Gesellschaft | Povertà

“Il giornalismo è in cortocircuito”

Tra le ospiti di “Mondo in fame”, l’evento del 6 aprile organizzato da Oxfam, c’è anche la cofondatrice del collettivo giornalistico Fada, Sara Manisera: “Per affrontare le grandi crisi globali serve sostenere il giornalismo di qualità”
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Foto: manisera
  • La giornalista freelance Sara Manisera sarà ospite a Bolzano sabato 6 aprile in occasione di “Mondo in fame”, l’evento promosso da Oxfam Italia, insieme al Centro Pace e alla Provincia, che metterà il focus sulla crisi alimentare. La reporter, cofondatrice del collettivo Fada, negli anni si è occupata di donne, conflitti e società civile in Medio Oriente, lavorando principalmente in Libano, Siria, Iraq e Tunisia, inoltre ha collaborato con numerose testate internazionali tra cui The Guardian e Al Jazeera.

    SALTO: Come nasce Fada e quanti freelance raduna in giro per il mondo?

    Sara Manisera: Il collettivo, nato nel 2020 ed ora diventato un’Associazione di Promozione Sociale, si è formato dopo che, con alcuni colleghi, ragionammo sullo stato di salute del giornalismo italiano. Molti freelance si vedevano pubblicare i propri reportage in numerosi Paesi europei, ma mai in Italia. Dunque c’era qualcosa che non funzionava. Volevamo trovare un modo per pubblicare anche sui giornali italiani, che non danno troppo spazio ai lavori fatti sul campo, perché richiedono molto tempo. Il nostro obiettivo è fare giornalismo con un’etica, agevolando la cooperazione tra i reporter. Oggi la rete Fada conta più di 70 freelance.

    Oltre ai classici articoli avete pubblicato anche dei documentari.

    Certo. Per raggiungere le persone serve utilizzare linguaggi differenti. Le nostre inchieste sono fatte anche di filmati e documentari, che sono realizzati da più persone. In Iraq, per esempio, collaboriamo anche con le persone del posto. Quasi tutti i reportage sono dei lavoro di gruppo.

    Da anni analizzi e racconti dei problemi che sono enormi e hanno una portata globale, come la crisi alimentare. Come si possono comunicare determinate tematiche che sono apparentemente lontane da noi?

    La chiave per spiegare i grandi fenomeni mondiali è il racconto delle piccole storie, quelle delle persone che quotidianamente vivono le realtà su cui si fa luce nel reportage. Noi giornalisti dobbiamo unire i punti. Ad esempio, possiamo far capire alla popolazione che una banana mangiata a Bolzano ha delle conseguenze in altre zone del mondo e sulle vite di agricoltori lontani. E poi bisogna collegare le storie all’inchiesta, ricercando e attribuendo le responsabilità. Spesso quest'ultimo passaggio i giornali se lo dimenticano: spiegano un problema ma omettono di scrivere la causa e di citare i responsabili. 

  • Sara Manisera (a sinistra): "I reportage vengono pagati poco e sono molto costosi. Per lavorare 20 giorni in un Paese del Medio Oriente si spendono come minimo 30 mila euro. Infatti possiamo permettercelo solo se partecipiamo, ad esempio, ai bandi europei". Foto: silvia mazzocchin/festivaldelgiornalismo.com
  • Il progetto: oltre all'evento del 6 aprile, Manisera è stata ospitata da alcune scuole di Bolzano Foto: manisera

    Perché questo avviene?

    Succede perché i giornali sopravvivono grazie ai finanziamenti delle grandi multinazionali del cibo o dei combustibili fossili. Dunque non sono veramente indipendenti e non andranno mai ad attaccare chi li sostiene economicamente. E poi c’è il problema della concentrazione del potere. In Italia l'editore di un giornale è quasi sempre “impuro” e quindi, a differenza degli editori “puri” che si occupano quasi solo di editoria, ha interessi anche in altri ambiti. Dunque il proprietario di un giornale non accetterà mai di pubblicare con la “sua” testata giornalistica un reportage che va contro una propria attività economica, una propria azienda. È questo il motivo principale dell’assenza di certe tematiche nel dibattito pubblico italiano. Il potere è concentrato nelle mani di pochi personaggi o poche aziende. C’è un cortocircuito. Molte inchieste dei freelance del collettivo Fada sono state pubblicate sui principali media europei, ma non sono finite su quelli italiani.

    Il potere è concentrato nelle mani di pochi personaggi o poche aziende

    Come fate a farvi accettare un lavoro da un giornale di cui non fate parte? Come riuscite a sostenere i costi del lavoro?

    Il primo passo è proporre un tema all’editor di una testata. Poi si cercano i finanziamenti. I reportage vengono pagati poco e sono molto costosi. Per lavorare 20 giorni in un Paese del Medio Oriente si spendono come minimo 30 mila euro. Infatti possiamo permettercelo solo se partecipiamo, ad esempio, ai bandi europei. Questo è il momento in cui smettiamo di fare i giornalisti e iniziamo a fare i contabili, perché la burocrazia è lunghissima. Dall’idea iniziale alla realizzazione del prodotto finale passa molto tempo e si spendono un sacco di energie.

    Il tuo intervento del 6 aprile ha come titolo: “La storia non raccontata delle crisi alimentari. Colpa del giornalismo?”. Se non si parla di certi temi, quindi, di chi è la responsabilità?

    Come dicevo prima, da una parte è responsabilità degli editori. Ma oggi, ancor di più, è colpa dei lettori, che dovrebbero imparare a sostenere il giornalismo di qualità. Serve ricostruire una comunità di persone informate. Come si paga l’idraulico per un buon lavoro, si dovrebbe pensare di pagare anche un giornalista per un’inchiesta, un reportage o un documentario.
    Oggi siamo bombardati da quelle notizie che, riprendendo il termine legato al cibo, chiamerei “fast-news”. Notizie che non saziano, che non ci danno nulla, ma da cui siamo circondati. Ecco, la soluzione sarebbe sostenere i pochi che fanno un'informazione di qualità, lenta e approfondita. Anche solo per un articolo a settimana.
    Sono consapevole che questo sia un percorso culturale e sia anche molto lento.

    Nella tua carriera ti sei occupata spesso di cibo.

    Sì e l’ho fatto da punti di vista differenti. Ho parlato di caporalato e sfruttamento dei lavoratori, ma anche della filiera del grano. Nel 2023 ho analizzato gli spostamenti del grano per vedere da chi fosse controllato. Il lavoro si chiama Le mani in pasta, racconta degli “approfittatori della fame”.

    Cos’hai scoperto?

    Che c'è un grande oligopolio. Tutto è controllato da 4/5 grandi aziende. Quando c’è un problema, come la crisi di un settore, come giornalisti dobbiamo andare a monte, per capire come si è arrivati fino a quel punto. Bisogna saper spiegare ai cittadini le contraddizioni.

    Prima parlavi di “utilizzare diversi linguaggi” per arrivare ai lettori. Cosa ne pensi del modo in cui avviene l’informazione sui social? Il collettivo Fada utilizza alcune piattaforme?

    Sì, siamo presenti sui social più noti, però non utilizziamo molto questi mezzi. Anzi, cerchiamo di starne alla larga. Abbiamo una newsletter, ma nulla di più. Forse i social, con i loro ritmi frenetici, hanno rovinato la professione giornalistica, alimentando ancora di più quelle che prima ho chiamato “fast-news”.