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Abuso di immagini

23 giugno si è tenuto il convegno “Criminalising Image Abuse” presso unibz che ha trattato un argomento molto attuale: la diffusione non consensuale di immagini intime.
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simposio
Foto: (c) unibz

Quasi ogni donna conosce l’orrore, l’imbarazzo, il fastidio e la rabbia di trovarsi la foto non richiesta di genitali maschili sullo schermo del proprio telefonino. E purtroppo tante donne conoscono anche l’orrore ancora più grande di scoprire che le proprie foto intime, destinate solo e soltanto agli occhi di un partner sessuale, sono state condivise senza consenso e che adesso girano liberamente sul web con effetti spesso devastanti.

I dickpics e il revenge porn sono solo due forme di diffusione non consensuale di immagine intime. Kolis Summerer è professore associato di diritto penale presso la Facoltà di Scienze della Formazione della Libera Università di Bolzano nonché coordinatrice scientifica del convegno “Criminalising Intimate Image Abuse”, che si è tenuto il mese scorso presso unibz e dove si è discusso di come contrastare e combattere questi fenomeni.

salto.bz: Gentile Professoressa Summerer, La ringrazio per il Suo tempo. Lei è stata la coordinatrice scientifica della conferenza internazionale “Criminalising Intimate Image Abuse” che si è tenuta alla Libera Università di Bolzano il 23 giugno. Cosa può raccontarci dell’iniziativa?

Prof.ssa Summerer: Il convegno si è tenuto nell’ambito del progetto di ricerca “Creep”, attivo presso unibz dal 2019, che si propone di studiare – secondo diverse angolature – lo sfaccettato problema della diffusione di immagini di carattere intimo. Il convegno è stato sostenuto anche dalla Fondazione Cassa di Risparmio. Con l’iniziativa della scorsa settimana abbiamo voluto riunire a Bolzano tutti i principali esperti mondiali di pornografia non consensuale, per aprire un confronto veramente internazionale sul tema e condividere insieme un percorso di ricerca delle soluzioni più efficaci. Grazie alla riflessione comune avviata la scorsa settimana, il prossimo anno, insieme a Gian Marco Caletti, che ha organizzato insieme a me l’evento, pubblicheremo un volume con una primaria casa editrice internazionale. La raccolta di scritti riporterà non solo i risultati del convegno, ma allargherà lo spettro anche ad altri autori provenienti da Canada, Australia, America Latina e Asia, al fine di rendere veramente globale il dibattito. Confidiamo davvero che possa diventare un punto di riferimento nella letteratura internazionale.

Chi ha partecipato all’incontro e quali temi sono stati i temi toccati?

Al simposio hanno partecipato dieci studiosi stranieri di sei nazioni diverse (USA, Regno Unito, Germania, Austria, Spagna e Portogallo) e alcuni professori italiani. Tra loro i partecipanti internazionali spiccano la professoressa Danielle Citron (Virginia University) e la professoressa Clare McGlynn (Durham University), che sono state le prime studiose nel mondo a sollevare la necessità di criminalizzare il fenomeno della diffusione di immagini sessualmente esplicite e, ancora oggi, sono in prima linea nella comprensione dei problemi e nella ricerca di soluzioni.

Il numero e la preparazione dei relatori hanno permesso di spaziare tra moltissimi argomenti: dal problema del sexting minorile al ruolo che il diritto penale deve assumere davanti alle nuove forme di pornografia, dall’insorgere di un nuovo diritto come la “sexual privacy” fino alle possibili responsabilità delle piattaforme online, passando ovviamente per il tema del consenso e delle più recenti forme di abusi mediante immagini.

A livello metodologico, abbiamo previsto un’ampia discussione in ogni sessione, in modo da favorire lo scambio di idee e far emergere l’esperienza di ciascuno dei diversi paesi coinvolti sui temi affrontati e offrire una reale comparazione giuridica.

Accennava prima al progetto di ricerca “Creep” che cerca di approfondire la tematica del revenge porn. Vuole raccontare meglio di che cosa si tratta?

