Gesellschaft | Gespräch

Alla ricerca del “buono ignoto”

Nel nuovo libro sui cattolici che si opposero a Hitler, Francesco Comina racconta la storia (inedita) del sudtirolese Heinrich Dalla Rosa: “Sono ancora memorie scomode”.
Francesco Comina
Foto: Privat
  • Avevo chiamato Albert tre mesi fa, per sapere come stava, e ci eravamo ripromessi di sentirci per il mio nuovo libro, dove ho raccolto la storia anche di suo padre. Lui era molto contento di questo nuovo lavoro, che allargava l'orizzonte su altre storie dell’antinazismo. Sono molto legato a una foto (in basso) che scattai a Bolzano e che lo ritrae insieme alla figlia di Franz Jägerstätter, Maria”. Francesco Comina è uno dei massimi conoscitori di Josef Mayr Nusser. Al “beato scomodo” ha dedicato un libro, L’uomo che disse no a Hitler. Comina era molto legato al figlio Albert Mayr, musicista scomparso pochi giorni fa all’età di 80 anni: insieme contribuirono a rompere la cappa di silenzio che avvolgeva fino alla fine degli anni Novanta la figura simbolo dell’antinazismo di lingua tedesca. A questo tema è dedicato un nuovo lavoro di Comina, La lama e la croce. Storie di cattolici che si opposero a Hitler (ed. Libreria Editrice Vaticana). “Agnes Heller parlava di ‘etica della bontà’ e, superando il concetto del ‘milite ignoto’, suggeriva di erigere dei monumenti al buono ignoto”, racconta il giornalista bolzanino. E nella sua ricerca è emersa proprio la storia di un “buono ignoto” sudtirolese.

  • Albert Mayr e Maria Jägerstätter Foto: Privat
  • SALTO: Com’è nata l’idea di questo libro?

    Francesco Comina: Non avevo in mente di farlo. Poi il direttore della Libreria Editrice Vaticana, Lorenzo Fazzini, un giorno mi chiama per chiedermi: “Riusciresti a fare un lavoro in cui allarghi un po' il quadro, rispetto al tuo libro su Jägerstätter, tratteggiando altre figure di cattolici cristiani che si opposero a Hitler?”. In un primo tempo gli risposi di no, lui tornò alla carica altre tre volte, finché alla quarta non dissi di sì.

    Da dove è iniziata la sua ricerca?

    Mi sono riguardato alcune delle schede, quelle che a occhio mi sembravano più interessanti, che avevo raccolto al Museo della Resistenza di Berlino — dove è ricostruita la resistenza delle donne, degli operai, dei cristiani, e via dicendo. Un plico di carte che racconta decine di migliaia di storie, delle quali in realtà non conosciamo nulla, o una decina al massimo. Storie di tedeschi solitari o piccoli gruppi, o ancora gruppi un po' più organizzati che hanno cercato di ribellarsi al nazismo. È una storia grande, di cui non abbiamo la percezione perché siamo stati educati, costruiti con l’idea che il popolo tedesco fosse colluso, fatto di volenterosi carnefici di Hitler. Sono storie pressoché sconosciute in Italia, mentre in Germania sono note solo all’interno di piccole nicchie, non alla massa.

    Siamo stati educati con l’idea che il popolo tedesco fosse colluso, fatto di volenterosi carnefici di Hitler.

    Nel libro ho ripreso anche Franz Jägerstätter e Josef Mayr Nusser. Poi mi sono imbattuto in questa strana storia dell'altoatesino….

    Una vicenda, quella di Heinrich Dalla Rosa, che lei ha scoperto casualmente.

