Film | salto weekend

Il sol dell’avvenire

La quintessenza del cinema morettiano con tutte le sue tirate, le sue passioni, i suoi sogni e le parole, che sì, sono (ancora) importanti.
Il sol dell'avvenire
Foto: Screenshot

Nanni Moretti è vivo e lotta insieme a noi: a due anni da Tre piani, che voleva essere un film di Michael Haneke e invece era solo brutto, paternalistico e stanco, Il sol dell’avvenire ci fa capire che tutto è di nuovo in ordine nell’universo.

Cos’è

È il 14esimo lungometraggio del regista romano e sarà in concorso al Festival di Cannes 2023. Nanni Moretti interpreta Giovanni, regista che sogna di realizzare un film sulla storia quarantennale di una coppia con dentro un mucchio di canzoni italiane. Nel frattempo ne scrive uno tratto da “Il nuotatore” di John Cheever e ne sta girando un altro ambientato nella Roma del 1956, quando il Partito Comunista Italiano è ancora legato a filo doppio all’URSS.

Ennio (Silvio Orlando), giornalista dell’Unità e segretario della sezione del PCI del quartiere del Quarticciolo dove è appena arrivato il circo ungherese Budavári (che si chiama come il pallanuotista magiaro di Palombella rossa), deve capire come reagire all’intervento armato sovietico a Budapest, mentre Vera (Barbora Bobulova) e altri compagni militanti scelgono quasi subito da che parte stare.

Il film è prodotto dalla moglie di Giovanni, Paola (Margherita Buy), che sta andando in segreto dallo psicoanalista cercando di trovare la forza per lasciare il marito. Intanto la figlia (Valentina Romani) dice ai genitori di essersi innamorata dell’ambasciatore polacco molto più grande di lei (il regista Jerzy Stuhr).

Il Sol dell'Avvenire | Trailer Ufficiale

 

Com’è

Politico, (auto)ironico, metatestuale, irriducibilmente sentimentale, pieno di morettismi - tra atteggiamenti e battute - su cui sbrodolare: Il sol dell’avvenire è un ritorno al cinema più ombelicale, strambo e “apicelliano” di Nanni Moretti. Un ritorno al suo mondo, alle sue nevrosi e idiosincrasie, al suo idealismo, alle canzoni italiane cantate in macchina, alla Vespa che scorrazza per le strade di Roma (in questo caso sostituita da un più moderno monopattino elettrico che gira in tondo in piazza Mazzini).

Il film non dice molto di nuovo, è forse anche un filino furbo nel suo flirt spinto con il fanservice, perfettamente inserito nel canone morettiano perché “nella vita due o tre principi bisogna pur averli”, ma è anche una di quelle manifestazioni della passione di Moretti per il cinema che non si possono molto contestare.
C’è un po’ di Bianca, di Palombella Rossa, di Caro Diario, ci sono la coperta di Sogni d’oro e le donne che portano i sabot dietro cui “c’è una tragica visione del mondo. Se non vedo le dita allora non devo vedere neanche il calcagno”, gli antidepressivi e la morte, il set come metafora della vita e come in Aprile, Il Caimano, Mia madre, ancora una volta si parte da un film nel film.

Moretti parla del fallimento della sinistra italiana e ne immagina una impossibile svolta correggendo la Storia. Sceglie la dimensione del sogno come alternativa al mondo reale sempre più irriconoscibile e deludente: da Netflix, con i suoi film usa e getta, alle storture del cinema contemporaneo e all’avversione cronica per la violenza come puro intrattenimento (“Una mattina vi sveglierete e piangerete, perché vi renderete conto di quello che avete combinato”). Parla dell’importanza del senso di appartenenza e dell’incapacità di essere compresi, della fatica e del dolore di essere graniticamente coerenti nei propri valori e nelle proprie idee (sulla politica, sulle persone, sul cinema) e della solitudine che ne deriva. La parata finale, in un’utopia esistenziale e ideologica (molto felliniana) in via dei Fori Imperiali, è l’affondo nostalgico che stappa i dotti lacrimali. Non fate resistenza perché è peccato.

Voto: ****