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Il folle amore del fumettista

Il mondo dell'artista Armin Barducci, curioso osservatore dalla sconfinata immaginazione, e il suo “Tales of an imaginary deadman”.
Armin Barducci
Foto: Youtube

Il fumettista bolzanino Armin Barducci ha da poco pubblicato “Tales of an imaginary deadman”, un’imponente opera in cofanetto che raccoglie quattro fumetti. In questa intervista, ci apre le porte del suo mondo e della sua creatività e ripercorre le tappe principali della sua carriera.

 

Qual è stato il primo fumetto che ha letto?

Non ce n’è uno vero e proprio, li guardavo già anche prima di saper leggere. I primi di cui ho memoria erano quelli che trovavo in casa, quelli di mio papà, anche lui appassionato. C’era un fumetto chiamato “Cocco Bill” di Jacovitti, che usciva settimanalmente. Mio padre ha ritagliato tutte le pagine e le ha fatte rilegare in un volume che ancora adesso è a casa dei miei genitori e ha un certo valore affettivo. Penso rappresenti l’inizio del mio vero interessamento al fumetto.

Quando ha deciso di voler fare il fumettista?

Era un giorno del 1990 quando mi sono detto “da grande voglio fare il fumettista”. La mia primissima pubblicazione è stata quando avevo 17 anni. Se ho sempre avuto la mano dell’artista? Questo non lo so, non credo. Diciamo che il 90 percento della popolazione a un certo punto smette di disegnare. Da piccoli, tutti disegnano: la striscia verde è il prato, la striscia blu in alto è il cielo, il sole è rotondo, o un triangolo in un angolo, si va a simboli. Più il bambino cresce, più ha percezione di sé e del proprio ambiente. Nel momento in cui capisci che quello che disegni non corrisponde a quello che vedi, la smetti. E poi ci sono quelli che continuano, e sono pochi: sono quelli che poi disegnano.

Può descrivere il processo di creazione di un suo fumetto?

Ci sono due fasi principali, la fase creativa e quella esecutiva. La prima è quella della genesi delle storie, una predisposizione anche mentale in cui sono lì che scrivo appunti, mi ricordo ambienti, facce, nomi, parole (delle quali spesso mi innamoro), e li unisco sviluppando qualcosa e scrivendo su fogli A4, a mano. Nella fase esecutiva, prendo questo materiale e lo realizzo in serie, quindi non devo pensare, come nell’atto creativo, ma solo servirmi della mia esperienza tecnica. Qui la mia tecnica è ibrida, il tratto del segno lo disegno ancora a mano, lo scansiono e poi rifinisco il tutto con la tavoletta grafica.

C’è qualcosa che accomuna i fumettisti?

Innanzitutto, il fumettista, per fare questo mestiere, deve proprio volerlo: serve un certo amore nei confronti di quello che stai facendo ed è tutto alimentato da questo folle amore verso il mezzo. Si tratta, inoltre, di una professione terribilmente solitaria per cui si è estraniati dal mondo (anche se conoscere il mondo è fondamentale per me), cosa che in realtà è abbastanza comune con i mestieri di oggi. Un altro innegabile elemento comune sono i malanni, tipo il mal di schiena e il tunnel carpale.

Era un giorno del 1990 quando mi sono detto “da grande voglio fare il fumettista”

Chi è il suo fumettista preferito?

Si chiama Chris Ware, è americano e fa del fumetto sperimentale. L’ultimo libro che ho fatto è anche frutto della mia ammirazione nei suoi confronti. Ho persino avuto la fortuna di incontrarlo.

Qual è la sua fonte di ispirazione?

La mia fonte di ispirazione è unicamente la realtà, quello che vedo, che vivo e conosco. Sono un osservatore e voglio raccontare i miei personaggi nel modo più credibile possibile. Al momento, per esempio, sto lavorando a un fumetto che racconta di un ragazzo di origini tunisine nato a Bolzano. È ambientato in alcuni quartieri della città a me noti, per cui ho unito le mie esperienze per creare una storia che ho provocatoriamente intitolato “Heimat”. Questa parola in Alto Adige non è utilizzata nella maniera corretta, a mio avviso, se riferita a un sentimento di gruppo. In realtà la Heimat è un’appartenenza individuale, un determinato posto identificato come casa, anche se non ci puoi vivere e non è dove sei nato. Questo è particolarmente significativo per un ragazzo nato qua, ma che non si sente a casa né qui, né nel proprio paese d’origine.

Potrebbe farci una panoramica delle sue opere passate?