    Essendomi occupato di questi argomenti, credevo di aver già scandagliato il panorama altoatesino. Ma un giorno, durante una gita, capito davanti alla chiesa romanica di San Pietro a Lana. All’ingresso, sulla parete di destra, c'è una targa dedicata ad Heinrich Dalla Rosa: "figlio di questa parrocchia”, recita, “nato e cresciuto qui, giustiziato a Vienna”. Poldi (lo storico Leopold Steurer, ndr), mio punto di riferimento, dice di non averla mai sentita prima, se non per un’eco lontana. Idem Hannes Obermair. Sissi Prader del Frauenmuseum di Merano m’indirizza su una ricercatrice di storia da Lana, Elfriede Zöggeler. “Effettivamente è una storia poco conosciuta — mi conferma — io sono una lontana parente e mia madre ce ne parlava. In Austria hanno lavorato su questa storia, vedo quale materiale trovo". E così è nata questa ricerca: Zöggeler mi ha dato un grande contributo a ritrovare questi gruppi nella zona di Graz, dove lui ha vissuto. È una storia totalmente inedita.

    E qual è, dunque, la storia di Dalla Rosa?

    Il padre era trentino, un muratore arrivato in Alto Adige da Levico per trovare un po' di fortuna, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Conosce una donna di Merano, si sposano e hanno quattro figli. Heinrich è il terzo, nato nel 1909 a Lana dove la famiglia aveva comprato casa. Cresce lì con i genitori fino al 1917, quando durante la guerra la madre decide di trasferirsi con il figlio in Austria, mentre il padre va in Trentino per fare dei lavori. Tempo dopo lui li raggiunge vicino a Graz, dove trova lavoro, e lì la famiglia si ricompone. Heinrich fa le scuole a Graz; a un certo punto sente il richiamo religioso, compie gli studi teologici e nel 1935 diventa sacerdote e poi parroco in alcune parrocchie in piccoli paesi. Dopo l’Anschluss del 1938 comincia ad avere pensieri critici rispetto al nazionalsocialismo, soprattutto rispetto alle aggressioni di alcune bande che girano, e comincia a sostenere che i nazisti non vinceranno la guerra, che è tutto un abbaglio. A un certo punto ha un diverbio con un insegnante di estrema destra, già referente di un fronte fascista nel ’29, il quale parla male dei preti e della Chiesa. Heinrich Della Rosa comincia a sentire le lamentele della gente e decide di andarci a parlare, ma non lo trova, c'è solo la moglie a cui dice che “così non può andare avanti”. Lei lo riferisce al marito, lui ne parla alle camicie brune. All’inizio tengono sotto controllo il parroco, lo arrestano però poi lo rilasciano. Ma dopo il tentato attentato a Hitler del luglio ’44 tutti i casi sospetti vengono ripresi in mano: Dalla Rosa viene arrestato nuovamente alla fine dello stesso mese e processato a Vienna. Lui era convinto di cavarsela in qualche modo, che fosse tutto un malinteso attorno a una rimostranza legittima. In realtà viene accusato per questa e altre dicerie in paese, e quindi condannato a morte il 19 gennaio del 1945 e ghigliottinato a Vienna.

  • Heinrich Dalla Rosa Foto: Avvenire
  • “Salutatemi le Dolomiti” furono le sue ultime parole. Su di lui esiste un libro Athesia degli anni Ottanta — senza autore né anno di pubblicazione, quasi un libro clandestino

    Era giovane, molto legato a Lana, dove tra l’altro tornava spesso. Da quanto è stato ricostruito, le ultime sue parole ai compagni di cella, prima di andare a morire, furono “salutatemi le Dolomiti”. La sua storia ha colpito molto a livello nazionale, tanto che sull’Avvenire hanno messo la sua foto (in alto).

    Il suo martirio fu mai raccontato prima?

    Esiste un libro pubblicato dall’Athesia negli anni Ottanta — senza autore e senza anno di pubblicazione, sembra quasi un libro clandestino o censurato — che racconta la storia in maniera molto chiara, con tutte le testimonianze, le lettere, gli scritti. Nella mia bibliografia l’ho citato solo con il titolo, senza autore. Poi ne parla Josef Gelmi in un suo libro. In Austria un poco se n’è parlato: Dalla Rosa è tra i nomi del memoriale a Vienna dei martiri del nazismo e c’era l’ipotesi di una possibile apertura della causa di beatificazione, molto remota. In Alto Adige, per ora, la Curia non ne parla. Al vescovo Muser ho segnalato il mio libro.

