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La “fuga per la vittoria” dei Pavlu

In ricordo di Jaroslav Pavlu ripubblichiamo l'intervista al figlio Martin in cui racconta gli ultimi anni in Cecoslovacchia e l’approdo all’Hockey Club Bolzano
Martin, Jaroslav e Ian Pavlu Hockey Bolzano
Foto: Maurizio Di Giangiacomo
  • E' scomparso all’età di 87 anni Jaroslav Pavlu, vera e propria leggenda dell’hockey bolzanino. Jarda era arrivato nel capoluogo altoatesino nel 1969. Lasciò l’allora Cecoslovacchia con la moglie e il figlio, Martin. Ripubblichiamo l'intervista uscita nel settembre 2021.

Non è una fuga avventurosa, quella riuscita a Jaroslav Pavlu, sua moglie Zlata e suo figlio Martin a cavallo tra anni 60’ e anni ’70. Ma è comunque una storia che merita di essere raccontata, forse per la prima volta, fino in fondo. Perché regalò alla Bolzano dell’hockey due grandissimi campioni, dentro e fuori dal ghiaccio. Ma soprattutto perché permise a quella giovane famiglia di sottrarsi – non senza qualche rischio – alle asprezze del regime comunista imposto dall’Unione Sovietica alla Cecoslovacchia dopo la repressione della Primavera di Praga, nel 1968: il ricordo dei carri armati russi è ancora vivo nella memoria di Martin Pavlu, al quale abbiamo chiesto di raccontarci gli ultimi anni vissuti a Plzen e l’approdo nel capoluogo altoatesino. La “vecchia” e la “nuova” vita della sua famiglia.

Martin Pavlu, quando arrivò a Bolzano suo padre Jaroslav?

Martin Pavlu: “Mio padre arrivò da solo nel 1969, due mesi dopo venne a prenderci, dopo aver verificato che a Bolzano andasse tutto bene. L’espatrio di mio padre era autorizzato dal regime comunista: avendo più di 32 anni, avendo giocato ad un certo livello, anche con la Nazionale, avrebbe potuto disputare tre stagioni all’estero. Mio padre aveva giocato prima con il Brno, che era mezza Nazionale, squadra militare, e poi a Plzen. Ha militato a lungo con la Nazionale B e giocato qualche partita anche con la Nazionale maggiore. La maggior parte dei cecoslovacchi andava a giocare in Germania, avrebbe dovuto andarci anche mio padre, con un compagno di squadra”.

Come nacque il contatto con l’Hockey Club Bolzano?

“A Praga c’era un ufficio che si chiamava Pragosport, che faceva da tramite con le società sportive estere. Arrivò una richiesta da parte del dirigente del Bolzano Willy Cappellini, un collaboratore di Ander Amonn, che aveva sposato una delle figlie degli Eccel-Decorona. Il Bolzano aveva già un ceco, Rajda, avevano ingaggiato Jiri Dolana, capocannoniere ai Mondiali di Stoccolma, e presero anche mio padre. Arrivò a Bolzano prima dell’inizio della stagione 1969/70: lui e Dolana, assieme al falegname della Fiera, costruirono le nuove balaustre in legno del palaghiaccio. Ma il suo ricordo più bello è sicuramente quello del primo giorno in città: arrivò in piazza Verdi e, cercando di farsi capire, chiese indicazioni per il palaghiaccio ad un vigile urbano con i capelli ricci e lunghi; quello era un grande appassionato di hockey, vide le stecche nella Skoda di mio padre, montò in macchina e lo accompagnò in via Roma, una cosa che in Cecoslovacchia non sarebbe mai successa”.

 

Verificata la situazione a Bolzano, Jaroslav è tornato a Plzen a prendere te e tua madre, ricordo bene?

