Gesellschaft | Il caso inglese

Archie, Alfie e l’interesse del minore

Contro il volere della famiglia, le corti inglesi impongono la cessazione dei trattamenti sanitari per il giovane inglese: “è nel suo interesse”.
marcelo_leal_unsplash.jpg
Foto: Marcelo Leal

Archie Battersbee è morto. Il giovane inglese, 12 anni, in aprile era stato ritrovato privo di sensi nell’abitazione di famiglia, auto-soffocatosi nel corso di una “sfida” vista su un noto social media. In ospedale viene accertato che le funzioni del tronco cerebrale sono assenti: il ragazzo viene dichiarato morto, a tenere attivi cuore e polmoni sono i macchinari. Il personale medico consiglia di interrompere i trattamenti, la famiglia si oppone: ne nasce una dolorosa battaglia giudiziaria, in cui le corti inglesi confermano che tenere Archie in un letto d’ospedale non sarebbe nei suoi “best interests, nel suo interesse. Sabato i macchinari sono stati spenti. Il caso ricorda quanto successo, nel 2018, a un altro bambino inglese, Alfie Evans, affetto da una grave malattia neurogenerativa. Pure allora le corti avevano imposto la cessazione delle cure contro la volontà della famiglia, in quanto nell’interesse del minore.

 

La cultura anglosassone e i best interests

 

Conoscere il contesto culturale inglese aiuta a capire meglio le due vicende. Da vari secoli, la cultura anglosassone riconosce ampio valore ai cosiddetti best interests of the child, quindi ai “migliori interessi” del minore. Cosa significa? In breve, chi prende una decisione per conto di un minore deve orientarsi agli interessi del giovane; non, invece, ai propri interessi, o a quelli di altre persone. Nel decidere sull’affidamento del figlio, ad esempio, una corte dovrà prendere a riferimento il benessere del giovane, e non ciò che conviene ai genitori. Nel decidere delle scelte scolastiche della figlia, una famiglia dovrà orientarsi alle esigenze, a breve e lungo termine, della ragazza stessa. E anche nel decidere su un intervento terapeutico, bisogna orientarsi primariamente all’interesse del giovane paziente.

 

Un principio universale

 

I best interests servono, in sostanza, a separare la posizione di chi decide rispetto a quella del giovane che è oggetto della decisione, e impongono che il riferimento primario siano gli interessi del minore. Il principio non è una specialità inglese ma è un pacifico fondamento del diritto minorile di tutto il mondo. Non solo lo si ritrova in vari Paesi (in Italia un criterio simile, sebbene non del tutto coincidente, viene detto favor minoris), ma, soprattutto, i best interests sono un caposaldo della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. All’art. 3, il trattato richiede che “in tutte le azioni riguardanti le persone di minore età, l’interesse superiore della persona di minore età deve essere una considerazione preminente”. La Convenzione è il trattato sui diritti umani più ratificato al mondo ed è vincolante per tutti gli Stati che l’hanno ratificato, come l’Italia.

Questo non significa, chiaramente, che l’interesse del minore si imponga necessariamente su ogni altra considerazione. Ci possono infatti essere esigenze altrui, oppure valori pubblici, a cui è ragionevole dare priorità. I best interests devono essere “una”, ma non necessariamente “la” considerazione preminente. Allo stesso tempo, i migliori interessi del minore non vanno confusi con la sua volontà. Ben può darsi, ad esempio, che il minore in un divorzio preferirebbe stare con un genitore, ma il suo interesse a lungo termine richieda di affidarlo all’altro.

 

Una carta bianca?