    Quanto la resistenza di lingua tedesca al nazifascismo — come quella di Mayr Nusser — è conosciuta oltre Brennero? È una conoscenza essenzialmente locale?

    Ho ricostruito la storia, interessantissima, del gruppo “Rote Kapelle", un’organizzazione con circa duecento aderenti nella sola Berlino, così definita dai nazisti perché considerata una realtà filo-comunista. In realtà era una galassia poliedrica di figure appartenenti a vari ambienti: c'erano cattolici, evangelici, anarchici, comunisti. Fu fondata da un ufficiale nazista che si era convertito al comunismo e dal cugino di Dietrich Bonhoeffer, il famoso teologo protestante. Nel libro racconto le storie di due donne, di 22 e 33 anni, Maria Terwiel ed Eva-Maria Buch. Erano innamorate, amavano la vita, si divertivano… Non c'era solo Sophie Scholl. Ebbene, pensavo fosse questa una storia molto conosciuta in Germania, poi ho chiesto a degli amici di Berlino. “Guarda che anche qui più di tanto non se ne parla”, mi hanno risposto. Nonostante abbiano avuto un certo impatto, queste storie. D’altronde, alle commemorazioni annuali di Jägerstätter ci saranno sì e no cento persone, di cui trenta italiani.

    E come se lo spiega?

    Sono memorie scomode. Ci abbiamo ragionato anche con Poldi Steurer. In Alto Adige, la Volkspartei non parla mai di Mayr Nusser, anzi, quando ne parlava ancora negli anni Ottanta lo faceva in maniera negativa, come di una figura che non apparteneva al gregge. La Chiesa ha fatto questo lavoro di memoria perché si è sentita in dovere di farlo e ha effettivamente poi costruito un percorso per rimetterlo un po' al centro, facendolo diventare un personaggio insomma. Ancora oggi non è però una figura così sentita.

    Sono ancora figure scomode?

    Senza dubbio. Da una parte c’è stata una rimozione iniziale, poi una specie di fastidio per queste figure che incarnavano un dissenso rispetto all’omologazione. E infine la presa di coscienza di un errore di valutazione complessivo rispetto a chi ci aveva visto giusto e perciò rappresentava una spina nel fianco.

    Chi ha disobbedito era malvisto. E rappresentava una spina nel fianco, perché ci aveva visto giusto.

    Anche rimettere in pista la figura di Franz Jägerstätter ha richiesto moltissimo tempo. C’era quest’idea che lui fosse “uno dei nostri, uno di noi” ma improvvisamente si fosse tolto. Era del paese, veniva a bere la birra “con noi”, poi a un certo punto ha conosciuto Franziska e si è ammattito. L’hanno fatto passare per un invasato. Il Ministero degli Affari Sociali a Vienna non ha dato alla famiglia i finanziamenti che le spettavano come caduto in guerra con il motivo che si diceva fosse un po' esaurito. Dopo è subentrata questa difesa dell’appartenenza, la celebrazione delle storie di obbedienza, di chi ha obbedito al dittatore ed è andato a farsi massacrare sui fronti, gente che “ha fatto la sua parte”. Chi invece è andato per i fatti suoi, ha disobbedito, era malvisto. Le associazioni dei veterani di guerra hanno cominciato a manifestare contro una possibile beatificazione di Jägerstätter per non svilire le altre storie. Fino all'anno Duemila lo stesso copione si è visto con Josef Mayr Nusser e Franz Thaler, apprezzati da una stretta cerchia di persone, benvolute, però non c'è un grande fervore su questa storia nel mondo di lingua tedesca.

