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documenta fifteen

Domenica 25 settembre si è conclusa la quindicesima edizione della documenta (con l’iniziale minuscola, così come voluto dal suo ideatore Arnold Bode). Una retrospettiva.
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Foto: Salto.bz

L'esposizione internazionale d’arte si svolge a Kassel dal 1955, a cadenza quadriennale prima e, successivamente, quinquennale. Per la seconda volta, in quasi settant’anni della sua storia, la manifestazione ha visto una direzione artistica non di provenienza europea (la prima era stata la documenta 11 nel 2002, diretta da Okwui Enwezor), mentre del tutto inedita è stata la scelta di affidare la curatela di a un collettivo di artisti, il gruppo indonesiano ruangrupa costituitosi nel 2000 a Giacarta.
documenta fifteen si è sviluppata intorno all’idea di “lumbung”, termine indonesiano che indica un fienile utilizzato per immagazzinare l’eccedenza di un raccolto di riso destinato a essere ridistribuito alla comunità; come dichiarato dagli stessi curatori, esso è stato inteso non come concetto ma come pratica, rifiutando espressamente l’idea di mostra tematica e opponendovi piuttosto la creazione di una struttura in divenire. In particolare, ruangrupa ha previsto il coinvolgimento di altri 14 collettivi che a loro volta hanno invitato ulteriori collettivi e singoli artisti, organizzando i partecipanti in gruppi di incontro definiti “majelis”, e rendendoli così parte di un progetto partecipato. La pratica del “lumbung” è stata resa evidente alla ruruHaus, indicata come “cuore” di documenta fifteen: edificio degli anni ’50, inutilizzato dal 2018, riconvertito in luogo di incontri, pratiche comunitarie e collaborazioni.
 


La condivisone delle risorse, la realizzazione di altre economie, la creazione di legami sociali, la messa in discussione di gerarchie e ruoli di potere ma anche delle singole autorialità sono gli aspetti chiave attraverso cui si è sviluppato un discorso espositivo di rottura, in cui hanno trovato poco spazio i nomi noti di un sistema dell’arte “globale” che rispecchia ancora una visione del mondo sostanzialmente americano e eurocentrica. Questo approccio può essere assunto come ulteriore tassello di un percorso che accompagna la manifestazione: rifiutando distinzioni analoghe a quelle previste dai padiglioni a Venezia, fin dalla sua genesi documenta ha sostenuto un taglio internazionale e globale, in cui tale globalità si traduceva, però, in narrazioni che privilegiavano una “certa parte del mondo” (in particolare, nelle sue prime edizioni, sostanzialmente a ovest della cortina), con un approccio progressivamente problematizzato e ampliato. 
Parallelamente, negli anni, documenta ha svolto un ruolo chiave di istituzionalizzazione e storicizzazione di determinate posizioni, favorendone o limitandone la fortuna critica e la presenza in altri contesti espositivi o istituzionali (una interessante mostra attualmente proposta alla Lenbachhaus di Monaco, ne racconta ad esempio la ricaduta sulle collezioni museali tedesche a partire dal caso del museo stesso).
 


documenta fifteen si è inserita all’interno di questo processo, aprendo in particolare a voci subalterne, cioè di soggetti storicamente estromessi da narrazioni dominanti: è il caso ad esempio della OFF-Biennale Budapest che immagina e prefigura un museo di arte contemporanea Rom o l’Archives des luttes des femmes en Algérie che ha portato a Kassel e reso accessibile parte di un ricchissimo archivio, oggetto di un processo di digitalizzazione e quindi di libera fruizione, sui movimenti femministi algerini dal 1962, anno dell’indipendenza. All’archivio come strumento di decostruzione di visioni colonialiste e egemoniche (si possono citare ancora The Black Archives e o Asia Art Archive) si è affiancata l’ampia presenza del linguaggio video, soprattutto in forma documentaria e spesso improntato sull’impegno collettivo. È il caso ad esempio di Sada [regroup], iniziativa a sostegno dell’arte contemporanea irachena realizzata tra il 2011 e il 2015 su iniziativa di Rijin Sahakian, che ha chiamato gli ex partecipanti a presentare nuovi video, capaci di far emergere in modo incisivo la situazione degli artisti iracheni.
Ospitate principalmente al Museo Fridericianum, sede storica di documenta, queste opere portano avanti un processo di ridefinizione del dispositivo espositivo che anche in questo caso può essere letto in rapporto alla storia della manifestazione. Sorta in una città distrutta dai bombardamenti e marginalizzata dal nuovo assetto geopolitico tedesco, documenta nasceva con l’ambizione di “documentare” e “insegnare” (come espresso dalla radice latina del verbo docere), recuperando quelle forme artistiche bandite dal regime come “degenerate” (Entartete Kunst) all’interno di un luogo fortemente simbolico. Il museo tardosettecentesco, figlio della mentalità illuminista europea e sventrato dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale, era assunto volutamente nella sua forma provvisoria, in rovina, come segnale di una ricostruzione artistica e culturale. Il messaggio antibellico è tornato con documenta fifteen (in questo caso riferito all’attuale conflitto russo-ucraino), affidato ai disegni dell’artista e illustratore Dan Perjovschi posti sulle colonne neoclassiche, in un gioco semantico che trasla l’idea di “colonna” giornalistica in architettonica. L’uso di questo spazio, fortemente connotato, è tornato a veicolare un messaggio non solo artistico ma anche politico e sociale.
 


