Politics | L'intervista

Caramaschi tra utopia e dissimulazione

Il sindaco di Bolzano a ruota libera sul cambio del nome di Piazza Vittoria, i progetti da realizzare nei quartieri e il suo rapporto con la stampa.

Renzo Caramaschi, da circa 70 giorni sindaco di Bolzano, vorrebbe che le sue affermazioni venissero pesate con due bilance diverse. Da una parte ciò che egli ha detto, dice e probabilmente dirà in qualità di Borgomastro, col dito sempre puntato al programma steso e ratificato; dall’altro ciò che invece fa parte dei sogni e dei desideri di un uomo di cultura (“ho all’attivo sei romanzi e ne ho già nel cassetto un altro”), di un amante della montagna (“anche se non ci vado più da sei mesi”) e soprattutto di un cittadino che non ha ancora smarrito il senso dell’utopia (“proprio quest’anno ricorre l’anniversario della grande opera di Thomas More, che fu pubblicata nel 1516”), ossia qualcosa che forse resterà inarrivabile, irraggiungibile, ma che vale comunque la pena porre davanti agli occhi, per orientarsi e riflettere. In mezzo permane tuttavia un equivoco, un’incertezza, e un imbarazzo: è veramente possibile distinguere tra l’opinione di un personaggio pubblico “realista” e quella di un semplice cittadino “utopista”, allorché entrambi portano lo stesso nome, lo stesso cognome e soprattutto parlano alla presenza dei giornalisti?

Piazza della Pace

La contraddizione diventa palese e s’infiamma quando si torna a parlare di Piazza Vittoria, dell’ipotesi di cambiarle nuovamente il nome, proposito a lui attribuito di recente dalla stampa. Caramaschi si inalbera: “Ma cosa vuole che le dica ancora? Abbiamo persino pubblicato un comunicato stampa, ovviamente ignorato da tutti, per ribadire che il cambio del nome della Piazza non è contenuto nel programma di governo della città, quindi non c’è alcuna intenzione di procedere in tal senso e mi viene da ridere quando leggo di questo o quell’altro personaggio che vorrebbero già raccogliere le firme per un nuovo referendum, che ovviamente non si farà mai perché il nome resterà quello”. Faccio notare al sindaco che, programma o non programma, l’auspicio del cambio del nome è stato pur sempre pronunciato, e se i giornalisti presenti l’hanno registrato non è frutto di una loro invenzione. “Guardi – Caramaschi si sforza di tenere distinto quel che torna ad apparire confuso – la Prima Guerra Mondiale ha prodotto milioni di morti, una montagna che equivarrebbe a una gigantesta piramide di Cheope moltiplicata per decine e decine di volte. Le pare che sotto quella montagna di morti possiamo trovarci il senso di una vittoria? Io mi sono limitato a ribadire che con la violenza non si arriva da nessuna parte, e quando qualcuno mi ha chiesto se a mio avviso, a mio personale avviso, avrei ritenuto plausibile cambiare di nuovo il nome della piazza, ho detto che a suo tempo votai per farlo e ancora oggi mi pare, mi parrebbe un’idea perseguibile. Ma l’ho detto per l’appunto a titolo personale, avrò pure il diritto di esprimere la mia opinione personale senza che poi ci si faccia la panna montata, no?”.  

Grandi e piccole utopie

Cerco di spostare il focus del ragionamento, invitando Caramaschi a riflettere comunque sull’opportunità che ancora oggi, in presenza di un Monumento ormai storicizzato e musealizzato, si torni in ogni caso a mettere il dito nella piaga, a farne nuovamente un oggetto di discussione. E azzardo: non le sembra, caro sindaco, che i nostri concittadini di lingua italiana ad ogni nuova sollecitazione in tal senso reagiranno sempre chiudendosi, rivendicando insomma l’intangibilità di qualcosa che a loro appare come un pezzo irrinunciabile della “loro” storia e quindi per definizione indiscutibile? “Guardi, io sono italiano più di tutti quelli che adesso sbandierano volentieri la loro italianità, ma mi piace più la pace della vittoria e se dico, come ho affermato – ripeto: a titolo strettamente personale – che i valori della pace andrebbero sempre resi visibili ed evidenziati, la mia italianità non si smarrisce, non si riduce di un solo millimetro. Purtroppo ho la sensazione che noi italiani cominciamo invece ad agitarci proprio quando qualcuno minaccia di attaccare i simboli che certificano ciò che in fondo neppure più siamo, mentre dovremmo concentrarci sulle nostre abilità, metterci in luce per quello che di nuovo e di buono sappiamo fare ed uscire finalmente dall’angolo, da quel complesso d’inferiorità in cui ci siamo confinati essenzialmente a causa nostra”. Il senso utopistico della storia trapelato all’inizio dell’intervista emerge e si articola così in una visione d’insieme, anche dal punto di vista operativo. “Uno degli obiettivi che ci siamo prefissi è l’edificazione di uno spazio, di un parco o giardino dei saggi, come lo chiameremo, da erigere nel quartiere Casanova. Vi saranno alberi dedicati a tutti coloro i quali, in questa terra, hanno contribuito a costruire una cultura di pace. Io credo molto che questa città debba essere governata seguendo il disegno di tante piccole utopie da realizzare nei quartieri, rinnovandone ma anche rafforzandone l’identità culturale, sullo sfondo di una più grande utopia che è quella di tornare a discutere dei grandi valori, tra i quali uno dei più importanti è senza dubbio la pace. Tra poco, forse già a fine anno, sicuramente all’inizio di quello nuovo, inaugureremo l’intervento pensato per il fregio di Piazza Tribunale. Ho già avuto modo di vedere l’effetto e mi piace molto. Ma anche in questo caso mi permetta di sognare un intervento ancora più grande, magari secondo lo stile dell’artista Christo, del quale tutti di recente hanno ammirato la bellissima istallazione sul lago d’Iseo”. Caramaschi continua a parlare e io torno a chiedermi se anche l’intervento vagheggiato di Christo rientri tra le affermazioni da prendere un po’ così, oppure davvero dobbiamo aspettarci a breve l’impacchettamento di uno dei nostri “relitti fascisti” e le inevitabili polemiche che ne seguirebbero.