    In compenso, in Italia e in particolare nel mondo cattolico come in quello pacifista, queste storie godono di un’attenzione particolare.

    In Italia, essendoci più distacco, queste figure sono accolte bene e hanno suscitato un grande interesse, Emergono per il loro valore: la volontà, la fedeltà alla coscienza, la coscienza critica, la difesa della fede dall’omologazione, la radicalità di un messaggio, il coraggio civile, quello eroico. E riscattano i silenzi di una certa parte della Chiesa che non ha fatto i conti con la storia. Sono dei testimoni, rappresentano la parte autentica della testimonianza e sono percepiti come persone autentiche nella difesa di valori forti di libertà e dignità.

    Come mai alcune storie hanno avuto grande seguito e altre sono rimaste più confinate?

    A Monaco il gruppo attorno a Walter Klingenbeck, nelle stesse strade, nelle stesse vie, nello stesso ambiente della Rosa Bianca faceva le medesime cose— e per questo Klingenbeck fu ghigliottinato a 19 anni. Figlio di un sacrestano, cresciuto nelle organizzazioni mariane, col padre ascoltava le radio proibite, la BBC ma pure Radio Vaticana (fu tra i capi d’imputazione: Radio Vaticana parlava del concordato non rispettato dai nazisti, raccoglieva le voci critiche dei cattolici germanici che si sentivano perseguitati…). Prima di morire Walter disse: “Ricordatemi con un padre nostro”. Le famiglie della Rosa Bianca hanno fatto molto per ricordare i loro ragazzi, mentre la famiglia Klingenbeck ha voluto rispettare il volere di Walter: “Lo ricordiamo solo con un padre nostro”, di qui la disparità con la Rosa Bianca, che aveva intercettato personaggi come Thomas Mann o Romano Guardini. Comunque, dopo ottant’anni, il vescovo di Monaco ha insediato una commissione per la causa di beatificazione di Walter Klingenbeck.

    Cosa ci insegnano? Il dissenso rispetto all’omologazione, l'autonomia di giudizio, la presa di coscienza davanti a un dilemma radicale.

    Qual è il valore del raccontare queste storie oggi? Cosa ci insegnano?

    Uno degli elementi più preoccupanti nel nostro sistema l’aveva individuato già Pasolini nel 1974, ovvero il rischio che il sistema mediatico, diventato “social”, crei un’omologazione funzionale, per cui siamo più o meno spinti a pensarla tutti allo stesso modo. A scuola gli studenti mi raccontano le forme di deriva nella società, che loro vivono in maniera diretta con un linguaggio violento, di odio, capovolto, dove termini negativi diventano quasi positivi, con la riabilitazione di parole preoccupanti, come patriarcato, violenza, dominio, con vite tenute come oggetti sotto scacco. C'è il rischio che soggetti fragili, senza visione critica, senza autocritica, vengano plasmati da una società unidirezionale e omologante. Le storie di questi giovani, di queste persone insegnano l'autonomia di giudizio, la presa di coscienza davanti a un dilemma radicale, ovvero un approccio critico di fronte alla realtà della storia. Queste storie insegnano a mantenere vigile la luce della coscienza, che può non conciliarsi con la storia che incombe. Erano scelte molto coraggiose, difficili, vissute in maniera molto drammatica: si tratta di dover scegliere da che parte stare, dove collocarsi nella storia anche in una società democratica. È la supremazia, il primato della coscienza.

Bild
Profil für Benutzer Luca Marcon
Luca Marcon So., 04.02.2024 - 10:30

«Siamo stati educati con l’idea che il popolo tedesco fosse colluso, fatto di volenterosi carnefici di Hitler.»