Il progetto “Creep” (“Trust me, it’s only for me“. Criminalizing “Revenge Porn”?) si propone di approfondire il tema della divulgazione non consensuale di immagini intime o sessualmente esplicite in relazione alle possibili risposte sul piano legale e, in particolare, della sua criminalizzazione. Il fenomeno è noto a livello mediatico con il neologismo inglese “Revenge porn”. Si tratta, tuttavia, di un’espressione altamente fuorviante, che presenta numerose implicazioni stigmatizzanti nei confronti della vittima della diffusione delle immagini e sarebbe bene, dunque, non utilizzarla. La pornografia non consensuale presenta numerose questioni a livello giuridico ed impone, dato il suo forte impatto sulla società, una profonda riflessione sul “se” e sul “come” disciplinarlo. In particolare, similmente a quanto accade per altre tipologie di Cybercrime, anche la diffusione non consensuale di immagini intime evidenzia le difficoltà degli ordinamenti giuridici a confrontarsi con le problematiche sollevate dalla costante evoluzione delle moderne tecnologie dell’informazione. Per fronteggiare tale complessità, il progetto adotta un approccio altamente interdisciplinare: l’elaborazione di una adeguata ed efficace risposta legislativa alla pornografia non consensuale, infatti, non può che passare attraverso una comprensione del fenomeno nei suoi diversi aspetti, coinvolgendo più aree scientifiche e disciplinari. Per esempio, il diritto e i suoi possibili rimedi, l’informatica, la psicologia e le scienze sociali. Per questo, il progetto “Creep” riunisce ricercatori dell’Università di Bolzano di diverse discipline e autorevoli attori del territorio locale come la Polizia Postale del Trentino-Alto Adige, il Centro antiviolenza per donne in situazione di abuso di Trento, l’Associazione Gea per la solidarietà femminile contro la violenza e l’Euregio Platform on Human Dignity and Human Rights.

Maggiori informazioni sul progetto, ma anche molti materiali utili, comprese le nostre pubblicazioni si trovano sul nostro sito: https://creep.projects.unibz.it/it/home/

Kolis Summerer © unibz

Se pensiamo alla diffusione non consensuale di immagini intime, la prima cosa che viene in mente sono il revenge porn e i cosiddetti dickpics. Ma ci sono anche altre forme di abusi di immagini intime?

Come accennavo, l’espressione “revenge porn” è altamente fuorviante: l’abuso avviene in ogni caso di condivisione di immagini sessualmente esplicite, a prescindere dalle finalità perseguite dall’autore della condotta illecita. Bisogna quindi prendere consapevolezza, anche a livello mediatico, che il problema non è solo il revenge porn, ma ogni forma di condivisione o diffusione di immagini sessualmente esplicite senza il consenso della persona ritratta. Non solo, anche la minaccia di condividere le immagini, la cosiddetta sextortion, ovvero estorsione a sfondo sessuale e la captazione delle immagini in modo non consensuale costituiscono parte del problema e sono da ritenersi illecite.

Ci sono casi anche di illeciti perpetrati da donne, ma le statistiche parlano chiaro: il 90% degli abusi è commesso nei confronti di donne.

Come è emerso anche nel corso del simposio, stanno emergendo una molteplicità di nuovi abusi basati sulle immagini sessuali, come il deepfake, ovvero la sostituzione del viso in un’immagine pornografica, o l’invio di foto di nudo sgradite (dickpicks o cyberflashing). Si tratta di condotte sulle quali è bene iniziare a ragionare.

Ci sono dati statistici su questo tipo di abusi in Italia?

Purtroppo, la rilevazione statistica sul tema nel nostro paese è molto indietro rispetto ad altri contesti. Emergono studi perlopiù sensazionalistici, ma la cui affidabilità è tutta da dimostrare. Con l’indagine statistica del progetto Creep stiamo provando a colmare in parte questa lacuna. Tuttavia, realizzare indagini empiriche non è affatto semplice, specie quando implicano il trattamento di dati particolarmente sensibili come quelli a sfondo sessuale.

Quindi all’interno del progetto “Creep” è stata lanciata anche un’indagine statistica. Che cosa vuole approfondire?