 

Soprattutto in ambiente anglosassone, che ha preso il principio molto seriamente, i best interests sono stati oggetto di ampia critica. A partire dagli anni Sessanta venne infatti notato come essi, in concreto, permettessero agli adulti di imporre facilmente la propria volontà. Affermare che una decisione fosse nell’interesse a lungo termine del giovane, anche se questi sul momento non si trovava d’accordo, “ma in futuro capirà”, permetteva di giustificare tantissime decisioni che, a ben vedere, non erano affatto orientate ai best interests del minore. Il principio, insomma, poteva rilevarsi una pericolosa carta bianca. Per queste ragioni, oggi si afferma che esso vada equilibrato con altri criteri, quali il diritto del minore a partecipare alle decisioni che lo riguardano e il rispetto della sua vita privata. Al crescere dell’età, bisognerà riconoscere sempre maggiore valore alla volontà della giovane persona, coinvolgendola ampiamente nelle decisioni.

 

Il tutore processuale

 

Per assicurarsi che gli interessi del giovane trovino giusta considerazione anche nei procedimenti giudiziari, vari Paesi anglosassoni conoscono la figura del “best interests attorney”. Quando lo ritiene opportuno, una corte può incaricare un tutore di intervenire nel processo per rappresentare il minore. Questi avrà il compito di tutelare la posizione del giovane in maniera indipendente dalla famiglia. Il tutore processuale non si sostituisce alla famiglia, ma permette di “far entrare” nel procedimento la prospettiva del minore, apportando elementi che permettono alla corte di discernere meglio quali siano i best interests del giovane.

 

La famiglia e le scelte terapeutiche

 

Ma a decidere sulle scelte terapeutiche di un minore non dovrebbe essere la famiglia?, ci si potrebbe chiedere, tornando ai due tragici casi inglesi. Di regola, la famiglia è posta nelle condizioni migliori per determinare ciò che meglio corrisponde agli interessi del figlio. Fintantoché le scelte adottate sono funzionali al benessere del giovane, è giusto che sia essa a decidere; e, salvo casi limite, è fondamentale venga coinvolta nel discernere la situazione.

Ci possono tuttavia essere situazioni in cui la volontà familiare e gli interessi del figlio non combacino. In Italia, in passato si discusse molto di genitori che, per ragioni religiose o sociali, si opponevano a trasfusioni di sangue o importanti interventi chirurgici sui propri figli. La giurisprudenza fu però chiara nel dare priorità agli interessi terapeutici del giovane rispetto ai – pur importanti – valori religiosi o culturali della famiglia.

Senza voler giudicare a distanza le vicende inglesi, ci si permetta due pensieri. L’attenzione per la posizione del minore che permea la cultura giuridica britannica è sacrosanta, e rispecchia i principi del diritto minorile che impongono di orientarsi al benessere della giovane persona. Detto ciò, nelle scelte terapeutiche l’interesse del minore dovrebbe venire identificato congiuntamente, lasciando che le decisioni si formino nel dialogo tra personale medico-sanitario, famiglia e, quando possibile, la persona di minore età. Il ricorso a procedimenti giudiziari che contrappongano famiglia e ospedali, invece, è bene rimanga confinato a pochi casi limite.

Bild
Profil für Benutzer Domenica Sputo
Domenica Sputo Mo., 08.08.2022 - 17:30

Le questioni centrali del caso Archie, ferme restando le peculiarità del diritto inglese e della minore età, restano la differenza fra coma, stato vegetativo persistente e morte celebrale, oltre all’accanimento terapeutico e all’incapacità della nostra società ad affrontare l’evento morte.
Anche nei casi in cui è accertato che le funzioni celebrali sono definitivamente compromesse, e a tenere attivi cuore e polmoni sono macchinari, non mancano le strumentalizzazioni.
In Italia, la morte corrisponde alla cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo (L. n. 578/1993), ma c’è chi gradirebbe una modifica di questa legge per determinare la morte in altro momento, con ogni conseguenza connessa…
In tutti questi drammatici e irreversibili casi, a prescindere dall’età del paziente, le uniche discussioni concrete fra personale medico-sanitario e famiglia non possono che essere sul come affrontare la morte, sul supporto psicologico nel lutto, nella piena consapevolezza che i trattamenti non possono più determinare alcun reale beneficio per il proprio congiunto. Non c’è altro dialogo, né decisione congiunta a cui aggrapparsi.

Mo., 08.08.2022 - 17:30 Permalink