In realtà è vero il contrario. Dal processo di Norimberga in poi la tesi autoassolutoria del popolo tedesco (germanico, austriaco e financo sudtirolese) è sempre stata la stessa: Hitler, il suo cerchio magico e le SS, i cattivi; tutti gli altri, delle vittime, costrette a comportarsi come si sono comportate perché altrimenti ci avrebbero rimesso la pelle. Basti solo pensare al cosiddetto mito della "Wehrmacht pulita", per confutare il quale sono dovuti passare più di quarant'anni.
C'è voluto quasi mezzo secolo perché emergessero le vere corresponsabilità di una popolazione intera e si cominciasse seriamente ad affrontare la questione della colpa. E se c'è una data da citare, è proprio quella relativa alla pubblicazione de «I volonterosi carnefici di Hitler» del 1996 dello storico Daniel Goldhagen, libro che in Germania, e non a caso, scatenò un putiferio indescrivibile.
Riguardo invece a queste figure di cattolici che si opposero a Hitler pagando con la vita, come non ricordare il contraltare costituito dalla vicenda della Ratline, dove esponenti di primo piano della Chiesa - Il vescovo Alois Hudal su tutti - si adoperarono per permettere a criminali nazisti del calibro di Adolf Eichmann e Josef Mengele (L'angelo della morte di Auschwitz) di fuggire dall'Europa?
Creare la figura dell'eroe mitizzando il singolo non spiega la storia, anzi: la altera. Questa ricerca del "buono ignoto", cui prodest?

«insieme contribuirono a rompere la cappa di silenzio che avvolgeva fino alla fine degli anni Novanta la figura simbolo dell’antinazismo di lingua tedesca.»

La cappa di silenzio è stata rotta forse per un ristretto gruppo di intellettuali che si occupano del tema. L'opinione pubblica - per non parlare dell'opinione di massa - continua a saperne poco o nulla: non esiste a questo livello sociale una rielaborazione del nazismo sudtirolese degna di questo nome.

So., 04.02.2024 - 10:30 Permalink
Bild
Profil für Benutzer Martin Streitberger
Martin Streitberger So., 04.02.2024 - 15:58

Penso, che queste storie di minoranza siano più che importanti e molto plausibili per capire la storia delle dittature nazifasciste ed é più che coerente erigere un monumento al buono ignoto per riflettere cosa sta succedendo anche d'intorno a noi: Putin, i saluti fascisti romani a Roma o gli Stati Uniti D'America che si spaccano in due, a causa di Trump che non accetta il pensiero degli cosidetti altri o "buon pensanti" e che si proclama apertamente un dittatore per difendersi dall'immigrazione! Questi pensieri autocratici, a caccia di voti, si svelano purtroppo radicati anche da noi a Bolzano. Quindi perchè no, costruiamo due monumenti, pure un secondo monumento per difendere la democrazia, nella quale più pensieri valgano.

So., 04.02.2024 - 15:58 Permalink
Bild
Profil für Benutzer Peter Gasser
Peter Gasser So., 04.02.2024 - 16:06

Zitat: „ In realtà è vero il contrario. Dal processo di Norimberga in poi la tesi autoassolutoria del popolo tedesco (germanico, austriaco e financo sudtirolese) è sempre stata la stessa: Hitler, il suo cerchio magico e le SS, i cattivi; tutti gli altri, delle vittime, costrette a comportarsi come si sono comportate perché altrimenti ci avrebbero rimesso la pelle.... C'è voluto quasi mezzo secolo perché emergessero le vere corresponsabilità di una popolazione intera e si cominciasse seriamente ad affrontare la questione della colpa“:
Gilt dies analog also auch für Italien und seine Faschisten: nicht nur Mussolini und seine Faschisten- Organisationen, sondern „le vere corresponsabilità di una popolazione intera“ von Italienern, also ein ganzes Volk von Faschisten, wie Sie analog zu Ihrer These und Ihrer Meinung also darlegen?.
.
Und die heutige Regierung mit der „fiamma tricolore“ und den hunderten mit dem saluto fascista - heute? Herr Macron? ... nur Schweigen?

So., 04.02.2024 - 16:06 Permalink