Sì, il team del progetto, sotto la supervisione della Prof.ssa Brighi, docente di psicologia dello sviluppo presso unibz, ha realizzato un questionario, al quale è ancora possibile rispondere (https://creep.projects.unibz.it/it/survey/ ). L’indagine mira a mappare l’incidenza del sexting e degli abusi sessuali commessi online (“revenge porn” e sextortion) su tutto il territorio nazionale, allo scopo di individuare i fattori di rischio sul piano psicologico e comportamentale. L’indagine consentirà di acquisire conoscenze utili alla messa a punto di interventi di prevenzione, contribuendo a sviluppare una maggiore consapevolezza degli effetti di questo tipo di abuso e a combattere il senso di isolamento e la solitudine che vanno ad accrescere gli effetti della violenza per le vittime della pornografia non consensuale.

A proposito di statistiche, è vero che sono gli uomini a commettere abusi basati sulle immagini? Non esistono anche donne che lo fanno?

Ci sono casi anche di illeciti perpetrati da donne, ma le statistiche parlano chiaro: il 90% degli abusi è commesso nei confronti di donne. Più in generale, è possibile affermare che le vittime di queste condotte lesive appartengono a categorie vulnerabili, come minori, persone disabili, persone oggetto di discriminazione, come per esempio le persone LGBTQIA+.

Immagino che durante il convegno si sarà parlato anche di pornografia in generale. In realtà la pornografia è vecchia quanto l’umanità. E storicamente la pornografia è sempre anche stata condivisa. Basta pensare alle cartoline erotiche dei secoli scorsi, o anche a giornali osé come il Playboy. Quale gusto c’è nella condivisione? E come sono cambiate le dinamiche di condivisione nell’era del digitale?

È chiaro che le nuove tecnologie hanno cambiato molto queste dinamiche. Per certi versi hanno anche favorito, come avvertono alcuni sociologi, una estremizzazione del desiderio di condividere materiali. Da un lato, le persone vogliono “fissare” ogni momento della loro vita e gli smartphones danno questa possibilità. Dall’altro, i social networks rendono del tutto normale condividere qualsiasi cosa. È chiaro che queste dinamiche si riflettono anche sui comportamenti sessuali. Non a caso, dopo l’introduzione ai temi del simposio e alla keynote di Danielle Citron sul concetto di sexual privacy, abbiamo pensato di iniziare il convegno affrontando il tema del sexting minorile, ovvero l’abitudine di scattarsi foto e scambiarsele tra i più giovani.

Purtroppo, ad oggi, non esiste un modo per difendersi da una possibile condivisione e diffusione delle proprie immagini

Si tratta di un fenomeno che, oltre a produrre moltissimi materiali suscettibili di essere poi diffusi in rete, senza consenso, e di divenire oggetto di abuso, presenta questioni giuridiche non indifferenti. Immagini che raffigurano minori di età, infatti, integrano materiale pedopornografico secondo le definizioni giuridiche di quasi tutti i paesi del mondo.

Il secondo panel era incentrato sul consenso. Il consenso è cruciale in tutte le relazioni, ma soprattutto in quelle di tipo sessuale. Molte donne acconsentono ad inviare foto di nudo ad un'altra persona a patto che queste restino private. E in questo non c’è nulla di sbagliato. Il reato si consuma, quando appunto queste foto vengono condivise a terzi senza il consenso della donna in questione. E questo rischio c’è quasi sempre. Ma esistono anche modi di proteggersi da una possibile condivisione? Esistono modi per fare sexting in modo sicuro?

Il consenso è il perno attorno al quale ruota l’illiceità delle condotte di cui stiamo parlando. L’offensività delle stesse deriva proprio dal fatto che esse sono realizzate senza il consenso delle persone coinvolte. Sotto questo profilo, gli esperti partecipanti al convegno concordavano con un’idea sviluppata proprio dal team del progetto Creep, ovvero che per ritenere consensuale la condivisione di immagini sessuali serva il consenso espresso ed esplicito della persona raffigurata. In ogni situazione, anche la più ambigua, chi voglia condividere un’immagine deve chiedere l’autorizzazione alla persona ritratta. Questa idea, oltre che in alcuni lavori scientifici era stata proposta dal mio collega Gian Marco Caletti proprio in un’intervista alla vostra piattaforma. (https://www.salto.bz/de/article/23122019/revenge-porn-non-ce-solo-la-vendetta).