Parto da “Misantromorfina”: ambientata in viale Europa (anche se non viene citata esplicitamente), è la storia di cinque ragazzi che non si vogliono bene. Per questo è stata definita come la storia del volersi male. L’ambientazione urbana è arricchita con degli elementi tecnicamente fantastici. Ho realizzato poi con mia moglie, anche lei fumettista e artista, il fumetto ufficiale su Ötzi. Ho lavorato in seguito, insieme a Selma Mahlknecht e a Stefano Zangrando, a una storia dell’Alto Adige per ragazzi vista da un altro punto di vista, che va dall’anno 0 alla Prima guerra mondiale. Insieme allo sceneggiatore Giorgio Salati, specializzato in storie Disney, ho, inoltre, contribuito al libro “Sospeso”, che narra di un adolescente vessato nei primi anni ‘90 che scopre di avere un superpotere, quello di fermare il tempo.

Cosa può dirci invece di quelle presenti e future?

La mia ultima pubblicazione è un cofanetto intitolato “Tales of an imaginary Deadman”, che raccoglie quattro libri. Nel frattempo, il primo lockdown mi ha portato ad avere più tempo per fare l’autore, e ho quindi realizzato un altro libro, che è ancora in fase di collocamento editoriale. Si tratta di un’opera intimista, che parla di qualcosa che mi è capitato realmente, raccontato con il filtro del tempo. Si intitolerà “1991” ed è raccontata con dei continui flashforward: ci sono prima io da ragazzino, poi io da adulto, poi io adesso. Molto improntata su Bolzano, ricreando tutti i vari ambienti della mia infanzia, è una storia impregnata di ricordi. Ma non voglio svelare di più.

 

Chi è l’imaginary Deadman?

Sono io. È un vecchio nickname, nato dall’idea del malato immaginario. Mi piaceva molto giocare sul fatto che il malato immaginario di per sé non è ammalato, è sano, e allo stesso modo il morto immaginario non è morto, ma vivo, vivissimo.

In che senso si innamora delle parole?

Non lo so, capita, è come una fulminazione. Faccio un esempio. Quest’estate in Val Venosta ho visto una Golf di quelle ribassate e con le ruote larghe. E mi sono stupito, perché è dagli anni ‘70 che si vedono queste auto in alcune parti dell’Alto Adige. Poi ho scoperto che le chiamano Ameisenkiller, perché sono talmente basse da ammazzare le formiche. E lì ho pensato: mi piace la parola! Allora mi sono inventato questa specie di strano serial killer in tuta da motociclista che opera sulla MeBo, dentro è fatto di formiche e le spara affinché divorino la gente, una cosa molto horror. La storia va avanti, fino ad arrivare alla distruzione della terra e a una riflessione metafisica sugli spazi paralleli. Succede così: mi innamoro di una cosa, e la mente vaga.

Cosa intende per stile libero?

Sono dell’idea che l’estetica vada dominata, essa è a servizio di quello che vuoi realizzare. Naturalmente ho delle preferenze estetiche e di stile, che è riconoscibile ma mai del tutto fermo, perché nessun fumettista è statico per fortuna, nel bene e nel male. Anche nel mio ultimo libro adotto degli stili eterogeni, che però hanno a che fare anche con dei ritmi diversi. Non dipende solo dall’estetica quindi, ma anche dal ritmo di lettura, dal personaggio rappresentato e dal genere del racconto.

A livello ludico, le persone hanno bisogno di storie, di vivere qualcosa che è al di fuori della propria vita, e quindi il fumetto ha lo stesso scopo del cinema e dei libri

Qual è il messaggio principale dei suoi fumetti?

Nel mio ultimo libro volevo trasmettere un “wow! oh cosa??”… il famoso OMG, nel senso: come mai adesso la storia funziona così? E in più anche il richiamo del “vieni con me, divertiamoci! Anzi, io ti propongo il mio divertimento, che è anche fare questa storia, prova a divertirti insieme a me!”

Qual è il contributo dei fumetti al mondo?

Le istruzioni dell’Ikea! Mi spiego meglio. Una sequenza di immagini che illustra a delle persone delle cose utili, come le istruzioni dei Lego o quelle negli aerei, che ti fanno capire cosa tu debba fare senza che ci sia bisogno di una lingua. Questa è la cosa più utile al mondo del fumetto a livello pratico ed è più universale dei gesti. A livello ludico, le persone hanno bisogno di storie, di vivere qualcosa che è al di fuori della propria vita, e quindi il fumetto ha lo stesso scopo del cinema e dei libri.

Cosa consiglierebbe a qualcuno che volesse iniziare a creare fumetti?

Innanzitutto, portarsi dietro qualcosa per prendere appunti, poi fare delle fotografie e archiviare tutto questo materiale. E poi disegnare, almeno un disegno al giorno, dal vero, di una cosa che non ti piace. Quando diventi un disegnatore, devi saper disegnare tutto ciò che ti serve per la storia. Quindi se ti togli dalla testa che ci sono dei soggetti migliori o peggiori affronti meglio quello che devi disegnare. Inoltre, se ti piace disegnare qualcosa e continui a disegnarla, lo fai per stereotipi, mentre se non conosci una cosa o non ti piace disegnarla, aumenti il tuo spirito di osservazione. È in questo modo che si impara.