Kultur | Calabria-Trento

La sposa della neve, in arbëreshë

Non solo Carmine Abate: un'altra autrice trentina d'adozione, Maria Annita Baffa, racconta la cultura arbëreshë della provincia calabrese. Un estratto dal nuovo romanzo.

Esce con Edizioni alpha beta Verlag il nuovo libro dell'autrice (trentina "per scelta") Maria Annita Baffa, La sposa della neve. I ricordi della protagonista Sofia nel tragitto in treno da Trento al paese natìo in Calabria – per partecipare al funerale dell’amata sorella – sono lo sfondo ideale per raccontare la cultura arbëreshë di cui fa parte. Le comunità arbëreshë sono minoranze etno-linguistiche albanesi storiche, insediate nell’Italia meridionale, comunità di cui i lettori del premio Campiello Carmine Abate (arbëreshë anch'egli residente in Trentino) hanno imparato a conoscere le tradizioni e la lingua. Attraverso poesie e brevi canti, il romanzo di Baffa racconta abitudini secolari, come l'assenza di coraggio interiorizzata attraverso un'educazione all’ubbidienza assoluta – dove le donne pagano in prima persona – e la mancanza di mezzi che distingue zone d’Italia lasciate povere e analfabete. La presentazione del libro con l'autrice, l'editore Aldo Mazza e le letture di Elisabetta Scavazza, si terrà lunedì 4 giugno 2015 alle ore 18 presso il Centro Trevi di Bolzano. Qui un assaggio di lettura.

Maria Annita Baffa è nata a S. Sofia d’Epiro, paese arbëreshë in provincia di Cosenza. Laureata in lingue, parla inglese, tedesco, italiano nonché l’arbëreshë come lingua materna. Ha insegnato italiano all’università di Costanza (Germania) e inglese a Trento, dove risiede da molti anni. Nel 2012 ha conseguito un PhD in pedagogia alla Libera Università di Bolzano. È autrice di articoli di linguistica e pedagogia per riviste scientifiche ed è stata segnalata in alcuni concorsi letterari (Frontiere/Grenzen nel 2009 e Premio letterario Città di Castello nel 2010, con Gli angeli non si possono disegnare, 2011).  È stata consigliere di circoscrizione e del consiglio delle donne del Comune di Trento dal 2005 al 2009.

«Secondo me tu sei un uomo.» «Tu chi? A chi ti riferisci? Tu... Io?» chiese Sofia con una punta di ansietà. «Sì, proprio tu. Secondo me sei un uomo», ripeté Nicola, senza tradire la benché minima emozione, così che Sofia non era riuscita a capire fino a che punto il compagno di classe scherzasse o dicesse sul serio. Si guardò attorno, per accertarsi che nessuno avesse sentito quelle parole che le erano appena cadute sulla testa come un fulmine a ciel sereno. Lei un uomo?

Per fortuna non c’era nessuno. Quasi tutti i compagni di viaggio erano scesi alli Jungi, la prima fermata che la corriera effettuava ad Acri: loro frequentavano il professionale. Lizabeta e Renata si erano fermate al forno per comprare un panino. Marçello invece non c’era mai sull’autobus. Anche se minorenne, guidava la macchina da più di un anno. Anche Sofia aveva viaggiato spesso con lui per risparmiare i soldi del biglietto dell’autobus. Ma quella mattina no. Quella sciagurata mattina era andata in autobus.

Dunque, lei, che portava la minigonna più corta tra tutte le ragazze del paese, lei che d’estate litigava ore con le sorelle più vecchie per poter indossare gli hot pants, lei che si innamorava ogni tre mesi, ora del vicino di casa, ora del giovane impiegato del Comune, ora di questo, ora di quello, lei era un uomo.

È vero portava i capelli talmente corti che quando indossava i jeans qualcuno la scambiava per un giovanotto. In quelle occasioni, però, ridevano tutti. Si capiva che era un fraintendimento o uno scherzo. Nicola, invece, aveva ripetuto con convinzione che lei era un uomo.

Ma cosa aveva fatto lei per indurlo a pensare quella cosa orribile? Lei era sempre con uomini: con Franco di Mastruxhè che le comprava il panino a scuola alla ricreazione, con Umberto di don Peppe che le regalava sempre i cioccolatini che prendeva al bar di suo padre, con Francuzzo di Quadararo che le faceva la corte, e anche con Antonello, il figlio di Pietro Nenni (lo chiamavano così, in paese, perché era socialista) che organizzava le riunioni per i giovani. Allora Sofia non capiva molto di politica, né Gigino, suo padre, la incoraggiava. Diceva che le cose non cambiano perché si discute o perché si vota e qualcuno vince e poi fa ciò che ha promesso. Le cose cambiano solo con le rivoluzioni, se si vuole che cambino davvero. Ma le rivoluzioni portano anche morte. Allora è meglio che i bambini non si impiccino di cose così difficili. Sofia, però, con Gigino, e a volte con Antonello, alle riunioni dei socialisti andava lo stesso.

