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La cinescrittura di Agnès Varda

A novant’anni è morta la regista francese che viene considerata la “madre” della “nouvelle vague” sorta a Parigi negli anni sessanta.
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Foto: upi

Se n’è andata un’altra grande del cinema, del cinema francese, Agnès Varda, classe 1928, è morta lo scorso 29 novembre. Se n’è andata in silenzio, com’era il suo modo di fare, sempre sorridente, con quei suoi occhi scuri e il suo tipico caschetto di capelli lisci, dapprima neri, poi tinti nella tonalità rosso-marron, tipica dell’hennè, con l’attaccatura nel colore bianco naturale per creare una testa bi-color, riconoscibile ovunque tra la gente nei vari festival che frequentava. Ci ha lasciato una bella eredità, oltre venti lungometraggi e un’altra ventina di corti, realizzati nel giro dei quasi sessant’anni di carriera. Iniziamo dalla fine, dall’ultimo film che ha girato anche nelle sale italiane, Visages, villages, codiretto con l’artista JR, andando in giro per la Francia a cercare “volti” nei “villaggi”, appunto, per poi stamparli in formato gigantesco e attaccarli alle mura delle case o di muri per rendere omaggio ai suoi abitanti.

La fotografia era il suo mezzo espressivo sin dai primi anni in cui si era trasferita a Parigi. Nata in Belgio da padre di origine greca e madre francese, la sua famiglia dovette fuggire durante la seconda guerra mondiale e si installò su un battello sulla costa di Sète nell’Occitania, nel sudest della Francia, il luogo di origine della madre. A Parigi aveva studiato storia dell’arte e poi fotografia presso la scuola Vaugirard. Poi lavorò per un periodo come fotografa, ma da subito ebbe voglia di sperimentare con la composizione, le forme e i significati di una immagine. Il suo amico Jean Vilar, uomo di teatro, quando nel 1951 aveva fondato il Théâtre National Populaire, la ingaggiò come fotografa di scena ufficiale, anche perché si era già fatta un nome facendo scatti interessanti al Festival di teatro ad Avignone. Il suo sperimentare la portava sempre di più verso il cinema e nel 1955 realizzò il suo primo film La Pointe Courte: lo fece senza alcuna esperienza nel campo e senza aver frequentato una scuola di cinema. “Scattavo foto di tutto ciò che mi interessava, e le sole nozioni che avevo allora erano relative alla fotografia: dove piazzare la macchina da presa, a quale distanza, quali luci usare e quali filtri applicare”.

Lei stessa era una gran lottatrice e a suo modo è sempre riuscita a raccontare con sguardo critico-creativo la società contemporanea, non dimenticando mai un filo di poesia surreale.

Furono le sue stesse fotografie dei primi anni di attività a ispirarle poi alcuni film, tra cui Ulysse (1982) al cui inizio dice di aver visto una foto sotto-sopra, perché di fatto l’aveva scattata con una macchina fotografica a soffietto, il cui visore restituisce l’immagine al contrario nell’inquadrarla. Lei, ignara anche sul piano della storia del cinema, avendo visto pochi film nella sua giovinezza, volle a tutti i costi fare film, per cui scrisse una sceneggiatura e con amici aveva creato una cooperativa per realizzarlo. Tra gli altri, come attore c’era uno sconosciuto Philippe Noiret e al montaggio un giovane Alain Resnais, che più tardi nel suo Hiroshima mon amour (del 1959) avrebbe usato una struttura narrativa molto simile a quella di Pointe Courte. Agnès Varda non badava a tradizioni o un linguaggio cinematografico consolidato, no, lei guardava intorno a sé per far rispecchiare nelle sue opere la vera realtà, ciò che vedeva con i suoi occhi, ciò che pensava, la sua visione del mondo, per fondere il tutto in un innovativo tutt’uno, molto personale. Infatti, in quei tempi, ancor prima della nascita della “nouvelle vague” con i vari Godard, Truffaut, Astruc, Démy, ecc., lei aveva usato luoghi realistici per girare le sue scene invece dei set ricostruiti all’interno di studi cinematografici, com’era la prassi allora. Stava sviluppando una sua “estetica documentaria” ispirata al neorealismo italiano del secondo dopoguerra e avrebbe poi continuato a usare e far evolvere questo suo linguaggio particolare, in cui fece uso di elementi di finzione e del documentario – linguaggio che per altro ha fatto scuola, poi, tra le giovani generazioni.

La Pointe Courte, il suo esordio nel mondo del cinema, fu un fiasco sul piano economico, però, e così dovette continuare per altri sette anni impegnandosi unicamente in cortometraggi.

Ciononostante lei è storicamente e ufficialmente considerata la “madre” della nouvelle vague proprio a causa di quel suo primo film, di cui ad esempio François Truffaut aveva scritto sui “Cahiers du Cinema” ai tempi in cui lui era ancora critico di cinema, che era “un’opera sperimentale, onesta e intelligente”.