Purtroppo, ad oggi, non esiste un modo per difendersi da una possibile condivisione e diffusione delle proprie immagini, al di là del buon senso e della prudenza. Il diritto e la tecnologia non sono ancora in grado di offrire strumenti per fare sexting “in sicurezza”.

Spesso, inoltre, sono le donne ad essere accusate di avere un comportamento sbagliato o amorale quando le vicende di revenge porn diventano pubbliche. Questo fenomeno si chiama victim blaming e può avere delle conseguenze devastanti sulle vite delle donne. Ma da dove nasce? Che cosa spinge i media e la società a dare la colpa alle vittime e non a chi le rende tali?

Il victim blaming non è certo una novità. Esso deriva dalla tendenza, che contrassegna i reati sessuali tradizionali come la violenza sessuale, di focalizzarsi più sul comportamento della vittima che su quello dell’autore. Nei casi di intimate image abuse questo fenomeno è particolarmente evidente, perché si ritiene che la vittima si sia volontariamente esposta ad un pericolo condividendo una propria immagine sessuale col partner o prestandosi a realizzarla. Il termine revenge porn, come accennavo prima, è proprio espressione di questo pregiudizio ed è quindi particolarmente dannoso. Il termine non soltanto non coglie l’eterogeneità delle condotte riscontrabili nella realtà, ma suggerisce che l’autore del fatto abbia agito per vendetta, cioè in risposta ad un torto commesso dalla vittima, inducendo in qualche misura a giustificare la condotta dell’autore ed a colpevolizzare la vittima. Allo stesso modo, il riferimento al “porn” lascia intendere che la vittima si sia prestata a realizzare contenuti pornografici, ovvero funzionali all'eccitamento sessuale di un pubblico. Non è così, naturalmente. La vittima ha semplicemente acconsentito (e talvolta nemmeno questo!) a realizzare materiali intimi da fruire all’interno della coppia. Sin dall’inizio del progetto abbiamo sottolineato, sulla scorta di quanto già da tempo acquisito dagli studiosi di altri paesi, la necessità di abbandonare l’espressione revenge porn in favore di espressioni più corrette e meno stigmatizzanti (quali, ad es., intimate image abuse).

Insomma, non sempre è presente la volontà di danneggiare la vittima.

Vorrei peraltro aggiungere, a questo proposito, che ultimamente l’atteggiamento dell’opinione pubblica è mutato notevolmente, forse anche in conseguenza della introduzione della nuova legge. Rispetto alla triste vicenda di Tiziana Cantone, che fu derisa anche dai mezzi di informazione ufficiali, mi pare che in occasione degli ultimi episodi l’opinione pubblica si sia schierata con decisione dalla parte delle vittime e che certi stereotipi non siano stati riproposti.

Il terzo panel ha affrontato i diversi modi di perseguire penalmente l’abuso di immagini. Com’è la situazione attuale in Italia?

Si è trattato del panel più tecnico, del quale è difficile offrire una sintesi. Sicuramente è stato utile per ribadire i punti deboli della legislazione italiana (e in particolare dell’art. 612-ter del Codice penale), che sono essenzialmente due. Da un lato, la legge parla di immagini destinate a rimanere private. Questo è un requisito altamente problematico, perché spesso le immagini non sono prodotte in contesti di riservatezza (si pensi al voyeurismo, al cyberbullismo, alle riprese di stupri e così via). Si tratta di casistiche che rischiano di rimanere fuori dall’ambito applicativo della norma.

Dall’altro, la legge richiede che l’autore che condivide le immagini abbia la finalità di arrecare nocumento alla vittima. Si tratta di un elemento difficile da provare e che comunque spesso non ricorre: come dicevamo, le immagini spesso sono condivise per scherzo, magari con leggerezza, per finalità sessuali, talvolta anche per conseguire un guadagno economico. Insomma, non sempre è presente la volontà di danneggiare la vittima.

Del resto, la legge è stata approvata molto rapidamente, con un’attenzione circoscritta al solo revenge porn in senso stretto e senza un adeguato approfondimento criminologico. Ora cominciamo a vederne gli effetti nelle prime applicazioni da parte delle Corti.

Nell’ultimo panel invece si è parlato di come proteggere le vittime. In Italia attualmente le vittime quali possibilità tecnologiche hanno per cancellare le immagini?