“Sì, ma per le prime due stagioni siamo rimasti solo un paio di mesi, perché io dovevo studiare e inserire in una scuola a Bolzano un bambino di sette anni e mezzo, che parlava cecoslovacco e un pochino di russo, sarebbe stato troppo difficile. Quindi, dopo circa due mesi e mezzo, io e mia madre siamo tornati in Cecoslovacchia, dove io ho ripreso la scuola. Papà è tornato a Plzen a fine campionato e nella stagione successiva abbiamo fatto la stessa cosa: due mesi con mio padre a Bolzano e ritorno in Cecoslovacchia per la scuola”.

Nel 1971, invece, cosa è successo?

“Siamo venuti a Bolzano prima, rispetto agli anni successivi, e io ho iniziato a frequentare la scuola qui, alle Rosmini, non in quarta come avrei dovuto fare in Cecoslovacchia ma in terza. Frequentai le scuole in lingua tedesca perché tale era, allora, l’ambiente della squadra. Anche per questo, dopo i primi due mesi, non fu così difficile”.

Dimmi qual è l’ultimo ricordo che hai di Plzen?

“Ricordo che il condominio nel quale abitavo faceva parte di un gruppo di grandi case, disposte ai lati di un grande cortile rettangolare. Lì le donne lavavano e stendevano i panni, d’inverno il terreno si ghiacciava e ne veniva ricavato un campo da hockey. Dietro la scuola c’era una pista ancora più grande, con le balaustre basse, e anche lì si giocava al pomeriggio. Quando tornammo dai primi due mesi trascorsi a Bolzano, mia madre cominciò a portarmi ad allenarmi con la squadra giovanile di Plzen”.

Il giorno che arrivarono i carri armati russi, nel 1968, io ero a Brno, da mio nonno. Mi ricordo i panzer fuori di casa

Approdato a Bolzano, avvertisti la differenza tra il regime comunista e la democrazia?

“Il giorno che arrivarono i carri armati russi, nel 1968, io ero a Brno, da mio nonno. Mi ricordo i panzer fuori di casa: mio nonno faceva il guardiano notturno, disse che nella notte aveva sentito molti aerei sorvolare la città ed era molto preoccupato. Me lo ricordo benissimo: Brno era la seconda città più grande della Cecoslovacchia, la “Primavera” fu repressa a Praga ma anche nella città dei miei nonni. Fu uno shock per la nostra gente, che in Dubcek aveva riposto grandi speranze. I russi a Praga avevano sparato, il sacrificio di Jan Palach è rimasto nella mente di tutti. Mio padre rimase sbalordito quando seppe che in Italia c’era un partito comunista, poi capì che i comunisti italiani abitavano nelle ville sull’Appia antica… Per noi il vero comunismo era terrore puro”.

Il primo ricordo bolzanino, invece, qual è? Dove andaste ad abitare?

“Vivevamo in una casa bellissima, in via Sant’Osvaldo, che adesso non c’è più. Una villa splendida, con un grande guardino, noi abitavamo a piano terra. Aveva un pavimento di legno che scricchiolava tantissimo. Mio padre aveva portato con sé tantissimi bastoni, che poi vendette alla società: avevamo una stanza, con la stufa di maiolica, piena di bastoni, era così grande che io ci giocavo a hockey… Nella stessa casa abitava Dolana, ma la sua famiglia lo raggiunse per pochissimo tempo”.

Nel 1971 non tornaste più indietro: come fece tuo padre a farvi “scappare”?

“Già nel corso della seconda stagione, il presidente Amonn aveva espresso l’auspicio che mio padre potesse rimanere a Bolzano anche per gli anni successivi. La prima condizione fu un posto di lavoro, che gli fu trovato alla Coca Cola di Ora. Poi c’era il problema “diplomatico”, perché in quegli anni l’Italia non concedeva asilo politico agli esuli cecoslovacchi, che finivano tutti in Australia o in Canada. Mio padre e mia madre furono avviati ad un campo profughi a Trieste, ma solo per alcuni giorni, grazie all’intervento a Roma di un parlamentare altoatesino. Altrimenti sarebbero stati trasferiti all’estero”.