La mostra si è articolata in numerosissime altre sedi espositive, spaziando dalle abituali a nuovi spazi, come quelli nell’area industriale di Bettenhausen. Tra questi si può menzionare ad esempio la piscina Hallenbad Ost del 1929, uno dei pochi edifici in stile Bauhaus presenti nella città, in cui sono stati esposti i lavori – figure di cartone, striscioni, poster e banner – del collettivo Taring Padi, concepiti non per uno spazio istituzionale ma per un utilizzo militante e attivista in manifestazioni o campagne di sensibilizzazione. Al centro della ampia querelle e bufera mediatica - che ha portato alle dimissioni della direttrice Sabine Schormann – il collettivo indonesiano è autore anche dell’opera People’s Justice, rimossa per l’adozione di un’iconografia antisemita nella rappresentazione di un militare con la scritta Mossad. Analoghe accuse di antisemitismo hanno accompagnato anche altre opere, come i lavori del collettivo palestinese The Question of Funding o il programma cinematografico presentato da Subversive Film, improntato sul recupero e il restauro di una serie di film legati al sostegno giapponese alla causa palestinese.
Diverse sono state le reazioni dei partecipanti, dalla rimozione del proprio lavoro come nel caso dell’artista tedesca Hito Steyerl all’articolata riflessione sui rischi di strumentalizzazione proposta sulle pagine di Monopol dall’artista e attivista cubana Tania Bruguera, presente a Kassel con il collettivo Instituto de Artivismo Hannah Arendt che dà spazio a artisti e intellettuali censurati a Cuba.
Un momento di confronto particolarmente interessante è stato il dibattito del 17 settembre che ha visto coinvolti l’artista Dan Perjovschi, Farid Rakun (ruangrupa), i due artisti altoatesini Hannes Egger e Thomas Sterna e la curatrice di Merano Arte Judith Waldmann.
 


Curatori del progetto parallelo a documenta Win-win lottery, Sterna e Egger (non nuovo a simili “incursioni”: nel 2019 aveva infatti portato un bivacco alpino sull’isola veneziana di San Servolo, parallelamente alla 59° Biennale) hanno messo a disposizione uno spazio nella stazione ferroviaria di Kassel, in cui chiunque, dopo aver vinto una vera e propria lotteria, aveva la possibilità di esporre per una settimana. A partire da una riflessione sulla “fortuna” - l’aleatorietà dell’estrazione, ma anche il sussistere di condizioni che permettano di prenderne parte – l’incontro è stata un’occasione per considerare il tema della responsabilità del curatore e di come essa si declina in rapporto alla libertà artistica.
Questa documenta ha posto davanti a una serie di questioni che investono il rapporto tra linguaggi legati alla sfera attivista e contesti istituzionali, le possibili ricadute a lungo termine di processi sui territori coinvolti, ma anche la sostenibilità delle grandi manifestazioni o il ruolo della curatela da parte degli artisti (novità assoluta per Kassel, ma con numerosi precedenti).  Per quanto l’approccio possa essere risultato talvolta frammentario, non sempre omogeneo a livello qualitativo, complesso da seguire nella vastità di sedi coinvolte, materiali testuali, tematiche affrontate, essa si è posta come un esperimento espositivo che apre un importante processo di ripensamento curatoriale e di cui sarà fondamentale tenere conto.