Non si era mai fidanzata, anche questo era vero. Ma solo perché lei non voleva legami, voleva andare via. Apparteneva alla prima generazione di donne arbëreshe senza fazzoletto in testa e senza coha, il costume tipico delle donne arbëreshe, come era solita vestirsi sua madre. Lei e le ragazze della sua età si vestivano come le modelle dei fotoromanzi e delle poche riviste che riuscivano a trovare a Santa Sofia d’Epiro, il suo paese natale. Ragazze che sognavano di partire, di andare a studiare altrove, anche all’estero. Degli uomini, di cui pure si innamorava, non gliene fregava niente. Lei era un cane sciolto. E vestiva all’italiana.

Giunti a piazza Annunziata, ad Acri, il paese in cui studiavano, Sofia provò ad indagare sulle convinzioni di Nicola: «Ha detto mio padre che quest’anno gli hot pants posso metterli pure per girare per il paese, non solo al mare.»

«Così tutti vedranno meglio che sei un uomo», fu la risposta pronta di Nicola. Sofia cominciava a sentirsi male. Ma che gli era saltato in mente a Nicola? Cosa voleva dire in realtà? Dal bar di Belsito veniva un intenso profumo dei primi dolci appena sfornati. Di solito si fermavano lì perché Sofia era molto golosa, ma quella mattina la fame le era proprio passata. Né aveva voglia di sbirciare tra le vetrine dei negozi. La giornata si preannunciava delle più nere. Acri, che le era sempre sembrato il paese delle possibilità perché più grande di Santa Sofia d’Epiro, per i tanti negozi, le tante botteghe artigianali, come i lanifici, gli arrotini, i sarti e i tanti mercati, quel giorno le apparve un posto tristissimo, dal quale avrebbe preferito sparire. Acri era anche il paese dei tanti comunisti, come alcuni dei professori che in quel paese erano nati. Comunisti convinti. E grazie a loro Sofia aveva scoperto i testi di Marx, di Hoxha, di Thoreau. È grazie a quei professori che aveva, in parte, vinto la timidezza e scoperto un lato combattivo del suo carattere: protestava per avere l’università in Calabria, protestava contro i supplenti, a scuola, che non sapevano niente ma erano severi, protestava per denunciare le pessime condizioni in cui viaggiavano, in corriere vecchie, gestite da privati, sempre in ritardo e sempre rotte. In effetti Sofia aveva un carattere forte. Non proprio come un uomo, più forte di un uomo. Ecco – non sono io più forte di Nicola? Perché averne paura?

Di scatto si girò verso il compagno di classe, lo guardò dritto negli occhi: «Sì, Nicola, è vero. Io sono un uomo. Ti prego, però, ti prego, non dirlo a nessuno. Me lo devi giurare. Me lo prometti, vero?»

«Te lo prometto», rispose Nicola, guardandola con sospetto, più che sorpreso.

In fondo perché deludere Nicola? Forse lui era innamorato di lei e avrebbe voluto farla arrabbiare, farle dire che lei non era un uomo. Magari farglielo dimostrare. Era di moda, allora, assieme alla minigonna, la “prova” che molti uomini chiedevano alle donne. Ma con lei, Nicola aveva sbagliato indirizzo.

O forse Nicola non era innamorato di lei, era semplice- mente convinto che lei fosse davvero un uomo. Non erano rare le occasioni in cui Sofia aveva dato prova di essere più forte di un uomo. E tutti l’avevano accolta come un’eroina quella volta che, andando a scuola con Lizabeta, due giovanotti le avevano prima seguite per strada e poi avevano cominciato a disturbarle, finché Sofia si era girata e aveva mollato una sberla a quello che le era più vicino. I due, sbigottiti, rimasero un po’ in silenzio. «Che c’è, ne vuoi un’altra?» disse Sofia mostrando grande coraggio. I due erano scappati. E lei, da quel giorno, fu temuta da tutti.

Sofia era figlia di una donna che era stata altrettanto forte, la sposa della neve, la sposa bambina, la sposa coraggio. Questo i compagni di scuola non potevano saperlo: erano troppo giovani. E la sposa della neve non c’era più da tempo. Nemmeno Sofia la ricordava bene. A volte le sembrava di averla sognata, ma poi, al mattino, ricordava ben poco.

«Vemi Nicò, vemi», andiamo Nicola, andiamo. E si avviarono verso scuola.