La stampa che vorrei

Tra le piccole (o forse le grandi…) utopie citate da Caramaschi, una riguarda anche il ruolo della stampa, strumento che sinora il sindaco ha maneggiato con burbera insofferenza. “Non è affatto vero che io non comprenda l’esigenza dei giornali di pubblicare sempre qualcosa, e quindi di ricorrere talvolta a forzature che sarebbero evitabili con un altro ritmo di lavoro. Però io chiedo anche correttezza, non ho voglia di leggere titoli che vanno da una parte e articoli dall’altra, non mi piace quando mi attribuiscono frasi, virgolettate, che non ho mai detto. Anche in periodi di magra, quando le notizie scarseggiano e siamo nel cosiddetto Sommerloch, ci vorrebbe più rispetto per la propria professione di reporter, altrimenti sarà consegnata a un sempre maggiore e progressivo discredito”. L’impaziente sindaco si augura una stampa più paziente, che dunque non solleciti polemiche spesso create ad arte e sollevi inutili polveroni, dentro ai quali si perderebbe poi il vero contorno delle cose. Alla fine mi regala un suo libro (“Un soffio di libertà”) e si diffonde volentieri a parlare di letteratura. “Chi ha letto i miei libri mi dice che il mio stile assomiglia un po’ a quello di Boris Pasternak. Scrivo per passione, serve a farmi trovare equilibrio, mi distende. Attualmente sto lavorando a una biografia romanzata dello scrittore Ret Marut, noto però con lo pseudonimo di Berick Traven”. Caso curioso: Traven ha pubblicato opere utilizzando costantemente nomi diversi, in un gioco dunque saturo di dissimulazione ed effetti stranianti. Qualcuno pensa che perfino dietro il nome femminile di Esperanza López Mateos, sua traduttrice in lingua spagnola, si celasse lo stesso scrittore. E probabilmente fu lui stesso, travestito da agente letterario, a recarsi a Hollywood, da John Huston, per imbastire il progetto del film “Il tesoro della Sierra Madre”, tratto da un suo volume. Caramaschi è senz’altro più modesto, la sua disseminazione tutto sommato contenuta: le rifrazioni della sua personalità (e purtroppo anche il senso di qualche sua affermazione) si scompongono solo se davanti a lui transitano i giornalisti della stampa locale. 

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Robert Hochgruber Sat, 08/06/2016 - 21:09

Es ist erfreulich, dass Bürgermeister Caramaschi den Frieden gerade in der heutigen Zeit, in der Terror und Gewalt überhand zu nehmen scheinen, in den Mittelpunkt stellt. Ich hoffe, dass er sich von den Polemiken nicht abbringen lässt. Gerade Südtirol und Bozen mit dem sogenannten Siegesdenkmal könnte und sollte ein Zeichen für ein friedliches Zusammenleben setzen. Es geht nicht darum, dass jemandem etwas von seiner Identität genommen wird und es sollte bitte nicht um tagespolitische Überlegungen gehen. Es wäre gut, wenn wir in Südtirol verstärkt überlegen würden, wie eine Aufarbeitung der teilweise gewaltbesetzten Vergangenheit z.B. im ersten Weltkrieg und seinen Folgen stattfinden kann. So könnte es zu einer echten und langfristigen Versöhnung zwischen den verschiedenen Volksgruppen und mit neuen Mitbürgerinnen und Mitbürgern kommen.
Wir alle wollen ja, bin ich überzeugt, den Frieden und ein gutes Zusammenleben zum Wohle aller. Respekt und Anerkennung für jede und jeden sind die Grundlage dafür.

Sat, 08/06/2016 - 21:09 Permalink