale, senza benefici in termini di carriera o monetari, e fare ricerca “teorica” senza ricadute sul territorio ma utile per pubblicazioni, quindi per il passaggio di carriera, secondo voi cosa scelgono? Il mercato accademico é un mercato globale, altamente competitivo, se qualcuno pensa quindi di dire “ma gli paghiamo noi, con i soldi provinciali” stia attento. Se iniziamo ad entrare nell’ottica del professore come impiegato provinciale, e quindi deve lavorare, seguendo logiche non accademiche, il risultato può essere solo uno: l’abbandono dei migliori, verso lidi più attenti e rispettosi dell’innovazione. L’innovazione non si può comandare, si possono solo creare le condizioni migliori per farla avvenire, ogni dirigismo é potenzialmente letale.

La mancanza di “capitali di ventura” é un altro tassello mancante. In Silicon Valley fare impresa é, sì, passione, ma soprattutto limitata nel tempo. Le imprese famigliari non esistono. Le imprese si fanno e per venderle, non per tramandarle ai figli, che magari vorranno fare qualcos’altro. Gli imprenditori seriali (la media é di 7 imprese per imprenditore) sono uno i reali motori della zona e, una volta “in pensione”, si dedicano a nuove start up, come Angels, ovvero come investitori. Queste figure sono fondamentali, perché le start up approfittano dell’esperienza e del network dell’Angel, che non é un semplice investitore. Quasi per divertimento, si dedicano a nuove imprese con la speranza di moltiplicare il proprio investimento. Potrebbe essere possibile un simile approccio in Italia? La risposta é sì. Immaginabile? No. Dopo la riforma societaria del 2003 si hanno ormai tutti gli strumenti per impiantare, in Italia, start up, come in Silicon Valley, con le medesime clausole, garanzie per gli investitori e azioni differenziate. Ciononostante si ha ancora la concezione che il “piccolo é bello” e che le imprese debbano diventare beni di famiglia. Si ha, tuttavia, difficoltà a comprendere, perché i nostri imprenditori non vogliono guadagnare una montagna di soldi su imprese con un enorme potenziale. Il Belpaese non riuscirebbe a immaginare il numero di persone che in Silicon Valley si sono arricchite con le idee di altri, e come imprenditori di successo dedichino una frazione del loro tempo a piccole nuove imprese, non per carità ma per interesse. Eppure questo modello indiscutibile di successo é evidente a tutti, anche oltreoceano.

Infine, oltre ai quattro tasselli, é chiaro che il nostro principale problema non sia quello delle risorse ma della capacità di pensare in chiave strategica, appassionata. Il nostro grande-piccolo Sudtirolo ha buona posizione nella competizione internazionale, ma ha “solo” ancora bisogno di prendere piena coscienza di se stesso e di adottare visioni collettive di lungo respiro.