Si tratta di uno dei temi più complessi. È chiaro che il primo obiettivo di chi subisce questi abusi non è tanto mettere sotto processo il colpevole, quanto riuscire a rimuovere rapidamente le immagini da Internet. L’ultimo panel ci ha consentito di riflettere su questi profili e, nello specifico, sul ruolo delle piattaforme digitali che ospitano contenuti postati dagli utenti (i cosiddetti Internet Service Provider) nel contrasto a questo fenomeno. Nel corso del convegno abbiamo esaminato la legge tedesca che disciplina le responsabilità dei provider e abbiamo parlato delle prospettive di regolamentazione in chiave europea. Nell’ambito del progetto Creep la questione degli strumenti per prevenire la presenza di contenuti illeciti in rete e per garantire la loro rimozione è oggetto di studio anche da parte dei colleghi di informatica, che stanno dedicando le loro energie alla ricerca di nuove strategie e applicazioni.

Sia il progetto “Creep” che il simposio sono sostenuti dalla piattaforma Euregio per la dignità e i diritti umani. Di che cosa si tratta?

La piattaforma Euregio per la dignità umana e i diritti umani è un progetto comune delle Università dell’Euregio Bolzano, Innsbruck e Trento e dell’Accademia di Studi italo-tedeschi di Merano, che ha lo scopo di indagare scientificamente, coinvolgendo anche la società civile, temi di particolare rilievo all’interno del dibattito internazionale intorno ai diritti umani. La piattaforma sostiene e promuove iniziative e attività in questo campo (per es., progetti di ricerca, convegni, conferenze e seminari, formazione e sensibilizzazione della cittadinanza, pubblicazioni ecc.).

Ultima domanda: le vicende di abuso di immagini fanno molto scalpore nei media e sono uno di quegli argomenti che tendono a dividere la società. Ma perché è importante parlarne? E che cosa dovremmo imparare noi come società per ridurre i casi di abuso di immagini in futuro?

Proprio perché gli strumenti, sia giuridici che tecnologici, sono del tutto insufficienti per garantire una piena protezione delle vittime, l’opera di prevenzione è assolutamente fondamentale. L’educazione digitale è un passaggio essenziale, sul quale è necessario investire maggiormente. Occorre non soltanto diffondere l’uso consapevole e informato delle tecnologie e degli strumenti digitali, ma anche educare le persone al rispetto dell’altro, condannando fermamente gli atteggiamenti violenti e discriminatori e l’odio in rete. Purtroppo, il “Codice rosso” che ha introdotto il nuovo reato di diffusione di immagini sessualmente esplicite non ha previsto nulla al riguardo. In Inghilterra, per fare un esempio, quando è stato introdotto lo stesso reato si sono destinate diverse decine di milioni di euro all’anno a strategie di educazione e sensibilizzazione su questi temi.

 


Il Codice Rosso, a cui si riferisce la professoressa Summerer, è una legge introdotta in Italia nel luglio 2019, volta a tutelare donne e altri gruppi vulnerabili che subiscono atti di violenza e stalking. La sua introduzione è stata fortemente incentivata dalla vicenda di Tiziana Cantone. La donna originaria di Casalnuovo di Napoli si è suicidata il 13 settembre 2016, dopo che alcuni suoi video a sfondo sessuale erano finiti online senza il suo consenso. Tiziana Cantano ha cercato di fargli rimuovere dal web senza successo, anche intentando cause legali e diventando in seguito un caso mediatico nonché un meme.

All’inizio di quest’anno invece, il caso di una maestra della scuola dell’infanzia licenziata a seguito della scoperta di contenuti intimi che la raffiguravano in rete è diventato noto. In Austria recentemente si è scoperto un caso particolarmente grave di sextortion. Un uomo di 20 anni di Feldkirch è stato truffato e ricattato da un altro uomo tedesco di 27 anni che fingendosi una donna ha chiesto al ventenne di mandargli contenuti a sfondo sessuale, minacciando in seguito di pubblicarli online e ottenendo un riscatto di più di 100mila euro. Come dimostrano questi esempi, l’abuso di immagini resta un tema attualissimo, non solo per la ricerca e per i dibattiti politici.