Per le sue storie, Agnès Varda volgeva il suo interesse verso figure di ribelli o persone che combattevano per la loro vita. Lei stessa era una gran lottatrice e a suo modo è sempre riuscita a raccontare con sguardo critico-creativo la società contemporanea, non dimenticando mai un filo di poesia surreale. A uno dei tanti festival di cortometraggi incontrò Jacques Démy che poi era diventato suo marito, lui stesso un regista che condivideva la ricerca di nuove strade stilistiche. Il duo era strettamente legato nella vita (mai sul lavoro, dove ognuno realizzava le proprie opere) fino alla morte precoce di Démy nel 1990.

Cinque anni prima, nel 1985, Varda ha realizzato il suo maggiore successo internazionale, Sans toi ni loi (in italiano Senza tetto né legge) con cui vinse il Leone d’ora a Venezia. Vi si narrano alcune vicende di Mona, una giovane in giro, senza meta, quarantasette episodi fungono da brani singoli che vanno a comporre l’insieme che fornisce un ritratto formato da tante percezioni e punti di vista diversi. Con la sua tipica non linearità nel racconto, l’autrice ci immerge nel mondo dove ognuno ha una propria opinione, una propria visione, un proprio punto di vista, e ci mostra come ciò possa influenzare o meno l’altro/a.

La morte del suo amato Jacques non l’ha mai superata, non aveva mai dimenticato di nominarlo nelle sue presentazioni di film, e ha cercato di elaborarla in tre film, tra cui il primo Jacquot de Nantes lo fece subito l’anno dopo, nel 1991: ha unito brani dai film di Jacques, brani da alcuni backstage, il suo racconto dal vivo, ormai già malato, della sua infanzia e giovinezza per ricostruire le sue passioni da giovane, l’amore per l’animazione manuale e la scenografia, nonché altre immagini di lui morente.

La propria storia, Agnès ce la narra nello straordinario Les plages d’Agnès, datato 2008, un commovente e al contempo intrigante docu-film, ma anche un poema visivo dove per altro riprende tutte le tecniche di composizione, combinazione e costruzione delle immagini, prima e davanti alla cinepresa, e dopo al montaggio. Si inizia con le sue foto d’infanzia infilate come in un album nella sabbia di una spiaggia per finire con le immagini relative alla sua festa per l’ottantesimo compleanno, con le ottanta scope regalatele dai suoi amici e vicini, passando per altre spiagge che lei amava, come quella sulla costa mediterranea della sua gioventù e quella dell’isola di Noirmoutier davanti alla costa atlantica nelle vicinanze di Nantes, dove con Démy si erano comprati un vecchio mulino per passarci il tempo leggendo, scrivendo, ideando…

Simile alla caratteristica di tutti i registi della “nouvelle vague”, anche lei si proclamava appartenente al “cinema d’autore” che a dire di Alexandre Astruc usava “la cinepresa come una penna”. Lei stessa definiva il suo stile come “cine-écriture”, una scrittura cinematografica, o meglio, scrivere con le immagini. Fedele al suo motto iniziale, di fare cinema a partire dalla fotografia, lei “scopriva” quei tanti elementi nella realtà che sarebbero andati poi a comporre il film in fase di montaggio, dove era costante la ricerca di immagini che potessero dialogare tra di loro ai fini del tema o argomento trattato. Un montaggio che ritroviamo per certi versi in Godard e le cui origini si possono ascrivere al cinema di Sergej Ejzenstejn degli anni venti e trenta, fu lui il padre e inventore del cosiddetto “montaggio delle attrazioni”, dove i significati vennero espressi dalla combinazione e correlazione, ossia l’incontro-scontro, tra due immagini sulla base della giustapposizione di ciò che rappresentavano o di come lo rappresentavano individuando linee, forme, colori. Ecco cosa dominava il gioco delle luci, non come spesso nei film di oggi dove le teste parlanti si contendono ogni presenza e domina la parola. Quando sono le immagini a parlare, esse aprono l’immaginario di ognuno e ognuna che le guarda stimolando alla riflessione su ciò che si vede in rapporto a ciò con cui viene messo poi in connessione, a volte anche brandelli del proprio vissuto. Passato e presente, l’io e l’altro, noi e voi, si confondono per restituire una esperienza simile a una immersione nell’universo senza limiti…

Non a caso le maggiori influenze artistiche e letterarie di Agnès Varda vanno ricercate nell’arte, soprattutto il surrealismo, e nel romanzo di William Faulkner, Franz Kafka e Nathalie Sarraute, esponente quest’ultima del movimento del “nouveau roman” come lo stesso Alain Robbe-Grillet e Marguerite Duras, entrambi anche sperimentatori nel mondo delle immagini sulla Rive Gauche.

E a chi voleva attaccarle l’etichetta di cineasta femminista, Agnès Varda rispose che “feci tutto – le mie foto, le mie sculture e altri oggetti, i miei film e la mia vita – seguendo le mie idee e i miei termini, e non imitando il fare maschile”. Discussioni anche attorno a questo tema si trovano nel suo Visages, villages, cui abbiamo già accennato, dove per altro ha collaborato sua figlia maggiore Rosalie Varda, perché alle session fotografiche nei vari luoghi si alternano incontri con JR per parlare di cinema, arte e vita, giovinezza e vecchiaia, nascita e morte. Perché, come ci ha ricordato Roland Barthes nei suoi saggi sulla fotografia, una foto significa un esserci stati…