Il terzo anno rimaneste ad abitare a Sant’Osvaldo?

“No, dopo i primi due anni fummo sistemati in un appartamento in via Fucine, a Gries, poi abbiamo passato tutta l’estate in albergo, prima vicino a Ponte Druso e poi in piazza Vittoria. L’Hockey Club Bolzano non riusciva a trovare un appartamento per noi, fino ad un nuovo intervento di Cappellini, che ci affittò l’appartamento che aveva comprato per sua figlia, in via Rio Molino, di fronte al Grieserhof. Cappellini era un vero signore, venne in Cecoslovacchia con una Ferrari Dino verde, quando si fermò a bere il caffè da noi c’era tutto il cortile attorno a quel bolide!”.

 

Raccontami della carriera di Jaroslav.

“Nei primi anni giocò con la Latemar, per due stagioni anche in Serie A. Quando nel 1978 ottenemmo la cittadinanza italiana, potemmo giocare tutti e due con il Bolzano, assieme, fino al 1981, quando arrivò Chipperfield e mio padre divenne allenatore, vincendo per due anni lo scudetto con la squadra nella quale militava anche Bellio. Poi papà litigò con i dirigenti dell’HCB e andò a Brunico, dove rimase due stagioni, prima di approdare all’Ev Bozen ‘84, la nuova società di Ander Amonn, che però faceva solo il settore giovanile. Mio padre i giovani li aveva allenati anche a Bolzano, quando giocava, crescendo i fratelli Mair, i fratelli Gasser, Runer, per qualche anno anche Pasqualotto”.

Ho giocato con il Bolzano dal 1978 al 2003, vincendo 12 scudetti. Nelle prime tre stagioni segnai sempre 25 gol, un numero al quale sono molto legato

Nel frattempo, sbocciava un altro Pavlu.

“Ho giocato con il Bolzano dal 1978 al 2003, vincendo 12 scudetti. Nelle prime tre stagioni segnai sempre 25 gol, un numero al quale sono molto legato. Giocavo in linea con i fratelli Mair, Michael e Bernard, e un lungo periodo anche con Rudy Hiti, mentre mio padre, che era un centro, allora giocava in difesa, con il numero 9”.

Dopo l’Ev Bozen e gli anni nel vostro negozio di via Cappuccini, nel 2004 papà Jaroslav andò in pensione, prese mamma Zlata e se ne tornò in patria.

“Aveva comprato una baita a Trebic, la sua città natale, a 70 chilometri da Brno. È molto legato alle sue origini. Mia madre è mancata nel 2014, Jaroslav compirà 85 anni il 27 dicembre ma da solo se la cava, grazia all’aiuto di vicini e parenti, anche se gli ultimi due anni, chiuso in casa, gli hanno tolto un po’ di stimoli”.

Veniamo alla tua famiglia: devi all’hockey anche tua moglie Maddalena, vero?

“Sì, mia moglie è figlia di un mestrino e di una asiaghese, l’estate la trascorreva sull’Altopiano e lì l’ho conosciuta, in occasione di un ritiro della Nazionale. Negli anni Ottanta si disputava anche la stagione estiva, io la giocai con l’Asiago assieme a Gigi Venturi di Merano per un paio d’anni. Nel 1986 io a Maddalena ci sposammo, nel 1990 nacque mia figlia Elisa e nel 1994 mio figlio Jan. Che ci hanno appena resi due volte nonni: Mia, figlia di Elisa, ha sei mesi; Lio, figlio di Jan, ne ha quasi cinque”.

Un’altra generazione di Pavlu. E Jan ha quasi chiuso il cerchio: a sua volta giocatore di hockey, il secondogenito di Martin Pavlu è difensore della squadra della seconda lega tedesca di Kaufbeuren. Plzen, dove è nato il padre Martin, è la città ceca più vicina al confine germanico.