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Di cosa parla "I bambini di Svevia"

Cosa succede quando si fa un percorso a ritroso? Il nuovo romanzo di Romina Casagrande - autrice di Merano - lo mostra attraverso il viaggio della novantenne Edna.
Foresta
Foto: Pixabay

Romina Casagrande è un’autrice di libri nata a Merano nel 1977 e insegna nella scuola secondaria. Nel corso della sua carriera di scrittrice ha pubblicato diversi racconti fantasy (ispirati alle leggende dell’Alto Adige), un romanzo distopico e in tempi recenti alcuni romanzi che hanno l'arte come tema principale, come La Medusa, Lontano da te e Le ragazze con le calze grigie. Con l’inizio del 2020 ha pubblicato un nuovo romanzo, ritornando al suo interesse per le storie altoatesine. Questa volta, però, è la storia reale a fare da contesto narrativo per raccontare le storie private dei personaggi. I bambini di Svevia, infatti, racconta un capitolo delle vicende locali (in parte rimosse) che si intreccia con quelli di altri paesi e altrettante vicende. L’autrice ha presentato il romanzo sabato scorso (11 gennaio) presso la libreria Ubik di via dei Grappoli, a Bolzano – accompagnata da un reading a cura di Isabella Repole.

‘I bambini di Svevia’ (Schwabenkinder) è la dicitura con la quale si identificano storicamente quei bambini provenienti dal Tirolo (e quindi anche dall’Alto Adige), dal Lichtenstein e dal Ticino che tra il XVII e gli inizi del XX secolo sono stati acquistati come lavoratori stagionali dai proprietari terrieri della Svevia (uno dei distretti della Baviera, a sud della Germania). I bambini venivano acquistati direttamente dalle rispettive famiglie: il periodo di lavoro nelle fattori dei grandi proprietari andava dall’inizio della primavera, a marzo, e finiva con l’inoltrarsi dell’autunno, quindi a novembre. I bambini dovevano attraversare un sentiero impervio per raggiungere la meta, accompagnati da un solo adulto (nel romanzo è un prete, Don Gianni) in condizioni climatiche sempre avverse e per svariati giorni. In Alto Adige la regione che è stata maggiormente interessata in queste vicende è la Val Venosta, i cui abitanti hanno dovuto sottostare per lungo tempo alle regole dell’indigenza. Dalla Val Venosta il percorso verso la Svevia (una delle mete più importanti era la città di Ravensburg) poteva durare fino a sette giorni, senza mezzi di trasporto, se non le proprie gambe. La mappa nelle controguardie del libro mostra bene il percorso al lettore. “I bambini venivano portati in una cappella, davanti alla statua in legno di San Cristoforo e veniva consigliato loro di intagliare con il coltellino una scheggia della statua, come portafortuna. La statua era stata privata di così tante schegge da sembrare irriconoscibile. Hanno dovuto prima proteggerla e poi è andata distrutta in un incendio”. Così Romina Casagrande spiega un ulteriore passaggio della storia dei bambini di Svevia, un gruppo di bambini compresi tra i 5 e i 14 anni (maschi e femmine) che durante il percorso e nelle fattorie avevano istituito anche regole interne. “Si era creata una vera e propria ‘società dei bambini’, dove esisteva anche una rete di supporto e di aiuto”, continua Casagrande. Anche se – è ovvio dirlo – tra i bambini erano presenti anche gli aguzzini. All’interno delle fattorie si poteva anche essere rimproverati solo per il fatto di non capire la lingua con la quale venivano impartiti gli ordini, essendo i dialetti così diversi tra loro. “Si raggiungevano picchi di 4000 bambini l’anno nei periodi peggiori”, dice – infatti – Casagrande.

 

 

Il romanzo di Romina Casagrande racconta proprio di questa storia e in particolare della vicenda particolare di due dei bambini di Svevia fuggiti dalla fattoria, Edna e Jacob, destinati – da piccoli – a essere venduti al mercato del bestiame di Ravensburg. La storia viene ripercorsa attraverso il viaggio a ritroso della ormai novantenne Edna Weiss, la quale dalla Val Venosta (dove è ritornata) vuole arrivare fino in Germania – a piedi – per incontrare di nuovo il vecchio amico Jacob, al quale deve restituire il vegliardo pappagallo blu Emil, ormai compagno di una vita di Edna, che – però – ricorda ancora le parole che gli ha insegnato il suo precedente padrone, decenni prima. Edna riprende il bastone e lo scialle che ha lasciato 80 anni prima per raggiungere il ragazzino verso il quale deve ancora mantenere un'antica promessa. Infatti, il motore narrativo del viaggio di Edna è quello che risponde alla domanda: “Cosa succede quando una promessa tra due bambini che scappano viene davvero rispettata?”. Romina Casagrande mostra che bisogna aspettare un bel po’ di tempo: ma, alla fine, il percorso si rivelerà la vera meta. Edna partirà senza soldi, senza alcuna risorsa o conoscenza, senza i vestiti adatti al viaggio, senza documenti e con un pappagallo in un trasportino. Durante il viaggio incontrerà varie persone che la aiuteranno e che la ostacoleranno. Si ritroverà accolta da una coppia e da un biker che le darà un giubbotto di pelle nero con un teschio disegnato sopra - e dissuasa da altre persone che la riterranno troppo anziana per portare a termine quel viaggio pieno di perigli. “Edna ha ibernato il proprio dolore, si è chiusa – negli anni dopo la fuga dalla fattoria – con il resto del mondo: la sfera di cristallo si è rotta. Nei suoi vari incontri lungo il tragitto le persone le lasceranno qualcosa e lei lascerà – in piccolo – qualcosa a loro. Incontra anche ostacoli psicologici. Ad esempio incontra delle persone che tentano di fermarla, quel tipo di persone che sentono di avere una missione, ovvero le più pericolose di tutte”. Casagrande illustra in modo preciso da dove nasce il senso di libertà che nasce improvvisamente in Edna Weiss, in un romanzo che affonda le sue radici nel torbido terreno della fiaba gotica, dove si narra una storia ma il nucleo risulta, invero, indicibile.